Da zero a uno
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Da zero a uno

I segreti delle startup, ovvero come si costruisce il futuro

Peter Thiel

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Da zero a uno

I segreti delle startup, ovvero come si costruisce il futuro

Peter Thiel

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Nel mondo del business ogni evento accade una volta sola. Il prossimo Bill Gates non costruirà un sistema operativo. Il prossimo Larry Page o Sergey Brin non realizzerà un motore di ricerca. E il prossimo Mark Zuckerberg non creerà un social network. Se state copiando le loro imprese, non state imparando molto da loro. Ovviamente è più facile copiare un modello che realizzare qualcosa di nuovo. Fare quello che sappiamo già fare porta il mondo da 1 a n, un cambiamento incrementale che aggiunge un po' di qualcosa che ci è familiare. Per costruire il futuro occorre invece un cambiamento verticale, trasformativo: bisogna andare da 0 a 1. L'atto della creazione è unico, così come il momento in cui essa avviene, e il risultato è qualcosa di originale e inusuale, che va perseguito a tutti i costi, perché chi non lo farà è destinato a scomparire. Da zero a uno tratta di come costruire imprese che creano cose nuove e si basa su tutto ciò che Peter Thiel, imprenditore seriale e pensatore controcorrente, ha imparato in prima persona come cofondatore di PayPal e Palantir, e poi investitore in centinaia di startup, comprese Facebook e SpaceX. La sua filosofia d'impresa, la densa analisi delle questioni fondamentali dell'innovazione e del futuro, e il suo sguardo dietro le quinte delle imprese di maggior successo della Silicon Valley offrono una guida inestimabile a tutti coloro che vogliono mettersi in gioco e creare la propria azienda. Nessuna formula per il successo però: i percorsi migliori sono quelli nuovi e mai sperimentati.

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Information

Publisher
ETAS
Year
2015
ISBN
9788858676707

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La sfida del futuro

Ogni volta che faccio a qualcuno un colloquio di lavoro, mi piace porgli questa domanda: “Qual è la verità importante su cui pochissime persone sono d’accordo con te?”.
Sembra una domanda facile, perché è diretta. In realtà, è molto difficile rispondere. È intellettualmente difficile, perché la conoscenza che viene insegnata comunemente a scuola si basa per definizione sul consenso condiviso. Ed è anche psicologicamente difficile, perché chiunque tenti di rispondere deve dire qualcosa che sa essere impopolare. Il pensiero brillante è raro, ma il coraggio è una merce ancora più rara del genio.
Di solito, sento risposte come queste:
“Il nostro sistema educativo è guasto e ha urgentemente bisogno di essere aggiustato”.
“L’America è eccezionale”.
“Dio non esiste”.
Si tratta di risposte sbagliate. La prima e la seconda affermazione possono essere vere, ma molte persone sono già d’accordo con esse. La terza affermazione semplicemente si schiera in un dibattito comune. Una buona risposta assume questa forma: “La maggior parte della gente crede in x, ma la verità è l’opposto di x”. Vi darò la mia risposta personale più avanti.
Che cosa ha a che fare con il futuro questa domanda controcorrente? Nell’accezione più limitata del termine, il futuro è semplicemente l’insieme di tutti i momenti che devono arrivare. Ciò che però rende il futuro peculiare e importante non è il fatto che non sia ancora arrivato, ma piuttosto che sarà un momento in cui il mondo apparirà diverso da oggi. In questo senso, se nella nostra società nei prossimi cento anni non cambierà nulla, il futuro sarà ancora cent’anni di là da venire. Se le cose cambieranno radicalmente nei prossimi dieci anni, allora il futuro sarà a portata di mano. Nessuno può prevedere esattamente il futuro, ma sappiamo due cose: sarà diverso, e deve avere le sue radici nel mondo di oggi. La maggior parte delle risposte alla domanda controcorrente sono modi diversi di vedere il presente; le buone risposte sono quanto di più vicino a uno sguardo nel futuro.

DA ZERO A UNO: IL FUTURO DEL PROGRESSO

Quando pensiamo al futuro, speriamo in un domani di progresso. Il progresso può assumere una di queste due forme. Il progresso orizzontale o estensivo significa copiare le cose che funzionano: passare da 1 a n. È facile da immaginare perché sappiamo già a che cosa assomiglia. Il progresso verticale o intensivo significa fare cose nuove: andare da 0 a 1. È più difficile da immaginare perché richiede di fare qualcosa che nessuno ha mai fatto prima. Se prendete una macchina da scrivere e ne costruite 100, avete realizzato un progresso orizzontale. Se avete una macchina da scrivere e realizzate un word processor, avete compiuto un progresso verticale.
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Al livello macro, la singola parola che definisce il progresso orizzontale è globalizzazione: prendere le cose che funzionano in un posto e farle funzionare ovunque. La Cina è l’esempio paradigmatico della globalizzazione; il suo piano ventennale è diventare come gli Stati Uniti di oggi. I cinesi hanno tranquillamente copiato tutto quello che ha funzionato nel mondo sviluppato: le ferrovie del XIX secolo, l’aria condizionata del XX e persino intere città. Magari saltano alcuni passaggi durante la strada – per esempio andando direttamente al wireless senza installare linee terrestri – ma comunque stanno copiando.
Il singolo termine che identifica il progresso verticale, da 0 a 1, è tecnologia. Il rapido progresso dell’informatica negli ultimi decenni ha reso la Silicon Valley la capitale della “tecnologia” in generale; tuttavia non c’è alcuna ragione perché la tecnologia debba essere limitata ai computer. Propriamente inteso, ogni nuovo metodo per realizzare qualcosa è tecnologia.
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Dato che la globalizzazione e la tecnologia sono modalità diverse di progresso, è possibile averle entrambe, averle in alternativa oppure non avere nessuna delle due. Per esempio, gli anni dal 1815 al 1914 furono un periodo di contemporanea rapida globalizzazione e sviluppo tecnologico. Tra la Prima guerra mondiale e il viaggio di Kissinger per riaprire le relazioni con la Cina ci fu un rapido sviluppo tecnologico, ma non molta globalizzazione. A partire dal 1971 abbiamo assistito a una rapida globalizzazione unita a un limitato sviluppo tecnologico, per lo più confinato alle IT.
Quest’era di globalizzazione ha reso facile immaginare che i prossimi decenni porteranno ancora più convergenza e uniformità. Persino il nostro linguaggio quotidiano suggerisce che crediamo in una qualche fine tecnologica della storia: la divisione mondiale tra i cosiddetti paesi sviluppati e in via di sviluppo sottintende che il mondo “sviluppato” abbia già raggiunto il raggiungibile, e che le nazioni più povere abbiano solo bisogno di conseguirlo a loro volta.
Però io non credo che questo sia vero. La mia risposta personale alla domanda di cui vi ho parlato è che la maggior parte della gente pensa che il futuro del mondo sarà definito dalla globalizzazione, ma la verità è che la tecnologia è più importante. Senza cambiamento tecnologico, se la Cina nei prossimi vent’anni raddoppierà la sua produzione, raddoppierà anche l’inquinamento della sua aria. Se ciascuna delle centinaia di milioni di famiglie indiane dovesse vivere nel modo in cui vivono quelle americane – con gli strumenti di oggi – la conseguenza sarebbe un disastro ambientale. Diffondere nel mondo i vecchi sistemi per creare ricchezza avrebbe come risultato la catastrofe e non il benessere. In un mondo di risorse scarse, la globalizzazione senza tecnologia è insostenibile.
La nuova tecnologia non è mai stata una caratteristica automatica della storia. I nostri antenati hanno vissuto in società statiche, a somma zero, in cui il successo significava impadronirsi di beni appartenenti ad altri. Hanno creato nuove fonti di ricchezza solo raramente, e nel lungo periodo non sono mai riusciti a crearne abbastanza da risparmiare alla persona media una vita molto dura. Poi, dopo 10.000 anni di progresso a sbalzi dall’agricoltura primitiva ai mulini medioevali agli astrolabi del XVI secolo, il mondo moderno ha sperimentato improvvisamente un progresso inarrestabile, dall’avvento del motore a vapore intorno al 1760 fino al 1970 circa. Come risultato abbiamo ereditato una società più ricca di quanto ogni generazione precedente sia mai stata in grado di immaginare.
Ogni generazione eccetto quelle dei nostri genitori e dei nostri nonni; vale a dire: alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, loro si aspettavano che questo progresso continuasse. Si aspettavano una settimana lavorativa di quattro giorni, energia così a buon mercato da non essere neanche misurata, e vacanze sulla luna. Tutto questo, però, non è accaduto. Gli smartphone che ci distraggono da ciò che ci circonda ci fanno anche scordare che il nostro ambiente è stranamente vecchio: solo i computer e le comunicazioni sono migliorati in modo drastico negli ultimi cinquant’anni. Il che non significa che i nostri genitori sbagliavano a immaginare un futuro migliore, ma solo che sbagliassero a considerarla una faccenda automatica. Oggi la nostra sfida consiste nell’immaginare e creare le nuove tecnologie che possano rendere il XXI secolo più pacifico e prospero del XX.

PENSARE DA STARTUP

La nuova tecnologia tende a venire da nuove imprese: le startup. Dai Padri Fondatori in politica alla Royal Society nelle scienze, fino agli “otto traditori” che fondarono Fairchild Semiconductor nel business: piccoli gruppi legati tra loro da un senso della missione hanno cambiato il mondo in meglio. La spiegazione più facile di questo fenomeno è in negativo: è difficile sviluppare cose nuove in grandi organizzazioni, ed è persino più difficile farlo da soli. Le gerarchie burocratiche si muovono lentamente, e gli interessi precostituiti rifuggono il rischio. Nelle organizzazioni più disfunzionali, segnalare che il lavoro è stato fatto diventa una strategia di carriera migliore che farlo concretamente (se questa frase descrive l'azienda in cui lavorate, dovreste lasciarla subito). All’estremo opposto, un genio solitario può creare un capolavoro dell’arte o della letteratura, ma mai un intero settore economico. Le startup operano in base al principio che dovete lavorare con altri per realizzare le cose, ma che dovete anche restare abbastanza piccoli da poterle fare veramente.
Definita in senso positivo, una startup è il gruppo più grande di persone che potete convincere di un piano per costruire un futuro diverso. Il punto di forza più importante di una nuova impresa è il pensiero originale: persino più importante dell’agilità, la dimensione limitata lascia spazio per pensare. Questo libro parla delle domande che dovete farvi e a cui dovete rispondere per avere successo nel business di creare cose nuove: quello che segue non è un manuale o un repertorio di conoscenze, ma un esercizio di pensiero. Perché è questo che una startup deve fare: mettere in discussione le idee ricevute e ripensare il business da zero.

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Festeggiare come se fosse il 1999

Alla nostra domanda controcorrente – Qual è la verità importante su cui pochissime persone sono d’accordo con te? – è difficile dare una risposta diretta. Potrebbe essere più facile partire con una preliminare: su che cosa sono tutti d’accordo? “La pazzia è rara negli individui, ma nei gruppi, nei partiti, nei popoli, nelle epoche è la regola” ha scritto Nietzsche (prima di impazzire). Se potete identificare una credenza popolare illusoria, potete individuare che cosa giace dietro di essa: la verità controcorrente.
Considerate un’affermazione elementare: le imprese esistono per fare denaro, non per perderlo. Dovrebbe essere ovvio per ogni essere pensante; tuttavia non lo era per molti alla fine degli anni Novanta, quando nessuna perdita era troppo grande da non poter essere definita un investimento a favore di un futuro ancora più grande e luminoso. Il senso comune della “New Economy” accettava il numero di visualizzazioni di una pagina web come un parametro finanziario più autorevole e rivolto al futuro di qualcosa così volgare come il profitto.
Le convinzioni del senso comune hanno la caratteristica di apparire arbitrarie ed errate solo in retrospettiva: ogni volta che una collassa, definiamo la vecchia convinzione una bolla. Tuttavia le distorsioni causate dalle bolle non spariscono quando queste esplodono. La mania di Internet degli anni Novanta è stata la più grande bolla dai tempi della crisi del 1929, e ciò che abbiamo imparato dopo definisce e distorce praticamente tutto quello che pensiamo riguardo alla tecnologia oggi. Il primo passo per pensare chiaramente è mettere in discussione quello che pensiamo di sapere sul passato.

UNA BREVE STORIA DEGLI ANNI NOVANTA

Gli anni Novanta hanno una buona immagine. Tendiamo a ricordarli come un decennio prospero e ottimista, a cui è accaduto di finire con il boom di Internet e il relativo crollo. Molti di quegli anni, però, non sono stati così piacevoli come vorrebbe la nostalgia. Da molto tempo abbiamo scordato il contesto globale dei 18 mesi della mania delle dot.com alla fine del decennio.
Gli anni Novanta iniziarono con un’esplosione di euforia seguita alla caduta del muro di Berlino, nel novembre del 1989. Era destinata a durare poco. A metà del 1990 gli Stati Uniti erano in recessione. Tecnicamente la discesa terminò nel marzo del 1991, ma il recupero fu lento e la disoccupazione continuò a crescere fino a luglio 1992. Il manifatturiero non si risollevò mai del tutto. Lo spostamento verso un’economia dei servizi fu lungo e doloroso.
Il periodo dal 1992 alla fine del 1994 fu un momento di malessere generale. Le immagini dei soldati americani morti a Mogadiscio andavano di continuo sui notiziari via cavo. L’ansia riguardo la globalizzazione e la competitività degli USA aumentava a mano a mano che i posti di lavoro si spostavano in Messico. Questa corrente sotterranea di pessimismo causò la mancata rielezione del presidente H.W. Bush e fece guadagnare a Ross Perot circa il 20% del voto popolare nel 1992, il miglior risultato per un candidato indipendente da quello di Theodore Roosevelt nel 1912. E quale che fosse l’attrattiva culturale incarnata dai Nirvana, dal grunge o dall’eroina, non si trattava di fiducia o di speranza.
Anche la Silicon Valley si sentiva intorpidita. Sembrava che il Giappone stesse vincendo la guerra dei semiconduttori. Internet non aveva ancora preso il volo, in parte perché il suo uso commerciale era limitato fino alla fine del 1992 e in parte per la mancanza di un browser che fosse semplice da utilizzare. È significativo il fatto che quando arrivai a Stanford, nel 1985, la laurea più popolare era quella in economia e non in informatica. Alla maggior parte della gente nel campus il settore tecnologico sembrava eccentrico o persino provinciale.
Internet cambiò tutto questo. Il browser Mosaic fu rilasciato ufficialmente nel novembre 1993, e diede alle persone comuni un modo per andare online. Mosaic divenne Netscape, che rilasciò il suo Navigator verso la fine del 1994. L’utilizzo di Navigator crebbe così velocemente – da circa il 20% del mercato dei browser del gennaio 1995 fino a quasi l’80% di 12 mesi dopo – che Netscape poté lanciare la sua IPO nell’agosto del 1995, sebbene non fosse ancora in grado di generare profitto. Nell’arco di cinque mesi, il valore azionario di Netscape era schizzato da 28 a 147 dollari per azione. Anche altre società tecnologiche stavano esplodendo. Yahoo! debuttò in Borsa nell’aprile del 1996 con una valutazione di 848 milioni di dollari. Amazon seguì nel maggio del 1997 a 438 milioni. Nella primavera del 1998 il valore azionario di entrambe le società era più che quadruplicato. Gli scettici mettevano in dubbio i ricavi e i multipli di profitto più alti di quelli di qualsiasi società non Internet. Era facile conclude...

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