Tutta la luce che non vediamo
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Tutta la luce che non vediamo

Anthony Doerr

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Tutta la luce che non vediamo

Anthony Doerr

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About This Book

Da questo romanzo bestseller la serie Netflix.
È il 1934, a Parigi, quando a Marie-Laure, una bambina di sei anni con i capelli rossi e il viso pieno di lentiggini, viene diagnosticata una malattia degenerativa: sarà cieca per il resto della vita. Ne ha dodici quando i nazisti occupano la città, costringendo lei e il padre a trovare rifugio tra le mura di Saint-Malo, nella casa vicino al mare del prozio. Attraverso le imposte azzurre sempre chiuse, perché così impone la guerra, le arriva fragorosa l'eco delle onde che sbattono contro i bastioni. Qui, Marie-Laure dovrà imparare a sopravvivere a un nuovo tipo di buio. In quello stesso anno, in un orfanotrofio della Germania nazista vive Werner, un ragazzino con i capelli candidi come la neve e una curiosità esuberante per il mondo. Quando per caso mette le mani su una vecchia radio, scopre di avere un talento naturale per costruire e riparare questi strumenti di fondamentale importanza per le tattiche di guerra, un dono che si trasformerà nel suo lasciapassare per accedere all'accademia della Gioventù hitleriana, e poi partire in missione per localizzare i partigiani. Sempre più conscio del costo in vite umane del suo operato, Werner si addentra nel cuore del conflitto. Due mesi dopo il D-Day che ha liberato la Francia, ma non ancora la cittadina fortificata di Saint-Malo, i destini opposti di Werner e Marie-Laure convergono e si sfiorano in una limpida bolla di luce.

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Information

Publisher
RIZZOLI
Year
2014
ISBN
9788858673607

Tre

Giugno 1940

Lo château

Due giorni dopo la fuga da Parigi, Marie-Laure e suo padre entrano nella cittadina di Évreux. I ristoranti sono sbarrati oppure pieni zeppi. Due signore in abito da sera stanno acquattate fianco a fianco sui gradini della cattedrale. Un uomo giace faccia a terra tra i banchi del mercato, privo di conoscenza o peggio.
Niente servizio postale. Linee telegrafiche interrotte. Il quotidiano più recente ha trentasei ore. In prefettura la fila per i buoni benzina esce dalla porta e serpeggia fin dietro l’angolo.
I primi due alberghi sono al completo. Il terzo non apre nemmeno la porta. Di tanto in tanto, il fabbro si sorprende a gettarsi un’occhiata alle spalle.
«Papà» mormora Marie-Laure. Confusa. «I miei piedi.»
Lui si accende una sigaretta: ultime tre. «Non manca molto, Marie.»
Alla periferia occidentale di Évreux la strada si svuota e la campagna si appiattisce. Daniel controlla e ricontrolla l’indirizzo che gli ha dato il direttore. Monsieur François Giannot. 9 rue Saint-Nicolas. Ma quando la raggiungono, la casa del signor Giannot è in fiamme. Nel crepuscolo senza vento, foschi cumuli di fumo s’innalzano a fiotti tra gli alberi. Un’auto è andata a sbattere contro un angolo della casetta del portinaio e ha strappato il cancello dai cardini. La dimora – o ciò che ne resta – è splendida: venti portefinestre sulla facciata, grandi persiane ridipinte di fresco, siepi perfettamente potate sul davanti. Un château.
«C’è odore di fumo, papà.»
Lui la accompagna lungo il brecciolino. Lo zaino – o forse è la pietra sul fondo – gli sembra più pesante a ogni passo. Nessuna pozzanghera a baluginare tra la ghiaia, nessuno sciame di pompieri a darsi da fare. Due giare gemelle ribaltate sui gradini esterni. Un lampadario in frantumi riverso sullo scalone dell’ingresso.
«Cos’è che brucia, papà?»
Dal crepuscolo fumoso, spingendo sulla ghiaia un carrello da cucina, avanza verso di loro un ragazzino striato di cenere, non più grande di Marie-Laure. Le molle e i cucchiai d’argento appesi al carrello fanno rumore di ferraglia e di campane, e le ruote sbatacchiano e ballonzolano. A ciascun angolo sorride un lucido cherubino.
Il fabbro chiede: «È questa la casa di François Giannot?».
Il ragazzino passa senza badare né alla richiesta né al richiedente.
«Sai cos’è successo a…?»
Lo sferragliare del carrello si allontana.
Marie-Laure dà uno strattone al cappotto del padre. «Papà, ti prego.»
Stagliata contro gli alberi nel suo cappottino, è pallida e spaventata come non l’ha mai vista. Le hai mai chiesto tanto, sinora?
«C’è una casa bruciata, Marie, e gente che si porta via cose.»
«Quale casa?»
«La casa che cercavamo, per cui abbiamo camminato tanto.»
Sopra la testa della figlia Daniel vede le braci dei telai delle porte rosseggiare e spegnersi al passaggio del vento. Uno squarcio nel tetto inquadra il cielo che scurisce.
Dalla fuliggine spuntano altri due ragazzini che reggono un ritratto in cornice dorata, alto il doppio di loro, l’effigie di qualche bisnonno morto e sepolto che fissa in cagnesco la sera. Il fabbro alza le mani per rallentarli. «Sono stati gli aerei?»
Uno fa: «Dentro c’è ancora un sacco di roba». La tela del dipinto s’increspa.
«Sapete dove sia Monsieur Giannot?»
Il secondo dice: «È scappato ieri. Con gli altri. Londra».
«Non gli dire niente» fa il primo.
I due sobbalzano lungo il vialetto con il loro tesoro e vengono inghiottiti dall’oscurità.
«Londra?» bisbiglia Marie-Laure. «L’amico del direttore è a Londra?»
Ai loro piedi fuggono fogli di carta annerita. Tra gli alberi sussurrano ombre. Un melone spaccato dondola sul vialetto come una testa mozzata. Il fabbro ne sta passando troppe. Per tutto il giorno, chilometro dopo chilometro, si è concesso di immaginare che sarebbero stati accolti con cibarie: piccole patate dal nocciolo rovente in cui lui e Marie-Laure avrebbero affondato forchettate di burro. Funghi e scalogni, uova sode e besciamella. Caffè e sigarette. Lui avrebbe consegnato la pietra a Monsieur Giannot, e Giannot si sarebbe cavato di tasca la lorgnette d’ottone, e con le lenti dinanzi agli occhi placidi avrebbe sentenziato: vera o falsa. Poi l’avrebbe sotterrata in giardino, o nascosta dietro un pannello segreto in chissà che punto della parete, e sarebbe finita lì. Missione compiuta. “Je ne m’en occupe plus.” Daniel e Marie-Laure avrebbero avuto una stanza tutta per loro, si sarebbero fatti il bagno, magari qualcuno gli avrebbe lavato i vestiti. Monsieur Giannot avrebbe magari raccontato buffi aneddoti sull’amico direttore, e la mattina dopo gli uccelli avrebbero cantato e un giornale fresco di stampa avrebbe annunciato la fine dell’invasione, qualche ragionevole concessione. Lui avrebbe fatto ritorno al deposito delle chiavi, e trascorso le serate a installare finestrelle a ghigliottina su casette di legno. Bonjour, bonjour. Tutto come prima.
Solo che niente è come prima. Gli alberi fremono e la casa incenerisce e, mentre se ne sta ritto sulla ghiaia del vialetto, a luce del giorno quasi esaurita, al fabbro si presenta un pensiero inquietante: “Forse ci stanno cercando. Forse qualcuno sa cosa mi porto appresso”.
A passo svelto, riporta Marie-Laure sulla strada.
«Papà, i piedi.»
Lui si sposta lo zaino sul davanti e si fa cingere il collo con le braccia e se la issa sulla schiena. Superano la casetta sfondata e l’auto schiantata e prendono non a sinistra verso il centro di Évreux ma a destra. Sagome indistinte passano pedalando. Volti emaciati e venati di timore o sospetto o tutt’e due. O forse sono gli occhi del fabbro a essere venati.
«Non correre così» implora Marie-Laure.
Si riposano tra le erbacce venti passi fuori dalla carreggiata. Solo notte che cade a picco e civette che si chiamano tra gli alberi e pipistrelli che setacciano insetti sopra il fosso al ciglio della strada. Un diamante, rammenta il fabbro a se stesso, non è che carbonio calcato per un’eternità fra le viscere della terra e sospinto in superficie lungo un camino vulcanico. Qualcuno lo sfaccetta, qualcun altro lo lucida. Non alberga maledizioni più di quanto possa albergarne una foglia, uno specchio, una vita. A questo mondo esiste solo il caso, il caso e la fisica.
E comunque, quel che si porta appresso lui è un pezzo di vetro e nient’altro. Un falso bersaglio.
Alle sue spalle, sopra Évreux, la muraglia di nubi si accende una volta, anzi due. Folgori? Sulla strada dinanzi a sé, Daniel scorge diversi ettari di fieno da tagliare e i delicati profili di fabbricati agricoli bui: una casa e una stalla. Nessun movimento.
«Marie, ho visto un albergo.»
«Avevi detto che erano tutti pieni.»
«Questo ha un’aria accogliente. Su, non è lontano.»
Di nuovo si carica in spalla la figlia. Meno di un chilometro. Man mano che si avvicinano, le finestre dell’abitazione rimangono buie. La stalla è cento metri più in là. Lui drizza le orecchie al di sopra del frastuono del sangue in testa. Né cani né torce. Forse sono scappati anche i contadini. Posa Marie-Laure davanti al portone della stalla e bussa adagio e aspetta e bussa un’altra volta.
Il lucchetto è un Burguet a scatto singolo, nuovo di zecca; Daniel, con i suoi arnesi, lo forza senza difficoltà. All’interno ci sono sacchi d’avena e secchi d’acqua e tafani che circolano sonnolenti, ma niente cavalli. Il fabbro apre una posta vuota, aiuta Marie-Laure a sistemarsi in un angolo e le toglie le scarpe.
«Voilà» dice. «Un cliente è appena entrato nella hall col suo cavallo, perciò c’è questa puzza. Ma i facchini lo stanno rimandando fuori. Eccolo che se ne esce. Ciao ciao, cavallo! A dormire nella stalla, per favore!»
Lei ha un’espressione remota. Sperduta.
Dietro la casa c’è un orto. Nella penombra Daniel intravede rose, porri, lattughe. Fragole, perlopiù acerbe. Tenere carotine bianche con la terra raggrumata tra le fibre. Tutto tace: nessuna apparizione di contadini armati di fucile alle finestre. Il fabbro si prende una camiciata di verdure, riempie un secchio stagnato sotto un rubinetto, chiude adagio la porta della stalla e al buio dà da mangiare alla figlia. Poi ripiega il cappotto, glielo posa sotto il capo come cuscino e le pulisce il viso con la propria camicia.
Ultime due sigarette. Tira dentro, butta fuori.
Segui un percorso logico. Per ogni effetto c’è una causa, per ogni frangente una soluzione. A ogni serratura la sua chiave. Puoi tornare a Parigi, puoi rimanere qui, puoi proseguire.
Dall’esterno viene il grido lieve dei gufi. Rombo lontano di un tuono o d’artiglieria o tutt’e due. Daniel dice: «Quest’alberghetto è davvero a buon mercato, ma chérie. Il signore dietro al banco mi ha detto che la nostra camera costava quaranta franchi a notte ma ce la lasciava a venti se ci facevamo noi il letto». L’ascolta respirare. «Perciò io gli ho detto: “Benissimo, certo che ci facciamo il letto”. E lui mi fa: “D’accordo, le porto assi, chiodi e martello”.»
Marie-Laure continua a non sorridere. «Adesso andiamo a cercare lo zio Étienne?»
«Sì, tesoro.»
«Quello matto al settantasei per cento?»
«Era insieme a tuo nonno – suo fratello – quando il nonno morì. In guerra. “Si è preso un po’ di gas in testa”, così dicevano. È tornato che vedeva cose.»
«Che tipo di cose?»
Rombo di tuono che scricchiola più vicino. La stalla trema appena.
«Cose che non esistevano.»
I ragni tessono le loro tele fra le travi. Le falene svolazzano contro le finestre. Comincia a piovere.

L’esame di ammissione

L’esame di ammissione agli Istituti di educazione nazionalpolitica, detti anche «Napola», si tiene a Essen, una trentina di chilometri a sud dello Zollverein, in una sala da ballo calda come un forno, con una terna di radiatori grossi come quelli dei camion attaccati alla corrente sulla parete in fondo. Uno dei tre butta clangori e vapori per tutto il giorno, malgrado diversi tentativi di spegnerlo. Dalle travi penzolano bandiere del ministero della Guerra vaste come carri armati.
Le reclute sono cento, tutte di sesso maschile. Un emissario degli Istituti in divisa nera fa schierare i ragazzi in fila per quattro. Tintinnio di medaglie sul petto a ogni suo passo. «Voi» dichiara «state cercando di entrare nelle scuole più prestigiose del mondo. Gli esami dureranno otto giorni. Prenderemo solo i più puri, solo i più forti.» Un secondo emissario distribuisce uniformi: camicia bianca, calzoncini bianchi, calzini bianchi. I ragazzi si levano gli abiti sul posto.
Werner conta ventisei altri coetanei. Tolti due, sono tutti più alti di lui. Tolti tre, sono tutti biondi. Nessuno porta gli occhiali.
I ragazzi trascorrono l’intera prima mattinata nei nuovi completi bianchi, a compilare questionari fissati su cartellette rigide. Non si sente un rumore salvo il raschio delle matite e il trepestio degli esaminatori e il clangore dell’enorme termosifone.
Dov’è nato tuo nonno? Di che colore sono gli occhi di tuo padre? Tua madre ha mai lavorato in un ufficio? Su centodieci domande circa la propria discendenza, Werner è in grado di dare sedici risposte precise. Il resto sono congetture.
Da dove viene tua madre?
Non ci sono opzioni al passato. Werner scrive: Dalla Germania.
Da dove viene tuo padre?
Dalla Germania.
Che lingua parla tua madre?
Tedesco.
Gli torna in mente Frau Elena com’era stamattina, ritta in camicia da notte accanto alla lampada dell’ingresso, a controllargli la borsa da viaggio, con tutti gli altri bambini addormentati. Sembrava persa, stordita, come se non riuscisse ad assimilare la rapidità del cambiamento. Gli ha detto che era fiera di lui. Gli ha detto che doveva fare del suo meglio. «Sei un ragazzo intelligente» gli ha detto. «Far...

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