Leadership emotiva
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Leadership emotiva

Una nuova intelligenza per guidarci oltre la crisi

Daniel Goleman

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Leadership emotiva

Una nuova intelligenza per guidarci oltre la crisi

Daniel Goleman

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Non ci sono più i leader di una volta. Pessima notizia? No, forse è meglio così. Ora che il concetto di intelligenza emotiva è entrato a pieno diritto nella nostra società, anche la vecchia concezione della leadership basata sul potere e sull'autorità è stata definitivamente scalzata. In una realtà che cambia sempre più rapidamente, per risolvere i problemi di aziende e organizzazioni occorre giocare sulle motivazioni profonde di ognuno e allo stesso tempo analizzare lucidamente le proprie, esercitare la difficile arte dell'autocontrollo e della critica senza rinunciare all'empatia. In questo libro Goleman ci spiega come gestire gli stati d'animo di chi lavora con noi e accrescere l'armonia e il talento necessari a garantire lo sviluppo economico e culturale sia delle comunità aziendali sia della società, per imparare a guidare gli altri anche nei momenti più difficili e raggiungere gli obiettivi senza rinunciare a realizzarsi e a crescere.

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Information

Publisher
BUR
Year
2013
ISBN
9788858659892

1
Una stupefacente sinergia

Lo ricordo come fosse ieri. Quando la prima edizione di Intelligenza emotiva andò in stampa, nel 1995, mi ritrovai a pensare che se un giorno, passeggiando per strada, mi fosse capitato di sorprendere una conversazione in cui due sconosciuti avessero usato entrambi con cognizione di causa il concetto di «intelligenza emotiva», avrei potuto ritenermi soddisfatto: sarebbe stata la prova che la nozione aveva oltrepassato la cerchia degli specialisti per entrare nel linguaggio comune. Chi poteva prevedere quello che sarebbe successo?
L’espressione «intelligenza emotiva» e l’abbreviazione Eq1 imperversano ormai ovunque. Le si ritrova nei luoghi più impensabili, dalle strisce a fumetti come Dilbert o Zippy the Pinhead alle vignette di Roz Chast sul «New Yorker». Mi è capitato di imbattermi in giocattoli che millantavano di potenziare l’Eq del bambino o in accorati annunci matrimoniali che strillavano «intelligenza emotiva» per attirare l’attenzione di possibili partner. Una volta ho perfino trovato un gioco di parole sul concetto di «Eq» sul flacone di uno shampo dell’albergo in cui soggiornavo.
Mai e poi mai, in compenso, avrei creduto che il concetto di Ie (l’abbreviazione che io preferisco) potesse fare tanto rumore in ambito aziendale. La «Harvard Business Review» ha salutato il concetto di intelligenza emotiva come «una categoria rivoluzionaria che manda in frantumi i vecchi paradigmi», nonché come una delle idee più influenti del decennio nel campo del business.
Nel giro di dieci anni dalla pubblicazione di Intelligenza emotiva, il concetto cominciava a essere applicato con sempre maggiore frequenza in campo aziendale, soprattutto in sede di valutazione, selezione e formazione dell’élite dirigente. Tale boom aveva portato alla nascita di una piccola industria a sé stante fatta di consulenti e coach, alcuni dei quali vendevano ricette mirabolanti estrapolate con troppa libertà dai dati in nostro possesso. Ho cercato di correggere il tiro nella nuova prefazione che accompagna l’edizione del decennale, ma a quel punto, come spesso accade, aveva già avuto inizio una fase di riflusso, specie in ambito universitario, anche a causa delle distorsioni più o meno sensazionalistiche che hanno accompagnato l’ascesa del concetto di Ie. Soltanto oggi quelle critiche hanno iniziato a diradarsi: abbiamo a disposizione dati più completi e possiamo contare su ricerche rigorose dalle quali emerge un quadro più sobrio e fattuale dei benefici dell’intelligenza emotiva.
Uno dei principali catalizzatori delle attività scientifiche degli ultimi anni è stato il Creio (Consorzio universitario Rutgers per la ricerca sull’intelligenza emotiva nelle imprese), che ha avviato collaborazioni prestigiose con soggetti del calibro dell’Ufficio per le risorse umane del governo federale statunitense e di American Express.
All’epoca in cui scrivevo Intelligenza emotiva mi interessavano soprattutto le più recenti scoperte sul cervello e le emozioni, in particolare le loro implicazioni nello sviluppo del bambino e la didattica nelle scuole. Nel capito conclusivo però, «Dirigere con il cuore», studiavo le ricadute del nuovo concetto sulla nostra percezione della leadership. Il mondo delle imprese mostrò un tale interesse al riguardo che i miei libri successivi sono stati dedicati alle implicazioni dell’idea di intelligenza emotiva nel contesto aziendale (Lavorare con intelligenza emotiva) e alla leadership come tale (Essere leader). Le tesi di «Dirigere con il cuore» – riprese qui in parte nel capitolo 2 – fornivano alcune indicazioni pratiche sul modo migliore di dare riscontri costruttivi sull’operato dei collaboratori, mettendo in guardia dalle conseguenze nefaste delle critiche mal formulate. Le situazioni là descritte erano altrettanti esempi concreti della differenza che passa tra un leader dotato di intelligenza emotiva e uno che ne è sprovvisto.
In materia di Ie, i grandi modelli teorici attualmente in circolazione sono tre, e ciascuno di essi presenta decine di varianti.2 Ogni modello o sottomodello incarna un punto di vista specifico. Quello di Peter Salovey e John Mayer, per fare un esempio, è saldamente ancorato al concetto di intelligenza definito un secolo addietro dai primi studi sul quoziente intellettivo. Il modello sviluppato da Reuven Bar-On, invece, deriva dalle sue ricerche sul benessere. Il mio, infine, privilegia il piano comportamentale, le prestazioni sul posto di lavoro e i problemi della leadership organizzativa, fondendo la teoria dell’Ie con i frutti di decenni di lavoro sulla modellizzazione delle competenze che distinguono i fuoriclasse del management dal resto dell’umanità.
Come ho già suggerito in Lavorare con intelligenza emotiva, sono le abilità definibili in termini di Ie, piuttosto che il Qi di un individuo o certe specifiche abilità tecniche, a costituire quell’insieme di competenze «determinanti» che consentono di prevedere chi, su un insieme di candidati dall’intelligenza sopra la media, risulterà più dotato per il comando. Se passiamo in rassegna le competenze che organizzazioni di tutto il mondo hanno individuato autonomamente, cioè senza alcun accordo preventivo, come i tratti caratterizzanti dei loro leader più efficaci, scopriremo che i valori relativi al Qi e alle competenze tecniche si fanno sempre meno decisivi a mano a mano che si sale verso le prime posizioni. (Il Qi e la padronanza di specifiche abilità tecniche sono di solito indicatori di eccellenza in mansioni gerarchicamente subordinate.)
I modelli di competenza che descrivono la leadership ai vertici di una gerarchia prevedono – praticamente sempre – una percentuale di abilità definibili in termini di Ie che oscilla tra l’80 e il 100 per cento. Il principale responsabile di una società globale di ricerca e selezione del personale specializzata in figure dirigenziali di alto profilo si è espresso in questi termini: «I direttori generali vengono assunti in base al loro quoziente intellettivo e alla loro esperienza nel campo degli affari… e poi vengono licenziati perché mancano di intelligenza emotiva».
In Lavorare con intelligenza emotiva ho messo a punto, tra le altre cose, un quadro di riferimento allargato che tiene conto del modo in cui le espressioni di base dell’Ie – autoconsapevolezza, gestione di sé, consapevolezza sociale e capacità di gestire le relazioni umane – si traducono in prestazioni efficaci sul posto di lavoro. Lo specchietto al termine del presente capitolo presenta un compendio di quel modello.
L’interesse crescente dell’universo aziendale per il tema dell’intelligenza emotiva, soprattutto in materia di ruoli dirigenziali, non è sfuggito ai responsabili della «Harvard Business Review», che mi hanno commissionato un approfondimento sul tema. Quel pezzo del 1998, Di che stoffa è fatto un leader?, una sorta di esame comparato della letteratura recente, si è rivelato molto più influente di quanto potessi prevedere, affermandosi in breve come uno degli articoli più ristampati nella storia della rivista: è stato riproposto in diverse raccolte di saggi sul tema della leadership curate dalla «Harvard Business Review», e figura perfino in un’antologia di dieci testi «indispensabili» tratti dall’archivio della rivista. Lo si troverà riprodotto nel presente volume al capitolo 3.
David McClelland, compianto studioso del comportamento umano e delle organizzazioni e che è stato il mio mentore a Harvard, si interessava ai fattori da cui dipende il successo di un imprenditore e aveva lui stesso una mentalità imprenditoriale, tanto da partecipare alla fondazione della società di ricerca e consulenza McBer, specializzata nell’applicazione di metodi per la modellizzazione delle competenze al mondo delle grandi aziende. Più tardi la McBer entrò a far parte dello Hay Group, una società di consulenza globale, mentre il suo dipartimento di ricerca veniva assorbito dall’Istituto McClelland, guidato dagli ex allievi James Burrus, Mary Fontaine e Ruth Jacobs (oggi Malloy). L’interesse per le competenze legate all’intelligenza emotiva era in vertiginosa espansione e, mentre lavoravo a un altro articolo per la «Harvard Business Review», Essere un leader che ottiene risultati (qui riproposto al capitolo 4), mi fu permesso di attingere ai dati da loro raccolti sulle prestazioni aziendali e gli stili di comando di migliaia di dirigenti.
In un’economia che vive di conoscenza applicata al lavoro, sono gli sforzi coordinati di squadre di collaboratori a creare valore. In situazioni come queste il «Qi di gruppo», un concetto elaborato da Robert Sternberg e Wendy Williams dell’Università di Yale, diventa un parametro cruciale. Il Qi di gruppo è pari alla somma dei migliori talenti di ciascun membro di una squadra misurati al massimo della loro espressione. A determinare la reale produttività di una squadra, però, non è il potenziale teorico – cioè il Qi di gruppo – quanto piuttosto la maggiore o minore coordinazione degli sforzi dei diversi membri. In altri termini, l’armonia interpersonale. Ho iniziato a interessarmi alle dinamiche del Qi di gruppo in Intelligenza emotiva, e più tardi sono tornato sul problema delle dinamiche emotive delle squadre dal punto di vista degli stili di comando dei relativi leader. Di questi aspetti si parlerà nel dettaglio nel capitolo 5.
Intelligenza emotiva era soprattutto un resoconto delle scoperte più recenti in un ambito di ricerca all’epoca ancora relativamente nuovo, le neuroscienze affettive. Il mio libro del 2003, Intelligenza sociale, reagiva invece alle affascinanti novità introdotte da un altro campo di studi d’avanguardia: le neuroscienze sociali. Alcuni studiosi avevano iniziato a interrogarsi sul comportamento del cervello nel corso delle interazioni sociali, aprendo così la strada a un’alluvione di nuove scoperte sui circuiti specificamente sociali del nostro cervello. Come vedremo nel capitolo 8, le implicazioni di quelle trovate sono ancora più importanti se lette alla luce di un altro insieme di scoperte recenti sui rapporti tra i centri nervosi deputati al pensiero e quelli specializzati nelle emozioni.
Come scrivevo in Nuove scoperte sul cervello e l’intelligenza emotiva, sia l’apatia e il disimpegno (autentiche piaghe in alcuni ambienti di lavoro) che la spossatezza dovuta a eccessivo stress (altro noto flagello) mettono fuori uso le aree corticali prefrontali del cervello, sede della comprensione, della concentrazione, dell’apprendimento e della creatività. Eppure, come spiego nel capitolo 7, è proprio lavorando nelle aree associate al «flusso» che il cervello dà il meglio di sé in termini di efficienza cognitiva: è grazie a esse che riusciamo a esprimerci al massimo dell’efficacia.
Questi elementi portano a ridefinire drasticamente il compito fondamentale di un leader: si tratta in primo luogo di aiutare i propri collaboratori a far funzionare in modo costante le aree cerebrali che consentono loro di dare il meglio. Come ricordo nel capitolo 6, sono entrato nel merito di questi aspetti in Essere leader, scritto a sei mani con Annie McKee e Richard Boyatzis. La nostra tesi era che un leader davvero bravo è in grado di entrare in risonanza con i suoi subordinati, innescando un’armonia neurale che facilita il «flusso».
La domanda che resta da porre è come un leader possa sviluppare nuove abilità nel campo dell’intelligenza emotiva. La buona notizia viene ancora una volta dalle neuroscienze e porta il nome di «neuroplasticità»: si è scoperto che il cervello continua a crescere e rimodellarsi per tutta la vita. Una procedura di apprendimento sistematico come quella descritta nel capitolo 9, tratta da Nuove scoperte sul cervello e l’intelligenza emotiva, può agevolare a qualunque stadio della carriera (o della vita) una crescita nel campo della leadership emotiva.
 


Quadro di riferimento delle competenze
Quasi tutti gli elementi contemplati dai diversi modelli di intelligenza emotiva cadono in uno di questi quattro ambiti: autoconsapevolezza, gestione del sé, consapevolezza sociale e gestione delle relazioni. Su ciascuna di queste abilità di base si fondano le competenze (che si apprendono nel contesto lavorativo) che contraddistinguono i leader di maggiore successo.
L’intelligenza emotiva definisce il nostro potenziale di apprendimento per abilità fondamentali come il dominio di sé eccetera, mentre la competenza emotiva cresce in proporzione alla parte di quel potenziale che siamo stati in grado di padroneggiare in modo tale da tradurlo in capacità spendibili sul posto di lavoro. La pratica efficace di una competenza emotiva (andare incontro ai clienti, lavorare in una squadra eccetera) presuppone l’acquisizione di un’abilità soggiacente, cioè di uno dei fondamenti dell’Ie: per esempio la consapevolezza sociale o la gestione dei rapporti. Va sottolineato però che le competenze emotive sono suscettibili di apprendimento: un certo grado di consapevolezza sociale o di abilità nella gestione delle relazioni non basta da solo a garantire la padronanza delle competenze aggiuntive necessarie per trattare come si deve un cliente o risolvere un conflitto. Significa semplicemente che disponiamo del potenziale che ci consentirà di impadronirci di quelle competenze.
La presenza di abilità definibili in termini di Ie è quindi una condizione necessaria, ma non sufficiente quando si tratta di esibire una specifica competenza o capacità sul posto di lavoro. In termini cognitivi si potrebbe fare il paragone con uno studente dotato di eccellenti abilità spaziali che non imparasse mai le regole della geometria, per non parlare di studiare architettura. In maniera analoga, un individuo fortemente empatico potrebbe gestire in modo inefficace un rapporto a lungo termine con il cliente.
Per i lettori particolarmente interessati al modello con cui lavoro in questo momento e al modo in cui esso suddivide la dozzina circa di competenze emotive chiave per la leadership in quattro raggruppamenti, rimando all’appendice.

2
Dirigere con il cuore

Melburn McBroom era un capo dispotico, il suo proverbiale caratteraccio metteva a disagio i suoi collaboratori. Se avesse lavorato in un ufficio o in una fabbrica, nessuno avrebbe fatto troppo caso a quel difetto, però McBroom era un pilota di linea.
Un giorno, nel 1978, mentre il suo aereo si stava avvicinando a Portland, nell’Oregon, McBroom rilevò un problema al carrello di atterraggio. Cercò di guadagnare tempo sorvolando ad alta quota la pista, in tondo, mentre cercava di sbloccare il meccanismo.
Mentre McBroom trafficava con i controlli del carrello, dimentico di tutto il resto, i serbatoi del velivolo si andavano svuotando, eppure i copiloti erano così terrorizzati dalle sfuriate del loro superiore da non avere il coraggio di avvertirlo neppure nell’imminenza del disastro. L’aereo si schiantò e dieci persone persero la vita.
Ancora oggi la storia di quell’incidente viene ripetuta come ammonimento nei corsi di sicurezza per aspiranti piloti.1 Quando un aereo precipita, nell’80 per cento dei casi il malfunzionamento è dovuto a errori umani che sarebbe stato possibile evitare, soprattutto se il personale di volo fosse stato più affiatato. Tanto è vero che l’addestramento dei piloti non si limita alle competenze tecniche, ma pone l’accento sul lavoro di squadra e sulla necessità di tenere sempre aperti i canali di comunicazione, cooperare, ascoltare ed esprimere la propria opinione: tutte abilità di base legate all’intelligenza emotiva.
La cabina di pilotaggio di un aereo è un microcosmo che riassume il funzionamento di qualunque organizzazione. La differenza è che in mancanza di un brusco richiamo alla realtà come può esserlo un incidente aereo, gli effetti devastanti di un clima lavorativo deprimente, fatto di dipendenti intimiditi e capi arroganti – o di qualunque altra delle decine di varianti possibili nel campo dei problemi emotivi sul posto di lavoro – rischiano di passare del tutto inosservati per uno spettatore esterno. I costi di queste situazioni, in compenso, sono scritti a chiare lettere in indicatori come produttività in calo, crescenti ritardi sulle scadenze, errori, incidenti e in un esodo di collaboratori alla ricerca di ambienti di lavoro più salubri. In breve, quando i livelli di intelligenza emotiva sul lavoro scendono al di sotto di una data soglia è inevitabile che il bilancio di un’azienda ne risenta. E quando il problema sfugge di mano, gli affari vanno a rotoli e falliscono.
L’idea che l’intelligenza emotiva possa presentare vantaggi in termini di costi e benefici è relativamente nuova in ambito aziendale, e ancora oggi alcuni potrebbero trovarla difficile da digerire. Uno studio condotto su 250 dirigenti ha mostrato che la maggior parte dei manager ritiene che il lavoro vada svolto «con la testa, non con il cuore». Alcuni, per giunta, paventavano che eventuali sentimenti di empatia o compassione nei confronti di colleghi e collaboratori potessero entrare in collisione con i propri obiettivi organizzativi. Uno degli intervistati ha dichiarato che mostrarsi ricettivi nei confronti delle emozioni altrui è un’assurdità, perché a quel punto «diventerebbe impossibile gestire le situazioni». Altri hanno obiettato che soltanto coltivando il distacco emotivo si può trovare la forza di prendere le decisioni «dure» che spesso si impongono nel mondo degli affari (certo, in molti casi un atteggiamento più empatico consentirebbe di trasmettere tali scelte ai diretti interessati in modo più umano).2
Lo studio citato risale agli anni Settanta del secolo scorso, quando il mondo aziendale era molto diverso da quello attuale. Vorrei provare a dimostrare che quel modo di vedere le cose è irrimediabilmente antiquato, uno dei tanti lussi che non possiamo più permetterci. La nuova realtà del business, più competitiva che mai, riporta al centro l’intelligenza emotiva, sui posti di lavoro e sui mercati.
Una volta Shoshana Zuboff, una psicologa della Harvard Business School, si è espressa così: «Nell’arco di un secolo le grandi imprese si sono trasformate da cima a fondo, e di conseguenza anche il paesaggio emotivo è cambiato radicalmente. Per decenni è prevalso il dominio verticale da parte della gerarchia aziendale, e a venire premiato era il capo che sapeva maneggiare le persone come oggetti, il veterano pronto a tutto. Quelle gerarchie rigide, però,...

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