Mangia, prega, ama
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Mangia, prega, ama

Una donna cerca la felicità

Elizabeth Gilbert, Margherita Crepax

  1. 384 pages
  2. Italian
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Mangia, prega, ama

Una donna cerca la felicità

Elizabeth Gilbert, Margherita Crepax

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L'amore, la stabilità un buon lavoro. A trent'anni Elizabeth Gilbert ha già tutto questo, ma una notte si ritrova a singhiozzare sul pavimento, con una sola certezza: "Non voglio più questa vita perfetta". Un'atroce consapevolezza che trascinerà Liz in uno spericolato viaggio fuori e dentro di sè, prima a Roma, per riscoprire il piacere della tavola e dell'amicizia; poi in India, a immergersi nella preghiera; e infine a Bali, a lasciarsi guidare da nuovi desideri e speranze.

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Information

Publisher
RIZZOLI
Year
2015
ISBN
9788858680810

INDONESIA

o
«Mi sento diversa perfino nelle mutande.»
o

Trentasei capitoli
sulla ricerca dell’equilibrio

73

In tutta la mia vita di viaggi non pianificati, non mi era mai capitato di essere così totalmente allo sbando. Il mio aereo sta atterrando e io ancora non so dove andrò a stare, che cosa andrò a fare, non so come sia il cambio del dollaro con la moneta locale, non so come prendere un taxi all’aeroporto – ammesso che fossi diretta in qualche posto. Nessuno mi aspetta. Non ho amici in Indonesia, e nemmeno amici di amici. E come se non bastasse, grazie alla mia guida obsoleta (che comunque non ho letto), non mi sono resa conto che non mi sarà permesso di rimanere in Indonesia per quattro mesi come avrei voluto. Lo scopro solo al mio ingresso nel Paese: mi è concesso soltanto un visto turistico di trenta giorni. E io che pensavo che il governo indonesiano potesse solo essere compiaciuto all’idea di ospitarmi per tutto il tempo che avrei desiderato.
Mentre il simpatico funzionario dell’ufficio immigrazione timbra il mio passaporto, gli chiedo nel mio modo più gentile se non posso fermarmi un po’ di più.
«No» mi dice lui nel suo modo più gentile. I balinesi sono famosi per la loro cordialità, ve l’avevo detto?
«Vede, era previsto che io stessi tre o quattro mesi» insisto.
Non faccio cenno alla profezia – cioè al fatto che due anni fa mi è stato predetto, durante una lettura della mano di dieci minuti, che avrei vissuto qui per tre o quattro mesi a casa di uno sciamano vecchissimo e con ogni probabilità demente. Non saprei come spiegarglielo.
Ma mi ha detto proprio questo, lo sciamano, ora che ci penso? Mi ha veramente assicurato che sarei tornata a Bali e che avrei abitato qui insieme a lui per qualche mese? O voleva solo che passassi di nuovo a fargli visita se mi fossi trovata da queste parti, per dargli un altro biglietto da dieci dollari in cambio di una lettura della mano? E ha davvero usato l’espressione see you later, alligator? O era la battuta di rimando, in a while, crocodile?
Non avevo più avuto nessuna notizia dello sciamano dopo quella sera. Non avrei nemmeno saputo come mettermi in contatto con lui. Che indirizzo poteva avere? Sciamano, sotto il portico, Bali, Indonesia? Non sapevo se fosse vivo o morto. Ricordo che sembrava spropositatamente vecchio già due anni fa; da allora poteva essergli successo di tutto. Di certo sapevo il suo nome, Ketut Liyer, e che viveva in un villaggio appena fuori dalla città di Ubud. Ma il nome del villaggio non me lo ricordavo.
Forse avrei dovuto pensare meglio a questi piccoli dettagli prima di mettermi in viaggio.

74

Ma Bali è un luogo facile da esplorare, perfino per chi, come me, non ha la più pallida idea di come muoversi. Non è come se fossi atterrata senza carta geografica nel bel mezzo, che so, del Sudan. Bali è un’isola che ha più o meno l’estensione del Delaware ed è una popolare meta turistica: qui un occidentale munito di carta di credito se la cava benissimo. Da quando due anni fa (precisamente qualche settimana dopo il mio primo viaggio in Indonesia) l’industria del turismo è crollata per la paura degli attacchi terroristici, è ancora più facile girare da queste parti, sono tutti disperatamente desiderosi di aiutarti, e bisognosi di lavorare. Gran parte dei balinesi conosce l’inglese e lo parla volentieri (e questo mi fa sentire colpevolmente sollevata. Le mie connessioni sinaptiche sono così sovraccariche dopo gli sforzi per imparare l’italiano e il sanscrito che non potrei sostenere la fatica di studiare l’indonesiano e men che meno il balinese – che pare sia più complicato del marziano). Non è dunque un problema, per me, cambiare i soldi all’aeroporto e trovare un taxi con un autista gentile, in grado perfino di consigliarmi un albergo carino.
Così arrivo alla città di Ubud, che mi sembra il posto adatto per dare inizio al mio soggiorno. Prendo una stanza in un piccolo e grazioso albergo sulla strada dal nome fiabesco di via della Foresta delle Scimmie. L’albergo ha una piscina e un giardino gremito di fiori tropicali con boccioli grandi come palloni (curati da una squadra altamente organizzata di colibrì e farfalle). Il personale è balinese, e questo vuol dire che tutti cominciano ad adorarti e a farti complimenti sulla tua bellezza appena varchi la soglia. La stanza guarda sulle cime di alberi lussureggianti e la prima colazione inclusa nel prezzo comprende montagne di frutti tropicali. Insomma, è uno dei più bei posti dove mi sia mai capitato di stare e mi costa meno di dieci dollari al giorno. Sono contenta di essere di nuovo qui.
Ubud è nel centro di Bali, sulle montagne, circondata dalle risaie a terrazza e da innumerevoli templi indù, da fiumi che solcano la giungla scavando profondi canyon e vulcani visibili all’orizzonte. La città è da tempo considerata il centro culturale dell’isola, il luogo dove prosperano la pittura tradizionale balinese, la danza, l’intaglio e le cerimonie religiose locali. Non è vicina a nessuna spiaggia, così i turisti che vengono a Ubud sono scelti e sofisticati; preferiscono assistere a una cerimonia in un tempio piuttosto che bere piña colada sulla costa. Ubud è una specie di piccola Santa Fe del Pacifico, solo che qui ci sono scimmie che si aggirano per le strade e si vedono intere famiglie con il costume tradizionale balinese. Ci sono buoni ristoranti e piccole librerie accoglienti. Potrei davvero viverci, qui a Ubud, facendo quello che le divorziate americane fanno da quando esiste la YWCA, e cioè seguendo un corso dopo l’altro: batik, percussioni, creazione di gioielli, ceramica, danza tradizionale indonesiana, cucina… Proprio di fronte al mio albergo c’è «The meditation shop», un piccolo negozio con un cartello che pubblicizza «sedute di meditazione a ingresso libero ogni sera dalle sei alle sette». Che la pace regni sulla Terra, continua il cartello. Come si può non essere d’accordo?
Ho disfatto le valigie. È ancora presto, decido di fare una passeggiata per orientarmi di nuovo in questa città che non vedo da due anni. Poi cercherò di pensare a come cominciare la ricerca del mio sciamano. Sarà un’impresa difficile, potrebbe richiedere giorni, o addirittura settimane. Non so da dove partire, così mi fermo alla reception dell’albergo e chiedo a Mario se mi può aiutare.
Mario fa parte del personale. Siamo subito diventati amici, soprattutto grazie al suo nome. Non molto tempo fa viaggiavo in un Paese pieno di uomini chiamati Mario, ma non erano balinesi muscolosi e vitali, con un sarong di seta e un fiore dietro l’orecchio. Non ho potuto fare a meno di chiedergli: «Lei si chiama davvero Mario? Non sembra un nome molto indonesiano…».
«Non è il mio vero nome» ha detto. «Il mio vero nome è Nyoman.»
Ah – avrei dovuto saperlo. Infatti, a Bali esistono solo quattro nomi propri, sia maschili che femminili: Wayan, Made, Nyoman e Ketut. Questi nomi significano rispettivamente «primo», «secondo», «terzo» e «quarto», e servono a indicare l’ordine in cui i figli sono nati. Se nasce un quinto figlio, si ricomincia dal principio, e il bambino si chiamerà qualcosa come «Wayan numero due». E così via. Se nascono dei gemelli si chiama Wayan quello che è stato partorito per primo. Essendoci di base solo questi quattro nomi (soltanto le caste più alte ne usano altri) è probabile, per non dire frequente, che due Wayan si sposino tra loro. E che il loro primogenito si chiami, com’è ovvio, Wayan.
La famiglia a Bali è molto importante, ed è importante conoscere la collocazione di ciascuno al suo interno. Forse il sistema dei nomi propri può sembrare complicato, ma i balinesi se la cavano. Naturalmente, però, l’uso dei soprannomi diventa quasi indispensabile. Per esempio, una delle donne d’affari di maggior successo di Ubud, Wayan, è soprannominata «Wayan Café» perché possiede un ristorante molto frequentato che si chiama Café Wayan; poi c’è «Made il Grasso», o «Nyoman Autonoleggio», o «Ketut lo Stupido», che ha bruciato la casa di suo zio. Il mio nuovo amico balinese ha risolto il problema scegliendosi come soprannome Mario.
«Perché Mario?»
«Perché mi piace tanto l’Italia.»
Quando gli ho detto di avere appena trascorso lì quattro mesi, la notizia gli è sembrata stupefacente, fantastica; si è avvicinato a me e mi ha detto: «Vieni, siedi, parla». Sono andata, mi sono seduta, abbiamo parlato. E siamo diventati amici.
Così oggi pomeriggio decido di cominciare la ricerca del mio sciamano dicendo a Mario se per caso non conosce un vecchio di nome Ketut Liyer.
Mario aggrotta le sopracciglia e pensa.
Mi aspetto che dica qualcosa come: «Ah, sì! Ketut Liyer! Il vecchio sciamano che è morto proprio la settimana scorsa – è triste quando un venerabile sciamano se ne va…».
Invece mi chiede di ripetere il nome e questa volta glielo scrivo su un foglio, pensando di averlo pronunciato scorrettamente. Infatti Mario legge e questa volta capisce. «Ketut Liyer!» esclama.
Adesso mi aspetto che dica: «Ketut Liyer! Quel vecchio pazzo… È stato rinchiuso la settimana scorsa…».
Invece dice: «Ketut Liyer è famoso guaritore».
«Sì, è lui!»
«Lo conosco. Vado tante volte a sua casa. La settimana passata ho portato mia cugina, perché suo bambino piangeva tutta la notte. Ketut Liyer ha guarito il bambino. Una volta ho portato una ragazza americana come te. Voleva una magia per diventare più bella per gli uomini. Ketut Liyer ha fatto una pittura magica, per aiutare lei a essere più bella. Io scherzo, ogni giorno dico a lei: La pittura funziona! Guarda come sei bella! La pittura funziona!»
Pensando all’immagine che Ketut Liyer aveva disegnato per me qualche anno prima, dico a Mario che anche io ho avuto una «pittura» dallo sciamano.
Mario si mette a ridere: «La pittura funziona anche per te!».
«La mia era per aiutarmi a trovare Dio» gli spiego.
«Non vuoi essere più bella per gli uomini?» mi domanda, disorientato.
E io: «Mario, potresti portarmi a trovare Ketut un giorno? Se non hai troppo da fare?».
«Non adesso» mi dice e, proprio mentre comincio a sentirmi delusa, aggiunge: «Forse tra cinque minuti».

75

Così, il pomeriggio stesso del mio arrivo a Bali mi trovo all’improvviso seduta su un motorino, aggrappata alla schiena del mio nuovo amico Mario, l’indonesiano-italiano che mi porta verso la casa di Ketut Liyer, correndo lungo le risaie a terrazza. Per quanto in questi ultimi due anni abbiamo pensato al momento in cui avrei ritrovato lo sciamano, in realtà non ho idea di che cosa gli dirò. Non ho un appuntamento, piomberò in casa sua senza preavviso. Riconosco l’insegna all’ingresso di casa sua: Ketut Liyer – pittore. La sua abitazione fa parte di quei tipici agglomerati di case balinesi che ospitano diverse generazioni di una stessa famiglia e sono circondati da alte mura di pietra; all’interno della proprietà vi sono anche un ampio cortile e un tempio. Entriamo senza bussare (la porta non c’è comunque), accolti dal riottoso disappunto di un tipico cane da guardia balinese (tutto pelle e ossa, e affamato) e nel cortile vediamo proprio lui, Ketut Liyer, l’anziano sciamano, con il sarong e la polo a mezze maniche, identico a com’era quando l’ho conosciuto. Mario dice qualcosa a Ketut e anche se il mio balinese è tutt’altro che fluente capisco che si tratta di una presentazione generica, del tipo: questa è una ragazza americana – è tutta tua.
Ketut mi rivolge il suo sorriso compassionevole e quasi completamente sdentato. Me lo ricordavo bene, è un uomo straordinario. La sua faccia è l’enciclopedia universale della gentilezza. Mi stringe la mano con una presa vivace ed energica.
«Sono felice di conoscerti» dice.
Non ha idea di chi io sia.
«Vieni, vieni» dice, e mi invita sotto il portico della sua casetta, dove i tappeti di bambù sono l’arredamento principale. È tutto identico a com’era due anni fa. Ci sediamo. Senza esitare prende il palmo della mia mano, come è abituato a fare con i visitatori occidentali. Mi dà una lettura veloce che, noto con sollievo, è una versione abbreviata di quella che mi ha dato l’ultima volta. (Forse non riconosce la mia faccia, ma il mio destino al suo occhio esperto appare immutato.) Il suo inglese è migliore di quanto ricordassi e migliore anche di quello di Mario. Ketut parla come i vecchi saggi cinesi nei film di kung fu, quelli che anche se ogni tre parole dicessero gravemente «bancomat» non perderebbero l’aria saggia. «Ah, bancomat, tu avere molta fortuna e buona sorte, bancomat…»
Aspetto una pausa per interromperlo e ricordargli che sono già stata da lui due anni prima.
Sembra confuso: «Non a Bali per la prima volta?».
«No, signore.»
Riflette: «Sei la ragazza della California?».
«No» rispondo e la mia sicurezza diminuisce sempre più, «sono la ragazza di New York.»
Ketut ribatte (e non so bene che cosa c’entri): «Non sono più così prestante, ho perso molti denti. Forse un giorno andrò a dentista, a mettermi denti nuovi. Ma dentista far troppa paura».
Apre la bocca deforestata per mostrarmi i danni subiti. Ha perso davvero molti denti sul lato sinistro della bocca, e sul lato destro ha solo dei monconi gialli tutti rotti che fanno male a guardarli. «Ho caduto» mi dice. E gli sono saltati via i denti.
Gli dico che mi dispiace, poi ci riprovo, parlando lentamente: «Forse non si ricorda di me, Ketut. Sono stata qui due anni fa con un’insegnante di yoga americana che ha vissuto a Bali per molti anni».
Sorride, infervorato: «Conosco Ann Barros!».
«Giusto. Ann Barros è il nome dell’insegnante di yoga. Ma io sono Liz. Sono venuta qui una volta per chiederle aiuto perché volevo arrivare più vicino a Dio. Lei mi ha fatto un disegno magico».
Scrolla amabilmente le spalle, non sembra minimamente interessato. «Non mi ricordo» dice.
Sono talmente delusa che mi viene quasi da ridere. Che cosa farò a Bali adesso? Non so cosa mi ero immaginata da questo incontro, ma avevo sperato che sarebbe stato una specie di ritrovarsi, commovente e superkarmico. E anche se è vero che avevo temuto che fosse morto, non mi aveva mai sfiorato l’idea che potesse, da vivo, non ricordarsi di me. Adesso mi sembra l’apice dell’idiozia aver pensato che il nostro primo incontro fosse stato per lui tanto memorabile quanto lo era stato per me. Avrei dovuto davvero pianificare meglio questo viaggio.
Gli descrivo il disegno che mi ha mostrato allora – la figura con le quattro gambe («saldamente poggiate a terra»), senza testa («non guarda il mondo con la mente») e la faccia nel cuore («guarda il mondo con il cuore») – e Ketut mi ascolta educatamente, sempre con scarso interesse.
Non intendo metterlo con le spalle al muro, ma per me è troppo importante sapere, così gli dico: «Lei mi aveva detto che sarei dovuta tornare a Bali. Mi ha detto di stare qui per tre o quattro mesi. Mi ha detto che avrei potuto aiutarla a imparare l’inglese e lei mi avrebbe insegnato le cose che sa». Non mi piace il suono della mia voce – al limite della disperazione. Non accenno all’invito ad andare a vivere con la sua famiglia. Mi sembra fuori luogo, date le circostanze.
Mi ascolta educatamente, sorridendo e scuotendo la testa, come per dire, Non sono buffe le cose che dice la gente?
Sono sul punto di lasciar perdere, ma ho fatto tanta strada e devo compiere un ultimo sforzo. «Sono la scrittrice» gli dico. «Ketut, sono la scrittrice di New York.»
Non so perché, ma questa è l’informazione giusta. La sua faccia diventa luminosa per la gioia, il suo sguardo puro e trasparente. Il fuoco del riconoscimento prende vita dentro di lui e manda scintille. «TU! TU! Mi ricordo, sei TU!» si sporge verso di me, mi afferra per le spalle e comincia a scuotermi allegramente, come un bambino che a Natale scuota un pacchetto ancora incartato per indovinare che cosa c’è dentro. «Sei tornata! Sei tornata!»
«Sono tornata! Sono tornata!»
«Tu, tu, tu!»
«Io, io, io!»
Sto piangendo, ma cerco di non darlo a vedere. La profondità del mio sollievo è difficile da spiegare. Coglie anche me di sorpresa. È come se, in un incidente, la mia macchina fosse volata da un ponte e precipitata sul fondo di un fiume, e io fossi uscita attraverso un finestrino aperto e poi, scalciando come un ranocchio e nuotando all’impazzata nell’acqua verde e fredda, fossi riuscita a intravedere la luce, quando ormai non avevo più ossigeno, le arterie del mio collo erano gonfie, e le guance piene del mio ultimo respiro. E solo allora… GASP! Salto fuori e inspiro enormi boccate di aria. Sono sopravvissuta. La sensazione di quel respiro profondo, di quel ritornare alla luce è la stessa che provo quando ascolto le parole dello sciamano indonesiano: sei tornata! Il mio sollievo è grande così. Esattamente così.
Non riesco ancora a credere che abbia funzionato.
«Sì, sono tornata» dico, «certo che sono tornata.»
«Io sono così felice!» dice Ketut. Ci teniamo le ...

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Gilbert, E. (2015). Mangia, prega, ama ([edition unavailable]). RIZZOLI LIBRI. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3380529/mangia-prega-ama-una-donna-cerca-la-felicit-pdf (Original work published 2015)

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Gilbert, Elizabeth. (2015) 2015. Mangia, Prega, Ama. [Edition unavailable]. RIZZOLI LIBRI. https://www.perlego.com/book/3380529/mangia-prega-ama-una-donna-cerca-la-felicit-pdf.

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Gilbert, E. (2015) Mangia, prega, ama. [edition unavailable]. RIZZOLI LIBRI. Available at: https://www.perlego.com/book/3380529/mangia-prega-ama-una-donna-cerca-la-felicit-pdf (Accessed: 15 October 2022).

MLA 7 Citation

Gilbert, Elizabeth. Mangia, Prega, Ama. [edition unavailable]. RIZZOLI LIBRI, 2015. Web. 15 Oct. 2022.