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A soli trentadue anni Dominic Caruso poteva considerarsi in ottima forma fisica, eppure faticava a tenere il passo con il cinquantenne che lo precedeva. In un’ora i due avevano percorso otto chilometri di corsa, interrotti da una nuotata di ottocento metri, e le condizioni atmosferiche non aiutavano. Dom inspirava l’aria fetida a pieni polmoni per continuare a muoversi. Era notte fonda e faceva ancora un caldo infernale; il sentiero nella giungla era buio tranne che per i fiochi raggi della luna che filtravano caliginosi dalle palme sopra di loro.
Il suo compagno non pareva far fatica a orientarsi nelle tenebre, ma Dom inciampò con la punta della scarpa in una radice affiorante di jacaranda, e cadde in avanti su mani e ginocchia.
«Porca puttana» disse con un sospiro.
Il suo allenatore si volse a guardarlo, ma continuò a correre. A Dom parve di intravedere un sorriso sul volto dell’uomo. Parlava a bassa voce, con un forte accento. «Ti serve un’ambulanza?»
«No, sono solo…»
«Allora alza il culo.» L’uomo sogghignò e aggiunse: «Avanti D, tieni duro». Si voltò di nuovo e riprese il passo di prima.
«Giusto.» Dom si rialzò, spazzò via il fango caldo dai calzoncini e partì all’inseguimento.
Un mese prima non avrebbe mai potuto correre per dieci chilometri di fila con trenta gradi e il novantacinque per cento di umidità, e men che meno in piena notte dopo un’intera giornata trascorsa ad allenarsi nelle arti marziali. Ma dal suo arrivo in India aveva fatto progressi, quanto a forza fisica e mentale, più in fretta di quanto avrebbe potuto immaginare, e lo doveva interamente ad Arik Yacoby, l’uomo che in quel momento lo distanziava di dieci metri.
Il sentiero fangoso in mezzo alla giungla sbucava su una strada selciata; Arik la imboccò svoltando a sinistra e accelerò. Dominic lo seguì, benché convinto che si dovesse andare a destra; dopotutto lui era soltanto un ospite ed era certo che Yacoby conoscesse le strade locali meglio di lui.
Yacoby non era del luogo, ma viveva lì da alcuni anni, e a giudicare dalla sua ottima forma fisica era ovvio che avesse corso su quei sentieri e quelle strade centinaia di volte.
Di Arik Yacoby Dom sapeva soltanto che era israeliano, che era emigrato in India e che aveva fatto parte delle IDF, le Israeli Defense Forces. Non gli era difficile immaginare che Arik fosse stato un soldato d’élite; la sua prestanza fisica e disciplina, nonché il luccichio di sicurezza e determinazione nel suo sguardo d’acciaio, lo strillavano a chiunque sapesse guardare.
Dom era venuto in India ad allenarsi con lui per sei settimane. Yacoby era cintura nera quarto dan di Krav Maga, un’arte marziale sviluppata per l’esercito israeliano. L’addestramento di Dom nel combattimento corpo a corpo con Arik era già intenso di per sé, ma le sessioni di allenamento fisico notturno avevano aggiunto un ulteriore tassello a quella estenuante esperienza.
Avevano nuotato, avevano corso, si erano arrampicati: spesso tutto nella stessa notte. A Dom pareva che Arik si sentisse in dovere di impartirgli non solo le nozioni del combattimento corpo a corpo, ma di tutto ciò che aveva appreso sotto il profilo fisico e mentale nei reparti speciali dell’esercito israeliano.
Qualunque attività tranne l’uso delle armi a fuoco, in sostanza. Erano in India, e benché Arik Yacoby risiedesse ormai a Paravur in maniera stabile, non era un poliziotto né un soldato, perciò non poteva ottenere un fucile legalmente.
Ma Dom era convinto che non avere un’arma da fuoco non lo rendesse meno pericoloso.
Quella missione indiana a studiare Krav Maga era la terza delle cinque tappe previste di un addestramento che sarebbe durato in tutto quattro mesi. Prima di andare lì Dom aveva trascorso tre settimane a praticare l’arrampicata nelle montagne dello Yukon, guidato da un veterano dell’alpinismo canadese. E prima ancora aveva passato due settimane a Reno, nel Nevada, per studiare prestidigitazione e illusionismo da un esperto mago.
Dopo l’addestramento di Krav Maga in India, Dom aveva in programma di prendere un volo per la Pennsylvania e lavorare con un ex cecchino dei marines statunitensi sul tiro a lunga distanza, e da lì sarebbe andato diretto a Sapporo, in Giappone, per un corso di combattimento con armi da taglio.
In ogni luogo Dom attingeva all’esperienza dei maestri che gli impartivano lezioni private e li tempestava letteralmente di domande. Gli allenatori, invece, non gli domandavano granché. Non conoscevano il suo vero nome – Arik lo chiamava solo D –, non conoscevano l’organizzazione cui apparteneva e non conoscevano nemmeno il suo passato. Tutto ciò che sapevano, tutto ciò che avevano bisogno di sapere, era che Dom era venuto con il benestare di persone importanti legate agli ambienti dell’intelligence statunitense.
Dovevano avere il sospetto che Dom appartenesse a CIA o DIA o JSOC o qualche altro acronimo che significava guai, e lo stesso Caruso non faceva nulla per fugare quel dubbio. Ma in realtà non aveva a che fare con quegli organismi né con alcuna agenzia governativa ufficiale. Dominic Caruso era agente operativo di un ente poco noto che portava il nome di Campus. Si trattava di un’organizzazione di intelligence non ufficiale con un braccio operativo. Erano in pochi nelle file del governo a sapere della sua esistenza, ed erano quei pochi ad aver preso i contatti che servivano per quell’addestramento personale d’élite intorno al mondo, in modo che Dom e gli altri agenti del Campus apprendessero da maestri di arti marziali, alpinisti, cecchini, subacquei, atleti di sport estremi, esperti di lingue e cultura o di qualunque altra disciplina che potesse servire loro per avere successo nelle operazioni segrete.
Prima di entrare nel Campus, Dom era stato un agente speciale dell’FBI. Si era, quindi, sottoposto a un pesante addestramento pratico, ma la FBI Training Academy a Quantico non mandava le sue reclute su per le montagne né ad arrancare in paludi tropicali.
Caruso aveva imparato molto a ogni tappa di quell’addestramento speciale, ma il tempo trascorso con Arik Yacoby era stato il più gratificante, fin lì, perlopiù grazie a Yacobi e alla sua famiglia. Hanna, la moglie di Arik che era insegnante di yoga, l’aveva accolto in casa come un parente di cui non si ha notizie da tempo, e i loro due bambini, Moshe e Dar, che avevano uno e tre anni, lo avevano trattato come il castello di un parco giochi su cui arrampicarsi ogni sera, quando gli adulti sedevano nel soggiorno della rustica fattoria a chiacchierare, cenando e bevendo birra.
Dominic era uno scapolo inveterato, e si stupiva di quanto gli fosse piaciuto quello scorcio di vita familiare.
Quella sera Dom aveva finito di cenare con Arik e la sua famiglia, e si era ritirato nella sua stanza per fare i «compiti», ovvero documentarsi sulla filosofia del Krav Maga. Si era appisolato prima delle undici, ma poco dopo mezzanotte Yacoby si era presentato alla sua porta e gli aveva detto che aveva tre minuti per infilare il costume da bagno, le scarpe da corsa e uscire.
Quelle operazioni notturne, come le definiva Yacoby, avevano lo scopo di preparare il corpo di Caruso a lavorare a comando, anche quando aveva dormito poco e il suo bioritmo gli diceva che era tempo di fermarsi.
Il corpo di Dom si era abituato a quel regime, sebbene con riluttanza, mentre Arik pareva godersi davvero le corse e le nuotate a tarda notte.
Tre minuti dopo che Yacoby ebbe svegliato Caruso, i due cominciarono a correre. Uscendo di casa, percorsero una strada che portava fuori dal gruppo di fattorie e casupole della zona ebraica, e s’inoltrarono tra le palme. Svoltarono verso l’oceano a ovest e poi puntarono a nord, allontanandosi dal villaggio più vicino e seguendo il sentiero nella giungla che a tratti risultava quasi impossibile da individuare a causa dell’oscurità totale dovuta alla doppia volta di palme da cocco e banani.
Raggiunte le rive del lago Paravur, Yacoby entrò in acqua senza quasi fermarsi e attaccò con una rana rilassata ma potente cui Dom riusciva a stare dietro solo pompando con braccia e gambe in stile libero.
A Dom quel lago non faceva impazzire. La prima volta che vi aveva nuotato, quando ne era uscito sulla riva opposta, si era trovato a meno di cinque metri da un covo di cobra. Arik aveva riso del panico manifestato da Caruso e gli aveva detto che i cobra, come la gran parte delle creature pericolose sulla Terra, volevano solo essere lasciati in pace, e non lo avrebbero aggredito se Dom li avesse stuzzicati.
Quella sera Dom vide un enorme pitone nel canneto accanto alla sponda, ma lo ignorò e, tenendo fede alla promessa di Arik, quello strisciò via, così i due uomini terminarono la nuotata senza incidenti.
Da lì corsero sull’argine lungo una piantagione di manioca, poi s’inoltrarono nella giungla del backwater e corsero per tre chilometri lungo il secondo sentiero buio della serata.
Ora, tornati sulla strada selciata, stavano rientrando nel villaggio di Nord Paravur. Un piccolo tuk-tuk li superò ronzando nella via altrimenti deserta; il suo motore a due tempi scoppiettò mentre si fermava davanti a una casa per prendere una donna diretta alla locale stazione degli autobus, dove sarebbe salita sulla corriera del primo mattino per andare al lavoro a Kochi. Arik e Dom salutarono la donna e l’autista sventolando la mano mentre il tuk-tuk faceva inversione a U davanti a loro.
Infine Arik rallentò fino a camminare e parlò con il respiro leggermente alterato. «Due chilometri e siamo a casa, ci rilasseremo per il resto della strada. Non ci sono andato leggero con te, stasera.»
Dom ansimava il più silenziosamente possibile; stentava a parlare. Tra due boccate d’aria esalò un «Ti ringrazio.»
«Mi ringrazierai davvero domani mattina. Cominceremo con un po’ di full contact sul dojo e proseguiremo con una lunga nuotata prima di pranzo.»
Dom si limitò ad annuire mentre camminava, inspirando a pieni polmoni l’umida aria calda.
Qualche secondo dopo i fari di un altro mezzo apparvero dietro di loro, e i due uomini si scostarono per lasciar passare un grosso furgone del latte marrone, diretto a sud.
Arik rizzò la testa alla vista del veicolo, ma non parlò.
Un momento dopo passarono nel buio davanti alla sinagoga locale, e Arik disse: «Ho degli avi nel cimitero che c’è dietro. Questa è la più antica comunità ebraica in India, sai?».
Dom annuì, ancora troppo a corto di fiato per parlare, e trattenne un sorriso. Arik gliene aveva già parlato una mezza dozzina di volte nel mese passato. Yacoby sosteneva che le proprie radici erano lì, sulla sponda occidentale dell’India, prima che la sua famiglia fosse sradicata e reinsediata in Israele. Ci era tornato per esplorare il proprio passato durante una licenza dalle IDF diversi anni prima e, mentre visitava la sinagoga e camminava per le strade di Nord Paravur, aveva deciso che sarebbe tornato a viverci prima o poi, per accrescere la piccola comunità ebraica e allevare i propri figli sulla stessa terra che avevano calpestato i suoi avi diverse generazioni prima.
A Dom piaceva questo, di Arik, che era forte di carattere e risoluto di mente.
La piccola fattoria della famiglia Yacoby era in fondo a un lungo viottolo cieco, una traversa di Temple Road, in un’area vicino alla sinagoga e alla comunità ebraica locale. La folta vegetazione della giungla correva ai lati della strada selciata e la fattoria confinava sul retro con un’ampia risaia Pokkali. Era una zona isolata rispetto al resto del villaggio, per questo sia Arik che Dom notarono il mezzo parcheggiato davanti a loro sul ciglio della strada quando distava ancora una cinquantina di metri.
Era il furgone del latte che avevano visto passare dieci minuti prima.
Yacoby afferrò il braccio di Dom e rallentò il passo. «Non è di qui.»
Si avvicinarono, più curiosi che preoccupati. Guardarono dentro il finestrino e videro che era vuoto.
Arik rivolse lo sguardo alla sua fattoria in fondo alla strada.
«L’ho già visto in giro» disse Dom.
Arik estrasse il telefono da un astuccio impermeabile infilato nella tasca laterale dei calzoncini, dicendo: «Sì, ma non qui. Fa le consegne a partire da una fattoria a nord della città di Kochi, in direzione sud. Siamo due chilometri a est del suo percorso quotidiano».
Caruso fu colpito dal fatto che Yacoby conoscesse i movimenti di un mezzo locale con tanta precisione, ma non condivideva ancora la palese preoccupazione del suo allenatore.
Yacoby chiamò sua moglie e si avviò lungo la strada, con Dominic al seguito. Dopo un momento si fermò, calando lo sguardo sul telefono.
«Non c’è rete.»
«Può capitare da queste parti?» chiese Dom.
In un sussurro Arik rispose: «Ogni tanto. Ma non credo nelle coincidenze. Sta succedendo qualcosa di strano».
Dom pensò che Arik balzasse a una conclusione davvero molto affrettata, ma Arik conosceva meglio di lui la zona e i suoi pericoli. «Andiamo, allora» disse Dom, e s’incamminò.
«Non di lì» obiettò Arik. «Possiamo avvicinarci alla fattoria da ovest passando tra gli alberi.» Si voltò e s’inoltrò nella fitta vegetazione, con Dom al seguito.
Una volta entrato nella giungla, Dom si rese conto che non era folta come appariva da fuori. Ogni banano, ogni pianta di cocco o jacaranda o mango occupava un certo spazio, si riusciva a muoversi bene tra i tronchi, e la luce che filtrava era troppo poca perché il sottobosco prosperasse. Arik aveva portato una torcia tattica, ma se la tenne in tasca e usò il bagliore del cellulare per farsi strada in modo da non rivelare la propria posizione. Gli uomini si muovevano veloci nella semioscurità, spinti dall’ansia di scoprire chi avesse interrotto il servizio di telefonia mobile e lasciato il furgone sul ciglio della strada.
Giunsero al limitare della giungla, dietro un capanno di legno che sorgeva accanto al viale di ghiaia della fattoria di Arik. I due uomini appoggiarono un ginocchio per terra e scrutarono la proprietà, forti di un’ottima vista notturna. Avevano trascorso l’ultima ora e mezza al buio, dopotutto, perciò le loro pupille si erano allenate ad assorbire ogni barlume di luce ambiente disponibile.
La piccola fattoria aveva soltanto un ettaro e mezzo di terra, con una casa a due piani nel centro, una lunga costruzione a...