Minima moralia
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Minima moralia

Meditazioni della vita offesa

Theodor W. Adorno, Renato Solmi

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Meditazioni della vita offesa

Theodor W. Adorno, Renato Solmi

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È passato ormai piú di mezzo secolo dagli anni in cui Adorno scrisse queste Meditazioni della vita offesa, che, ormai sottratte alle indigestioni e forzature ideologiche degli anni settanta, possono essere considerate nella loro prospettiva di ultimo classico tedesco. Attraverso centocinquantatre aforismi, con un'attitudine apparentemente divagante, Adorno ricompone l'intero orizzonte della vita sociale, politica, culturale dell'uomo occidentale, senza rinunciare mai all'idea di un suo possibile riscatto. Come scrive Leonardo Ceppa nell'introduzione, «serietà e gioco, teologia e clownerie, nostalgia borghese e impegno politico sembrano così felicemente mescolarsi in questo libro davvero unico nella storia della filosofia contemporanea».

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2014
ISBN
9788858416242

Parte terza

1946-47

Avalanche, veux-tu m’emporter dans ta chute?
BAUDELAIRE

101.
Pianta di serra. Si parla spesso di precoci e di tardivi, quasi sempre con un segreto augurio di morte per i primi; ma il discorso non regge. Chi matura presto, vive nell’anticipazione. La sua esperienza è aprioristica, una sensibilità che è presentimento, e saggia in immagini e parole ciò che solo piú tardi sarà corrisposto in cose ed uomini. Questa anticipazione, saziata per cosí dire in se stessa, allontana dal mondo esterno e presta facilmente al rapporto con quest’ultimo un carattere nevrotico e infantile. Se il prematuro è qualcosa di piú che il possessore di alcune abilità, è costretto in seguito a mettersi alla pari con se stesso: un obbligo volentieri presentato dai normali come un dovere morale. Egli deve conquistare faticosamente, al rapporto con gli oggetti, lo spazio che è stato occupato dalla sua rappresentazione: e deve apprendere perfino a soffrire. Il contatto col non-io, che, nei cosiddetti tardivi, non è mai disturbato dall’interno, diventa un bisogno per il precoce. La direzione narcisistica degli impulsi, documentata dal predominio dell’immaginazione nella sua esperienza, ritarda direttamente la sua maturazione. Solo piú tardi egli sperimenterà, con brutale violenza, situazioni, angosce, passioni, che erano state infinitamente piú miti nell’anticipazione; ed esse si trasformano, nel conflitto col suo narcisismo, in fattori di consunzione morbosa. Egli soccombe all’infantile, che aveva dominato un tempo quasi senza sforzo, e che ora reclama il suo prezzo; diventa immaturo, e maturi diventano gli altri, che sono stati, in ogni periodo, ciò che si aspettava che fossero, e a cui ora sembra imperdonabile ciò che colpisce l’ex precoce fuori di ogni proporzione. Egli viene assalito dalla passione; dopo essersi troppo a lungo cullato nella sicurezza della sua autarchia, smania invano, là dove un tempo costruiva ponti sull’aria. Non a caso la grafia dei precoci rivela tratti infantili. Il precoce è uno scandalo dell’ordine naturale, e la maligna salute gode del pericolo che lo minaccia, come la società diffida di lui, in quanto vede in lui la negazione visibile dell’equazione di successo e sforzo. Nella sua economia interiore si compie, inconsapevole ma spietato, il castigo che gli è stato sempre augurato dagli altri. Il premio che gli era stato offerto con fallace benevolenza, viene ritirato. Anche nel destino psicologico c’è un’istanza che provvede a che tutto venga ricambiato. La legge individuale è una crittografia dello scambio di equivalenti.
102.
Chi va piano va sano e va lontano. Correre per la strada ha l’espressione del terrore. È già lo stramazzare della vittima, prefigurato nel suo tentativo di sfuggire alla caduta. Il portamento del capo, che vorrebbe restare a galla, è quello di chi affoga, il volto tirato arieggia a una smorfia di dolore. Deve guardare diritto davanti a sé, senza voltarsi, se non vuole rischiare di incespicare, come se avesse alle spalle l’inseguitore la cui vista impietrisce. Una volta si fuggiva a gambe levate di fronte ai pericoli che erano troppo terribili perché si potesse pensare di farvi fronte, e senza saperlo ne testimonia ancora chi corre dietro all’autobus che si allontana. La disciplina della circolazione non ha piú bisogno di tener conto delle belve feroci, ma non si può dire che essa abbia pacificato la corsa. Questa estrania, e cioè ci costringe a guardare con altri occhi, il camminare borghese. Si rende visibile la verità che la sicurezza è superficiale e apparente, e che si tratta pur sempre, in fin dei conti, di sfuggire alle potenze scatenate della vita, quand’anche non siano che i veicoli. Il fatto che il corpo sia abituato a camminare come alla sua andatura normale risale al buon tempo antico. Era il modo borghese di cambiare di posto: demitologizzazione fisica, per cosí dire, libera dalla costrizione dell’incedere ieratico, del pellegrinaggio nomade, della fuga affannosa. La dignità umana insisteva sul diritto a camminare, un ritmo che non viene estorto al corpo dal comando o dal terrore. Passeggiare, andare a zonzo, flâner, erano un passatempo dell’individuo privato, un’eredità del passeggio feudale nel secolo decimonono. Insieme all’epoca liberale si estingue anche l’abitudine a camminare, anche dove non si va in automobile. Il movimento giovanile1, che ha sperimentato in anticipo queste tendenze dando prova di un masochismo infallibile, ha dichiarato guerra alle gite domenicali in compagnia dei genitori e le ha sostituite con marce forzate volontarie, che ha battezzato col nome medievale di «Fahrt»2, senza sapere che, per questo, sarebbe stato disponibile, di lí a poco, il modello Ford. Forse nel culto delle velocità tecniche, come nello sport, si nasconde il bisogno di padroneggiare lo spavento della corsa, allontanandola, per cosí dire, dal proprio corpo e lasciandola insieme sovranamente indietro: il trionfo del contachilometri che sale placa ritualmente l’angoscia del perseguitato. Ma allorché si grida a qualcuno «corri!», dal bambino che deve salire al primo piano a prendere il borsellino che la mamma ha dimenticato, fino al prigioniero a cui la scorta intima di fuggire per avere il pretesto di assassinarlo, si rende percettibile la violenza arcaica che, per tutto il resto del tempo, guida silenziosamente ogni passo.
103.
Il ragazzo della landa3. Ciò che temiamo piú di ogni altra cosa, senza un reale motivo, apparentemente ossessionati da idee fisse, ha la proterva tendenza ad accadere realmente. La domanda che non vorremmo udire a nessun costo, ce la porrà un individuo d’animo meschino in tono di perfido e amichevole interessamento; la persona da cui vorremmo, piú che da ogni altra, tener lontana l’amata, l’inviterà, anche da tremila miglia di distanza, grazie a benevole raccomandazioni, e darà origine a quel tipo di conoscenze da cui incombe il pericolo. Resta a vedere fino a che punto siamo noi stessi a provocare questi orrori; se, per esempio, un silenzio troppo ansioso non mette quella domanda sulla lingua del maligno; se non si provoca il fatale contatto pregando l’intermediario, con sciocca e distruttiva fiducia, di non voler fare da intermediario. La psicologia sa che chi si dipinge il male, in qualche modo lo vuole. Ma come accade che il male gli viene incontro con tanto zelo? Alla fantasia paranoide corrisponde qualcosa nella realtà che essa deforma. Il latente sadismo di tutti indovina infallibilmente la latente debolezza di tutti. E la fantasia di persecuzione si attacca: dovunque si manifesti, ci sono spettatori irresistibilmente spinti ad imitarla. Ciò accade tanto piú facilmente, quando si contribuisce a darle ragione facendo ciò che l’altro teme. «Un pazzo fa molti pazzi»: l’abissale solitudine della follia ha una tendenza alla collettivizzazione, che chiama l’incubo in vita. Questo meccanismo patologico concorda col meccanismo sociale oggi determinante, per cui gli uomini socializzati e ridotti, dalla socializzazione, in disperato isolamento, sono assetati di convivenza, e confluiscono in gelidi mucchi. cosí la follia diventa epidemica: le sètte stravaganti crescono con lo stesso ritmo delle grandi organizzazioni. È il ritmo della distruzione totale. La realizzazione delle fantasie di persecuzione dipende dalla loro affinità con l’essenza sanguinosa. La violenza su cui si basa la civiltà significa persecuzione di tutti ad opera di tutti, e il malato di persecuzione si reca pregiudizio solo in quanto attribuisce al prossimo ciò che è opera del tutto, nel disperato tentativo di rendere l’incommensurabilità commensurabile. Egli si brucia, perché vorrebbe afferrare immediatamente, per cosí dire con le mani, la follia oggettiva a cui somiglia, mentre l’assurdo consiste proprio nella perfetta mediazione. Egli cade vittima della conservazione del complesso di accecamento. Anche la piú falsa e insensata rappresentazione di avvenimenti, la proiezione piú folle, contiene lo sforzo inconsapevole della coscienza di conoscere la legge mortale mercè la quale si perpetua la vita della società. L’aberrazione non è, in realtà, che il cortocircuito dell’adattamento: la follia manifesta dell’uno chiama erroneamente nell’altro la follia del tutto col suo vero nome, e il paranoico è la caricatura della vera vita, in quanto sceglie di adeguarsi personalmente alla falsa. Ma come nel cortocircuito sprizzano le scintille, cosí follia e follia comunicano fulmineamente nella verità. I punti di contatto sono le conferme lampanti delle fantasie di persecuzione: conferme che dànno apparentemente ragione al malato, e lo sprofondano tanto piú nel suo abisso. La superficie dell’esistenza si richiude subito, e gli dimostra che le cose non vanno poi cosí male e che egli è pazzo. Egli anticipa soggettivamente lo stato in cui la follia oggettiva e l’impotenza del singolo trapassano immediatamente l’una nell’altra: il fascismo, come dittatura di malati di persecuzione, realizza tutti i terrori delle vittime. Ecco perché si può decidere solo post factum se un sospetto eccessivo sia paranoico o adeguato alla realtà, la fievole eco privata della furia imperversante della storia. La psicologia non arriva fino all’orrore.
104.
Golden Gate. All’amante offeso e messo da parte balena d’improvviso una verità, cruda e abbagliante, come quando acuti dolori illuminano l’interno del corpo. Egli riconosce che nell’intimo dell’amore accecato – che non ne sa nulla e nulla potrebbe saperne – vive l’esigenza della liberazione da ogni accecamento. Egli ha subíto un torto; e di qui deduce l’esigenza del diritto, che – nello stesso tempo – è costretto a respingere, poiché ciò che desidera non può nascere che dalla libertà. In tale angustia il respinto diventa uomo. Come l’amore tradisce – senza possibilità di riscatto – l’universale per il particolare, in cui solo torna onore al primo, cosí l’universale – come autonomia del prossimo – gli si rivolta mortalmente contro. Proprio il diniego, in cui si è affermato l’universale, appare all’individuo come esclusione dall’universale; chi ha perso l’amore, si sa abbandonato da tutti, e per questo sprezza ogni conforto. Nell’assurdità del rifiuto egli comincia a rendersi conto della non-verità di ogni realizzazione puramente individuale. Ma con questo egli si ridesta alla paradossale coscienza dell’universale: dell’inalienabile e incontestabile diritto dell’uomo, di essere amato da colei che ama. Con la sua richiesta di esaudimento, che non è fondata su nessun titolo e su nessuna pretesa, egli fa appello ad un’istanza sconosciuta, che gli promette – per pura grazia – ciò che insieme gli spetta e non gli spetta. Il segreto della giustizia nell’amore è il superamento del diritto, a cui l’amore allude col suo muto gesto. «Sempre sciocco, ingannato, soverchiato, – cosí, sempre, dev’essere l’amore»4.
105.
Solo un quarto d’ora. Notte insonne: si può definire con una formula: ore tormentose, trascinate senza la prospettiva di una fine o dell’alba, nel vano sforzo di dimenticare la vuota durata. Ma ad incutere spavento sono le notti insonni in cui il tempo si contrae e scorre infruttuosamente fra le dita. Uno spegne la luce nella speranza di lunghe ore di riposo, che gli possano recare qualche conforto. Ma mentre non può calmare i suoi pensieri, va sprecato per lui il tesoro prezioso della notte, e prima di essere in grado di non vedere piú nulla sotto le palpebre accese, sa che è ormai troppo tardi, e che presto il mattino lo farà destare di soprassalto. Può darsi che, per il condannato a morte, l’ultimo spazio di tempo che gli rimane passi cosí, inarrestabile e inutilizzato. Ma ciò che si rivela in questa contrazione delle ore è esattamente l’opposto del tempo realizzato. Mentre in questo la forza dell’esperienza spezza l’incantesimo della durata e concentra nel presente il passato e il futuro, nella notte insonne e affannosa la durata genera un orrore intollerabile. La vita umana si riduce a un istante non già perché sopprima e conservi in sé la durata, ma perché cade in balía del nulla, e si ridesta alla coscienza della sua vanità di fronte alla cattiva infinità del tempo stesso. Nel ticchettio fragoroso dell’orologio si percepisce, per cosí dire, lo scherno degli anni luce per la breve durata della nostra esistenza. Le ore che sono svanite come secondi prima ancora che il senso interno le abbia afferrate e fatte sue, e che lo travolgono con sé nella loro caduta precipitosa, gli dicono che anch’esso, come ogni memoria, è votato all’oblio nella notte cosmica. Oggi gli uomini sono costretti, che lo vogliano o meno, a prenderne atto. Nello stato di perfetta impotenza in cui si trova, lo spazio di tempo che gli è stato lasciato da vivere appare all’individuo come una breve dilazione prima dell’esecuzione della sentenza. Egli non si aspetta piú di poter vivere la propria vita fino in fondo, secondo la misura delle sue forze. La prospettiva della morte violenta e della tortura, che è presente ad ognuno, si prolunga nell’angoscia di chi sa che i giorni sono contati, e che la lunghezza della propria vita è soggetta a leggi statistiche; che la possibilità di invecchiare è diventata, per cosí dire, un privilegio sleale, che deve essere carpito astutamente alla media degli uomini. Forse la quota di vita che la società mette a disposizione dei suoi membri, riservandosi di revocarla in qualsiasi momento, è già esaurita. Il corpo registra questa angoscia nella fuga delle ore. Il tempo vola.
106.
Tutti i fiorellini5. Il detto di Jean Paul, che i ricordi sono l’unico possesso che nessuno ci può togliere, appartiene all’armamentario dell’impotente conforto sentimentale, che vorrebbe far credere al soggetto che il suo ripiegamento nell’interiorità, la sua rinuncia, è precisamente la realizzazione da cui desiste. Con la costituzione di un archivio di se stesso, il soggetto sequestra il proprio patrimonio di esperienze e lo trasforma in una proprietà, e cioè di nuovo in qualcosa di affatto esteriore al soggetto. La trascorsa vita interiore diventa una specie di mobilio, come – viceversa – ogni pezzo d’artigianato è stato concepito fin dall’inizio come un ricordo ligneo. Nulla di piú caduco dell’intérieur in cui l’anima sistema la raccolta dei suoi memorabilia e delle sue curiosità. I ricordi non si lasciano conservare in cassetti e in scomparti, ma in essi il passato s’intreccia indissolubilmente al presente. Nessuno può disporne con la libertà e con l’arbitrio il cui elogio gonfia le pagine di Jean Paul. Proprio quando diventano oggettivi e dominabili, quando il soggetto li ritiene definitivamente in suo possesso, i ricordi sbiadiscono come delicati tappeti esposti alla cruda luce del sole. Ma quando, protetti dall’oblio, conservano la loro forza, sono in pericolo come ogni altra cosa vivente. La concezione di Bergson e di Proust – tutta rivolta contro la reificazione – secondo la quale il presente, l’immediatezza, si costituisce solo mediatamente attraverso la memoria, attraverso l’interazione di ora ed allora, ha quindi, oltre al suo aspetto salutare, anche un aspetto infernale. Come ogni esperienza anteriore è reale solo in quanto è sottratta dal ricordo involontario all’immobilità cadaverica del suo isolamento, cosí nessun ricordo è garantito, autonomo, indifferente verso il futuro di chi lo coltiva; nessun passato è garantito dalla maledizione del presente empirico solo perché viene accolto nella rappresentazione. Il piú bel ricordo che ci resta di un altro può essere revocato, e in quel che ha di piú sostanziale, dall’esperienza successiva. Chi, dopo aver amato, tradisce l’amore, non rovina solo l’immagine del passato, ma il passato stesso. Con irresistibile evidenza penetra nel ricordo un gesto involontario al momento del risveglio, un tono di voce assente, un’impercettibile ipocrisia del piacere, e fa già della vicinanza di un tempo l’estraneità in cui si è trasformata oggi. La disperazione ha l’accento dell’irrevocabile, non perché le cose non potrebbero andare meglio domani, ma perché trascina con sé il passato nel suo abisso. Ecco perché è sciocco e sentimentale voler conservare intatto dalla torbida fiumana del presente qualcosa del passato. A cui non resta altra speranza che quella di emergere ancora una volt...

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