Sei cappelli per pensare
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Sei cappelli per pensare

Manuale pratico per ragionare con creatività ed efficacia

Edward De Bono

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Sei cappelli per pensare

Manuale pratico per ragionare con creatività ed efficacia

Edward De Bono

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Quante volte abbiamo partecipato a lunghe riunioni inconcludenti, o ci siamo chiesti come rendere più produttivo il nostro pensiero e quello delle persone con cui ci confrontiamo? Spesso a ostacolarci è la confusione: come un giocoliere che usa troppe palle, in noi si sovrappongono intuizioni, logica, aspettative ed emozioni che non sappiamo gestire. Il sistema inventato da Edward de Bono, padre del pensiero laterale che ha segnato una svolta nel campo della creatività, consente di organizzare il nostro modo di pensare in maniera più produttiva, affrontando un aspetto alla volta. Si tratta di interpretare ruoli fissi (i cappelli) che incarnano diversi punti di vista, anche quello più lontano dalla nostra indole; questo ci libera dagli schemi creati dalla posizione o dal carattere, permettendo agli ottimisti di esprimere pensieri negativi o ai razionali di provare a essere creativi. Un metodo pratico, semplice, che consente di ottimizzare tempo e risorse, e magari di divertirsi nel farlo.

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Information

Publisher
BUR
Year
2015
ISBN
9788858677025

Capitolo primo

Recitare

Recitate la parte del pensatore: lo diventerete

Credo che uno dei due originali del Pensatore di Rodin sia a Buenos Aires nella piazza di fronte al Parlamento. Almeno così mi disse la guida indicando l’assorto pensatore congelato nel bronzo immortale.
Come fatto potrebbe essere falso sotto molti aspetti. Potrebbe non trattarsi di un originale. Potrebbero non esserci stati due originali. La guida potrebbe essersi sbagliata. Potrebbe non trovarsi nella piazza di fronte al Parlamento. Il mio ricordo potrebbe essere sbagliato. Perché allora dovrei riferire qualcosa che di fatto non è stato assolutamente accertato? Le ragioni sono tante.
Una è che più avanti nel libro farò particolare riferimento all’uso dei fatti. Un’altra è lanciare una provocazione a quanti pensano che i fatti siano più importanti del loro uso. Un’altra ancora è che voglio che il lettore visualizzi la famosa figura del pensatore, ovunque essa si trovi. Ma il vero motivo è che questo libro è stato scritto in aereo durante un viaggio da Londra a Kuala Lumpur in Malaysia. Comunque ho usato la parola «credo» che indica il mio stato di convinzione piuttosto che una asserzione dogmatica. Spesso dobbiamo indicare il modo in cui qualcosa è presentato. Il libro in fondo non tratta che di questo.
Voglio che voi vi raffiguriate la tanto usata – e abusata – immagine del Pensatore di Rodin. Voglio che immaginiate la posa con la mano sul mento che si suppone debba assumere ogni pensatore non del tutto frivolo. In proposito, io sono convinto che pensare dovrebbe essere qualcosa di attivo e vivace, e non di malinconico e solenne. Ma per il momento l’immagine tradizionale ci è utile.
Mettetevi in quella posa – fisicamente, non mentalmente – e diventerete pensatori. Perché? Perché se recitate la parte del pensatore lo diventerete.
I tibetani pregano girando ruote su cui sono scritte le preghiere. Girando, le ruote fanno salire le preghiere su nello spazio divino. Se le ruote sono ben bilanciate un fedele può farne girare anche una dozzina come in quel numero da circo dove piatti roteanti sono tenuti in equilibrio su lunghe aste. Può darsi che, mentre la ruota gira, il tibetano pensi alla lista della lavanderia. È l’intenzione di pregare quello che conta, più dello sbandieramento emotivo e spirituale che molti cristiani chiedono a se stessi. C’è un’altra cosa in cui il cristiano somiglia al tibetano: nel gesto di pregare anche in assenza di coinvolgimento emotivo. Col tempo le vostre emozioni si adegueranno ai vostri gesti. Intendo esattamente questo quando vi chiedo di recitare la parte del pensatore.
Assumete la posa del pensatore. Fate il gesto. Abbiate l’intenzione e manifestatela a voi stessi e agli altri. Ben presto il vostro cervello seguirà la parte che state recitando. Recitate la parte del pensatore, e davvero lo diventerete. Questo libro elenca le diverse parti da recitare.

Capitolo secondo

Mettersi un cappello

Un processo molto intenzionale

La caratteristica che più colpisce in una fotografia di gruppo scattata più di sessant’anni fa, è che tutti portano il cappello. Le foto sui giornali e i primi film mostrano questa tremenda diffusione del cappello.
Oggi il cappello è una rarità, specialmente per gli uomini. Oggi il cappello tende a definire un ruolo. I cappelli sono parte di un’uniforme, che di per sé definisce un ruolo.
Di un marito tirannico che dà ordini alla famiglia si può dire che indossa il «cappello da direttore» o il «cappello da comandante in capo». Una donna manager può distinguere i due ruoli che esercita dicendo che indossa un «cappello da dirigente» o un «cappello da casalinga». La signora Thatcher, primo ministro inglese, di tanto in tanto dichiarava di applicare la prudenza e la frugalità di una casalinga alla direzione del governo.
L’idea di un cappello per pensare o di un berretto per pensare è altrettanto plausibile.
«Per considerare la tua proposta devo mettermi il cappello per pensare. Non sono sicuro di voler vendere quell’edificio.»
«Mettiti il cappello per pensare e telefonami domani.»
«È una situazione complicata. Dobbiamo metterci i cappelli per pensare per vedere come uscirne.»
Ho sempre immaginato il cappello per pensare come una specie di berretto da notte con una nappina. Un po’ come un cappello da asino, ma senza quella rigidità che è l’unico vero tratto distintivo della stupidità.
La gente si offre di indossare il cappello per pensare o chiede ad altri di farlo.
Il mettersi intenzionalmente un cappello è un gesto ben definito.
Nei tempi andati quando la bambinaia si metteva il cappello era segno che lei – e i bambini – sarebbero usciti. Non c’era da discutere. Il segnale era definitivo. Quando un poliziotto indossa il suo cappello vuol far capire che si accinge all’adempimento del suo dovere. Un soldato senza cappello non sembra mai serio o temibile quanto uno col cappello.
È un peccato che non ci sia un autentico cappello per pensare da comprare nei negozi. In Germania e Danimarca c’è un cappello da studente, una specie di cappello da erudito. Ma raramente erudizione e pensiero si identificano. Gli eruditi sono troppo occupati a studiare il pensiero altrui per pensare essi stessi.
Considerate l’utilità di un vero cappello per pensare.
«Non disturbarmi. Non vedi che sto pensando?»
«Interrompo la discussione, così possiamo tutti metterci il cappello per pensare e concentrare l’attenzione sul problema.»
«Voglio che tu ci pensi adesso. Voglio vederti mettere il cappello per pensare.»
«Voglio che a questo progetto tu ci pensi due volte. Rimettiti il cappello per pensare.»
«Lei mi paga per pensare. Così sto seduto qui a pensare. Meglio mi paga, meglio penserò.»
«E se pensassimo a qualcosa di decisivo? Finora mi avete dato solo reazioni automatiche. Mettetevi il cappello per pensare.»
«Pensare non è una scusa per non agire ma un modo per agire meglio. Perciò avanti con l’azione.»
L’immagine mentale di qualcuno con in testa un vero cappello per pensare può destare quello stato d’animo sereno e distaccato imprescindibile da ogni pensiero che non sia di semplice reazione a una situazione. Un pensatore coscienzioso forse potrebbe dedicare cinque minuti al giorno a indossare intenzionalmente il cappello per pensare. Si tratta di vedere se credete di essere pagati per pensare o per seguire il pensiero di altri.
Voglio mettere a fuoco la questione del pensiero intenzionale. È questo lo scopo del cappello per pensare. Lo si indossa in maniera intenzionale.
C’è un pensiero del tipo «camminare-parlare-respirare» che si svolge di continuo. Rispondiamo al telefono. Attraversiamo la strada. Entriamo e usciamo da una routine. Non occorre gestire consapevolmente la respirazione o sapere quale gamba segua l’altra nel camminare. Il fluire di questo tipo di pensiero automatico costituisce per noi un background costante. Ma esiste un altro tipo di pensiero molto più intenzionale e focalizzato. Il pensiero-background serve a fronteggiare la routine. Il pensiero intenzionale serve a qualcosa di meglio. Tutti possono correre, ma l’atleta corre intenzionalmente ed è allenato a questo scopo.
Non c’è una maniera semplice di segnalare a noi stessi che vogliamo uscire dalla routine, dal pensiero per fronteggiare la routine, per entrare in quello intenzionale. L’espressione «cappello per pensare» diviene così un segnale preciso da dare a noi stessi o ad altri.
Confrontiamo i due tipi di pensiero: quello per fronteggiare la routine e quello intenzionale.
Quando guidate una macchina dovete scegliere una strada, seguirla e tenervi a distanza dagli altri veicoli. C’è un gran numero di gesti eseguiti momento per momento, imposti dal momento passato e da quello che seguirà. Voi cercate i segnali e a essi reagite. Questo è pensiero di reazione. Il pensiero del tipo camminare-parlare-respirare somiglia molto alla guida di un’automobile. Guardate la segnaletica e decidete. Ma non state facendo una mappa.
L’altro tipo di pensiero concerne proprio il farsi una mappa. Esplorate il problema e ne fate una mappa. La fate in maniera oggettiva e neutrale. Per farlo dovete allargare la vostra visuale. Ciò è molto diverso dalla semplice reazione alla segnaletica.
Il contrasto risulta evidente nell’esempio che segue.
Immaginate di star tentando di avere la meglio in una discussione. Avanzate la vostra tesi e riassumete i punti che la sostengono. Ascoltate la tesi dell’avversario solo per attaccarla ed evidenziarne i punti deboli. Attacchi o difese, momento per momento. Ognuna delle due parti reagisce all’altra.
Facciamo un confronto con un processo di esecuzione di mappa, o «mappatura».
Io dirigo un programma per l’insegnamento del pensiero nelle scuole. Si chiama CoRT (Cognitive Research Trust, cioè Progetto di ricerca cognitiva) e viene usato da milioni di scolari in diversi paesi. La prima lezione si chiama PMI. Invece di limitarsi a reagire a una situazione, il bambino fa una semplice mappa. Per farla, prima guarda nella direzione «Più» e annota ciò che osserva. Poi guarda nella direzione «Meno», e infine nella direzione «Interessante» (che comprende tutto ciò che è degno di nota ma non rientra in «Più» o «Meno»). La mappa è fatta. Il pensatore sceglie il suo percorso.
Una bambina ha espresso l’idea in maniera molto chiara. Ha detto: «Pensavo che fare un PMI fosse una cosa stupida e artificiosa perché sapevo già quello che pensavo. Ma quando l’ho fatto ho scoperto che il mio pensiero era stato modificato da quello che avevo scritto».
Il problema consiste nel dirigere l’attenzione e avere un modo per farlo.
A Sidney, in Australia, una classe di trenta bambini si era dichiarata favorevole a ricevere cinque dollari alla settimana per andare a scuola. Dopo aver fatto un PMI e senza alcun suggerimento dell’insegnante, ventinove bambini avevano cambiato opinione, decidendo che non era una buona idea.
Un uomo d’affari, dopo aver discusso per mesi con una grande compagnia petrolifera, ha chiesto a tutti di fare un PMI. Mi ha detto che il problema è stato risolto in venti minuti. Preparata la «mappa», si poteva scegliere un percorso.
Una donna che da due anni progettava di trasferirsi dalla California in Arizona, ha fatto un PMI coi suoi due figli. Dopo questo piccolo esercizio l’idea di trasferirsi è stata accantonata.
Paul McCready, uno dei più grandi inventori del mondo (sua è l’idea del volo a energia umana), era incappato in un problema burocratico. Suo figlio gli consigliò di fare un PMI che gli suggerì la mossa successiva.
Il pensiero a mappatura richiede un certo distacco. Il pensiero del tipo camminare-parlare-respirare invece no. Questo tipo di pensiero reattivo funziona davvero solo quando c’è qualcosa a cui reagire. Ecco perché è molto pericoloso credere che il pensiero critico sia l’unica forma completa di pensiero. Una stupida convinzione, nata dal fraintendimento dei grandi pensatori greci, afferma che il pensiero si basa sul dialogo e sull’argomentazione dialettica. Questa convinzione ha procurato molti danni al pensiero occidentale.
L’abitudine occidentale alla discussione e alla dialettica non funziona perché trascura la generatività e la creatività. Il pensiero critico va bene per reagire a quello che ci viene messo di fronte, ma non fa scaturire proposte.
I ragazzi a scuola si trovano costantemente a dover reagire a ciò che viene loro proposto: libri di testo, commenti degli insegnanti, programmi televisivi, ecc. Ma appena il giovane lascia la scuola, gli viene richiesto molto di più che non semplici reazioni. Ha bisogno di iniziativa, di progetti e di capacità d’azione. Tutte cose che non possono venire dal pensiero reattivo.
Per indicare questo «pensiero operativo» ho coniato il termine operacy: la capacità di operare – e di svolgere il pensiero che vi è connesso. Operacy suona come literacy e numeracy, i termini inglesi che indicano la capacità di leggere e scrivere e quella di far di conto. L’ho scelta perché credo fermamente che la capacità di operare dovrebbe affiancarsi alle altre due come ingrediente fondamentale dell’educazione. Le lezioni CoRT riguardano il pensiero operativo: porre traguardi, stabilire priorità, creare alternative, ecc.
Per non reagire semplicemente a ciò che abbiamo davanti, occorre avere un metodo per dirigere l’attenzione. Il PMI è uno dei metodi CoRT per conseguire quest’obiettivo. Noi ora ne esamineremo un altro.
Quando si stampa una mappa a colori, i colori vengono separati. Prima se ne stampa uno; a questo se ne sovrappone un secondo, poi un terzo e così via, finché non si ottiene la mappa con tutti i colori.
In questo libro i sei cappelli per pensare corrispondono ai vari colori usati nella stampa di una mappa. È questo il metodo che intendo usare per dirigere l’attenzione. Non c’è dunque solo il problema di mettersi un cappello per pensare ma anche di che colore sceglierlo.

Capitolo terzo

Intenzione e attuazione

Poiché molti hanno una visione erronea del problema, voglio tornare sulla distinzione tra intenzione e attuazione.
Ho detto che se si recita la parte del pensatore – per esempio mettendosi il cappello per pensare – alla fine lo si diventa. Il pensiero si adeguerà ai gesti. La finzione diverrà realtà.
Sembrerebbe che io affermi che per diventare un pensatore basta averne l’intenzione.
Molti si affretteranno a mettere in evidenza l’assurdità della cosa. Quindi lo farò io per loro. Avere l’intenzione di fare il sollevatore di pesi è sufficiente per diventarlo? Avere l’intenzione di essere un giocatore di scacchi vi metterà in condizione di muovere sapientemente i pezzi sulla scacchiera? La risposta è no, perché in questi casi si tratta di capacità eccezionali.
Ma se avete l’intenzione di diventare un cuoco, e fate le mosse appropriate, diventerete dei discreti cuochi. Non certo degli Escoffier, a meno che non abbiate il talento necessario, ma somiglierete molto più a un cuoco di chi non ne abbia mai avuto l’intenzione e abbia agito di conseguenza.
Vi prego di notare che l’intenzione non basta. Dovete fare le mosse. A un tibetano non basta avere l’intenzione di pregare: deve girare la ruota.
Per essere pensatori non basta considerarsi tali. È quasi l’esatto opposto di quel che dicevo. Considerarsi già dei pe...

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