Quaderno proibito
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Quaderno proibito

Alba de Céspedes

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Quaderno proibito

Alba de Céspedes

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«Ho fatto male a comperare questo quaderno, malissimo. Ma ormai è troppo tardi per rammaricarmene, il danno è fatto»: con queste parole inizia il suo diario Valeria Cossati, la protagonista di questo romanzo, una donna della classe media nell'Italia degli anni Cinquanta. Poco più di quarant'anni, due figli grandi, un marito disattento, un lavoro d'ufficio che svolge senza apparente passione, Valeria è assorbita dal ritmo "naturale" della quotidianità piccolo-borghese, schiacciata, senza quasi rendersene conto, tra i suoi ruoli di moglie, madre, impiegata.

Un giorno però, colta da un impulso che a lei stessa appare irragionevole e inspiegabile, acquista un taccuino su cui comincia ad annotare fatti minuti e riflessioni. Nello spazio "proibito" della scrittura, Valeria scopre i conflitti sotterranei che pervadono la sua esistenza, le aspirazioni frustrate, i risentimenti nascosti; dà voce a una vita interiore da anni sopita, esprime una propria individualità, una precisa coscienza rivelata dai gesti e dai pensieri della vita quotidiana.

Pubblicato a puntate tra il 1950 e il 1951, e un anno dopo in volume, Quaderno proibito è considerato il capolavoro di Alba de Céspedes, un libro che è testimonianza storica di un'epoca e tributo a una generazione pre-femminista decisiva per tutte le rivoluzioni successive; ma soprattutto una magistrale prova letteraria capace di svelare l'identità, frammentata e mutevole, dell'essere umano.

Prefazione di Nadia Terranova.

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Information

Publisher
Mondadori
Year
2022
ISBN
9788835716952

Quaderno proibito

Señor don Blas, de qué libro
ha sacado uste ese texto?
Del teatro de la vida
humana que es donde leo.
RAMÓN DE LA CRUZ

26 novembre 1950

Ho fatto male a comperare questo quaderno, malissimo. Ma ormai è troppo tardi per rammaricarmene, il danno è fatto. Non so neppure che cosa m’abbia spinto ad acquistarlo, è stato un caso. Io non ho mai pensato di tenere un diario, anche perché un diario deve rimanere segreto e, perciò, bisognerebbe nasconderlo a Michele e ai ragazzi. Non mi piace tenere qualcosa nascosto; del resto, in casa nostra c’è tanto poco spazio che sarebbe impossibile riuscirvi. È andata così: quindici giorni fa, era domenica, uscii di casa piuttosto presto al mattino. Andavo a comperare le sigarette per Michele, volevo che, svegliandosi, le trovasse sul comodino: la domenica dorme sempre fino a tardi. Era una giornata bellissima, calda, nonostante l’autunno inoltrato. Provavo un’allegria infantile nel camminare per le strade, dalla parte del sole, e vedere gli alberi ancora verdi e le persone contente come sembrano sempre nei giorni festivi. Sicché decisi di fare una breve passeggiata, spingermi fino alla tabaccheria ch’è nella piazza. Lungo il cammino vidi che molti si fermavano presso la bancarella della fioraia e mi fermai anch’io, comperai un mazzo di calèndole. «Ci vogliono un po’ di fiori sulla tavola, la domenica» mi disse la fioraia: «gli uomini ci fanno caso.» Io sorrisi, annuendo: ma, in verità, comperando quei fiori non pensavo a Michele né a Riccardo, che pure li apprezza molto: li comperavo per me, per tenerli in mano mentre camminavo. Dal tabaccaio c’era molta gente. Nell’aspettare il mio turno, col danaro già pronto, vidi una pila di quaderni nella vetrina. Erano quaderni neri, lucidi, spessi, di quelli che usano a scuola e sui quali – prima ancora d’incominciarli – scrivevo subito, in prima pagina, con trasporto, il mio nome: Valeria. «Mi dia anche un quaderno» dissi frugando nella borsa per trovare altro danaro. Ma, quando rialzai gli occhi, vidi che il tabaccaio aveva assunto un’espressione severa per dirmi: «Non si può, è proibito». Mi spiegò che l’agente stava di guardia sulla porta, ogni domenica, affinché si vendessero tabacchi soltanto, null’altro. Ero rimasta sola nel negozio. «Ne ho bisogno» gli dissi «ne ho bisogno assolutamente.» Parlavo sottovoce, concitata, ero pronta a insistere, a scongiurare. Allora egli si guardò attorno poi, lesto, prese un quaderno e me lo tese attraverso il bancone, dicendo: «Lo metta sotto il cappotto».
Lo tenni sotto il cappotto lungo tutta la strada, fino a casa. Temevo che scivolasse, che cadesse in terra mentre la portiera mi raccontava non so che cosa della colonna del gas. Ero rossa in viso nell’aprire la porta con la chiave: feci per andare in camera mia difilato, ma mi rammentai che Michele era ancora a letto. Intanto Mirella mi chiamava: «Mamma…». Riccardo chiedeva: «Hai comperato il giornale, mamma?». Ero agitata, confusa, temevo che non sarei riuscita a rimanere sola mentre mi toglievo il cappotto. “Lo metterò nell’armadio” pensavo, “no, Mirella lo apre spesso per prendere qualcosa di mio da indossare, un paio di guanti, o una camicetta. Il comò, Michele lo apre sempre. La scrivania è occupata ormai da Riccardo.” Consideravo che non avevo più in tutta la casa un cassetto, un ripostiglio che fosse rimasto mio. Mi proponevo di far valere da quel giorno i miei diritti. “Nell’armadio della biancheria” decisi, poi ricordai che Mirella ogni domenica prende una tovaglia pulita per apparecchiare. Lo gettai infine nel sacco degli stracci, in cucina. Feci appena in tempo a chiudere il sacco che Mirella entrò, disse: «Che hai, mamma? Sei tutta rossa in viso». «Sarà il cappotto» risposi togliendomelo: «oggi è caldo, fuori.» Mi pareva che potesse dirmi: “Non è vero, è perché hai nascosto qualcosa nel sacco”. Inutilmente tentavo di convincermi che non avevo fatto nulla di male. Riudivo la voce del tabaccaio ammonire: «È proibito».

10 dicembre

Per oltre due settimane ho tenuto il quaderno nascosto senza più riuscire a scrivervi. Fin dal primo giorno è stato molto difficile cambiargli di posto continuamente, trovare nascondigli ove non fosse subito scoperto. Se l’avessero trovato, Riccardo se ne sarebbe impadronito per prendere appunti all’università o Mirella per il diario che tiene chiuso a chiave nel suo cassetto. Io avrei potuto difenderlo, dire che è mio, ma avrei dovuto giustificarne l’uso. Per i conti della spesa adopero sempre certe agende pubblicitarie che Michele ai primi giorni dell’anno mi porta dalla banca: egli stesso mi avrebbe consigliato gentilmente di cederlo a Riccardo. Qualora ciò fosse accaduto avrei rinunciato subito al quaderno e mai più avrei pensato di comperarne un altro: perciò mi difendevo con accanimento da questa occorrenza, sebbene – debbo confessarlo – da quando possiedo questo quaderno, io non abbia più avuto un momento di pace. Prima ero sempre rammaricata quando i ragazzi uscivano e adesso invece desidero che lo facciano per rimanere sola e scrivere. Non avevo mai considerato prima d’ora che, a causa della esiguità della nostra casa e dell’orario d’ufficio, io ho raramente occasione di rimanere sola. Infatti sono dovuta ricorrere a un inganno per principiare questo diario; ho comperato tre biglietti per la partita di calcio e ho detto che mi erano stati regalati da una compagna d’ufficio. Doppio inganno giacché, per acquistarli, ho fatto la cresta sulla spesa. Subito dopo colazione ho aiutato Michele e i ragazzi a vestirsi, ho prestato a Mirella il mio cappotto pesante, li ho salutati affettuosamente, e ho richiuso la porta dietro di loro con un brivido di soddisfazione. Pentita poi sono corsa alla finestra come per richiamarli. Erano già lontani e mi pareva che corressero verso un’insidia da me tesa ai loro danni invece che verso una innocua partita di calcio. Ridevano tra loro e quel riso mi procurava una puntura di rimorso. Quando rientrai in casa feci per mettermi subito a scrivere, ma la cucina era ancora da rigovernare: Mirella non aveva potuto aiutarmi come fa sempre la domenica. Perfino Michele, per sua natura così ordinato, aveva lasciato l’armadio aperto, alcune cravatte sparse qua e là, lo ha fatto anche oggi. Oggi ho di nuovo comperato i biglietti per la partita di calcio e perciò posso godere di un po’ di calma. La cosa più bizzarra è che, quando infine posso trarre il quaderno dal suo nascondiglio, sedermi, e incominciare a scrivere, non trovo nulla da dire oltre alla relazione della lotta quotidiana che sostengo per occultarlo. Ora lo tengo nascosto nel vecchio baule in cui durante l’estate conserviamo gli indumenti invernali. Ma, due giorni fa, ho dovuto dissuadere Mirella dall’aprire il baule per prendere certi suoi calzoni pesanti da sci che usa in casa da quando abbiamo rinunziato al riscaldamento. Il quaderno era lì, appena sollevato il coperchio del baule lo avrebbe visto. Perciò le dissi: «C’è tempo, c’è tempo» e lei si ribellava: «Ho freddo». Io insistevo con tanto fervore che persino Michele lo notò. Quando fummo soli mi disse che non capiva perché avessi contrariato Mirella. Io gli risposi duramente: «So quel che faccio» e lui mi guardava, stupito del mio insolito umore. «Non mi piace che tu intervenga nelle mie discussioni coi ragazzi» continuavo. «Mi togli ogni autorità nei loro confronti.» E mentre egli obiettava che in genere lo incolpo di non occuparsi abbastanza di loro e mi si avvicinava scherzoso dicendo: «Che hai, oggi, mammà?» io pensavo che forse incomincio a divenire nervosa, irascibile, come – si dice – tutte le donne quando passano i quarant’anni: e, sospettando che anche Michele lo pensasse, mi sentivo profondamente umiliata.

11 dicembre

Nel rileggere quel che ho scritto ieri mi viene fatto di domandarmi se io non abbia incominciato a cambiare carattere dal giorno in cui mio marito, scherzosamente, ha preso a chiamarmi “mammà”. Mi piacque tanto, sul principio, perché così mi pareva d’essere io la sola persona adulta, in casa, la sola che già sapesse tutto della vita. Ciò accresceva quel senso di responsabilità che ho sempre avuto, fin dall’infanzia. Mi piacque anche perché in tal modo riuscivo a giustificare l’impeto di tenerezza sempre suscitato in me dal fare di Michele che è rimasto candido, ingenuo, anche ora che ha quasi cinquant’anni. Quando mi chiama “mammà” io gli rispondo con un piglio tra severo e tenero, lo stesso che usavo con Riccardo quando era bambino. Però adesso capisco che è stato un errore: lui era la sola persona per la quale io fossi Valeria. I miei genitori sin dall’infanzia mi chiamano Bebe, e con loro è difficile essere diversa da quella che ero all’età in cui mi dettero quel nomignolo; infatti, seppure entrambi pretendano da me tutto ciò che si pretende dalle persone adulte, non sembrano ammettere ch’io lo sia veramente. Sì, Michele era la sola persona per la quale io fossi Valeria. Per alcune amiche sono ancora Pisani, la compagna di scuola, per altre sono la moglie di Michele, la madre di Riccardo e Mirella. Per lui, invece, fin da quando ci siamo conosciuti, ero stata soltanto Valeria.

15 dicembre

Ogni volta che apro questo quaderno guardo il mio nome, scritto in prima pagina. Mi compiaccio della mia scrittura sobria, non molto alta, piegata da un lato, che pur denunzia chiaramente la mia età. Ho quarantatré anni, sebbene, quando ci penso, non riesca a convincermene. Anche gli altri stupiscono nel vedermi accanto ai miei figli e mi fanno sempre qualche complimento che fa sorridere con impaccio Riccardo e Mirella. Comunque, ho quarantatré anni e mi pare vergognoso ricorrere a puerili sotterfugi per scrivere in un quaderno. Perciò è assolutamente necessario che confessi a Michele e ai ragazzi l’esistenza di questo diario e affermi il mio diritto di chiudermi in una stanza a scrivere quando ne ho voglia. Ho agito scioccamente fin dall’inizio e continuando aggraverò sempre più l’impressione che ho di fare qualcosa di male nello scrivere queste righe innocenti. Tutto ciò è assurdo. Eppure ormai non ho pace neppure in ufficio. Se il direttore mi trattiene oltre l’orario, temo che Michele rincasi prima di me e, per un motivo imprevedibile, frughi tra le vecchie carte ove nascondo il quaderno; perciò spesso adduco una scusa per non rimanere, rinunziando, in tal modo, a qualche straordinario. Torno a casa in grande ansia; se scorgo il cappotto di Michele appeso nell’ingresso provo un colpo al cuore: entro in sala da pranzo temendo di vedere Michele col nero lucido del quaderno in mano. Se lo trovo che discorre coi ragazzi penso ugualmente che possa averlo trovato e aspetti di essere solo con me per parlarmene. Mi pare sempre che, a sera, chiuda la porta della nostra camera con particolare cura, controllando lo scatto della maniglia. “Ora si volge e me lo dice.” Invece non dice nulla, mi sono avveduta che chiude sempre la porta così per una sua abitudine meticolosa.
Due giorni fa Michele mi ha telefonato in ufficio e io, subito, ho temuto che fosse tornato a casa per un motivo qualsiasi e avesse trovato il quaderno. Nel rispondergli ero agghiacciata. «Senti, ti devo dire una cosa…» ha incominciato. Per alcuni secondi mi sono domandata affannosamente se affermare il mio diritto ad avere quanti quaderni voglio e scrivervi quello che mi pare o, invece, pregarlo: “Michele comprendimi, lo so, ho fatto male…”. Ma lui voleva sapere soltanto se Riccardo si era ricordato di andare a pagare le tasse all’università poiché quel giorno scadeva il termine utile.

21 dicembre

Ieri sera, subito dopo cena, ho detto a Mirella che non mi piace la sua abitudine di tenere chiuso a chiave il cassetto della scrivania. Mi ha risposto sorpresa, obiettando di aver quest’abitudine da anni. Ho ribattuto che, infatti, da anni la disapprovo. Mirella ha risposto vivacemente che, se studia tanto, è proprio perché vuole incominciare a lavorare, essere indipendente, e andarsene da casa appena maggiorenne: così potrà tenere chiusi tutti i cassetti senza che alcuno se ne adonti. Ha aggiunto che nel cassetto tiene il suo diario, perciò lo chiude a chiave, e che, del resto, anche Riccardo fa lo stesso perché vi ripone le lettere che riceve dalle ragazze. Ho replicato che allora anche Michele e io avremmo il diritto di avere un cassetto chiuso a chiave. «Infatti lo abbiamo» ha detto Michele: «è il cassetto dove teniamo il danaro.» Io insistevo che avrei voluto averne uno per me sola; e lui, sorridendo, mi ha chiesto: «Per che farne?». «Mah, non so, per tenerci le mie carte personali» ho risposto «alcuni ricordi. O forse proprio un diario, come Mirella.» Allora tutti, compreso Michele, hanno cominciato a ridere all’idea ch’io possa tenere un diario. «E che vorresti scriverci, mammà?» diceva Michele. Mirella, dimenticando il suo risentimento, rideva anche lei. Io seguitavo a discutere senza badare alle loro risate. Serio, allora, Riccardo si è alzato ed è venuto verso di me. «La mammà ha ragione» ha detto gravemente «anche lei ha diritto di tenere un diario come Mirella, un diario segreto, forse un diario amoroso. Vi dirò che da un po’ di tempo incomincio a sospettare che abbia qualche nascosto ammiratore.» Fingeva gran serietà, aggrottava la fronte, e Michele, stando al giuoco, si mostrava impensierito, diceva che sì, è proprio vero, mammà non sembra più la stessa, bisogna vigilarla. Poi di nuovo tutti si sono lasciati andare a ridere, a ridere forte, e, venuti attorno a me, mi hanno abbracciato, anche Mirella. Riccardo, prendendomi il mento tra le dita, mi ha chiesto teneramente: «Che ci vuoi scrivere, dimmi, nel diario?». D’improvviso io sono scoppiata a piangere e non capivo che cosa avevo, salvo una grande stanchezza. Nel vedermi piangere Riccardo s’è fatto pallido, mi ha stretto tra le braccia, dicendo: «Scherzavo, mammetta, non capisci che scherzavo? perdonami…». Poi si è rivolto alla sorella e le ha detto che è sempre per causa sua che accadono queste cose. Mirella è uscita dalla stanza da pranzo sbattendo la porta dietro di sé.
Poco dopo anche Riccardo è andato a dormire e siamo rimasti soli, Michele e io. Michele ha incominciato a parlarmi, affettuosamente. Diceva che egli comprendeva benissimo il mio impulso di gelosia materna, ma che ormai devo abituarmi a considerare Mirella una ragazza, una donna. Tentavo di spiegare che non si trattava affatto di questo e lui continuava: «Ha diciannove anni, è normale che abbia già qualche cosa, un’impressione, un sentimento che non voglia far conoscere a quelli di casa. Un piccolo segreto, insomma». «E noi, allora?» ho replicato io: «Non abbiamo diritto di avere anche noi qualche segreto?» Michele mi ha preso la mano, me l’ha carezzata con dolcezza. «Oh, cara» ha detto «che segreti vuoi che abbiamo ancora alla nostra età?» Se avesse pronunziato queste parole in tono spavaldo, scherzoso, mi sarei ribellata; ma il tono accorato della sua voce mi ha fatto impallidire. Mi sono guardata attorno per essere certa che i ragazzi fossero a letto e anch’essi potessero credere che quell’attimo di debolezza fosse dovuto a gelosia materna. «Sei pallida, mammà» Michele diceva: «ti stanchi troppo, lavori troppo, adesso ti do un cognac.» Sono scattata rifiutando. Egli insisteva. «Grazie» ho detto io: «non voglio bere nulla, è passato. Hai ragione forse ero un po’ stanca, ma ora sto benissimo.» Sorridevo abbracciandolo per rassicurarlo. «Sempre la stessa: ti riprendi subito» Michele ha commentato con tenerezza «niente cognac, allora.» Impacciata io distoglievo lo sguardo. Nella dispensa, accanto alla bottiglia del cognac, dentro una vecchia scatola di biscotti avevo nascosto il quaderno.

27 dicembre

Due giorni fa è stato Natale. La sera della vigilia Riccardo e Mirella erano invitati a un ballo in casa di certi nostri vecchi amici, i Caprelli, che in quell’occasione presentavano la loro figliuola in società. Questo invito era stato accolto con gioia dai ragazzi perché i Caprelli sono una famiglia molto facoltosa che riceve con larghezza e buon gusto. Anche io me ne rallegravo perché così avrei avuto modo di pranzare sola con Michele, come quando eravamo appena sposi. Mirella era felice all’idea di indossare nuovamente il suo primo vestito da sera, inaugurato lo scorso Carnevale, e Michele avrebbe prestato a Riccardo il suo smoking come fece già l’anno passato. In vista di questa serata io avevo comperato a Mirella una sciarpa di velo seminato di pagliuzze d’oro e a Riccardo una camicia da sera, di quelle moderne col colletto floscio. Il pomeriggio è stato lietissimo giacché tutti e quattro ci ripromettevamo di passare una bella serata. Mirella, vestita, era graziosissima: l’attesa del prossimo divertimento aveva dissipato dal suo viso quell’espressione sempre lievemente accigliata e un po’ caparbia che le è abituale. Quando è entrata in sala da pranzo e, per farci ammirare il suo ampio vestito, ha volteggiato lievemente su se stessa, nascondendo il viso dietro la sciarpa in un inconsueto moto di timidezza, suo padre e suo fratello hanno dato in alte esclamazioni ammirative, quasi stupiti di riconoscere nella figlia e nella sorella una ragazza tanto attraente. Anch’io sorridevo, ero fiera addirittura: stavo per dirle che avrei voluto vederla così, lieta, aggraziata, come dovrebbe essere una ragazza a vent’anni. Poi ho considerato che forse lei è sempre in tal modo per gli altri, del tutto diversa da quella che noi conosciamo. E, nel domandarmi con inquietudine se uno di questi suoi aspetti sia una finzione, un inganno, ho capito che non è lei diversa, ma sono diverse le parti che in casa e fuori è costretta a sostenere. A noi è riserbata la più ingrata.
Riccardo è andato subito a vestirsi, animato dalla vista della sorella. Pochi minuti dopo ho udito che mi chiamava dalla camera. Dal tono della sua voce ho subito intuito ciò che accadeva. Confesserò che lo temevo da giorni, ma solo in quel momento il suo richiamo, «Mamma», mi ha obbligato a riconoscere che lo temevo. Lo smoking di Michele gli è divenuto stretto, le maniche troppo corte. In piedi nel mezzo della camera, egli mi si consegnava nello sgomento della sua delusione. Lo smoking gli stava già attillato l’anno scorso; ne avevamo riso, dicendo che avrebbe dovuto trattenersi dall’abbracciare una ragazza per tema di sentire il vestito cedere sulla schiena, le maniche scucirsi. Ma Riccardo si è fatto più robusto, da allora, forse è anche cresciuto. Mi guardava sperando che al mio apparire tutto s’accomodasse, per miracolo, come quando era bambino. Anch’io avrei voluto che fosse così. Per un momento ho pensato di dirgli: “Ti va benissimo” e che lui potesse credermi. Invece ho detto: «Non può andare». Poi, subito, mi sono accostata a lui palpeggiando le maniche, il petto, immaginando fulminei adattamenti che tuttavia non sarei stata capace di effettuare. Riccardo seguiva ansiosamente con lo sguardo le mie mani aspettandosi una diagnosi favorevole. Io ho ripetuto, scoraggiata: «Non ci si può far nulla».
Siamo tornati in sala da pranzo, insieme. Riccardo aveva gli orecchi rossi, il viso pallido. «Non si va al ballo» ha annunziato con voce cattiva. Guardava la sorella e avrebbe voluto strapparle il vestito, il suo sguardo era simile a un morso. Mirella, temendo che neppure una sua ribellione valesse a evitare questa sciagura: «Perché?» ha chiesto incerta. Lui ha mostrato che non poteva abbottonarsi la giacca e che le maniche scoprivano ridicolmente i polsini della camicia nuova. «Papà ha le spalle strette» ha detto con mal garbo.
Subito sono stati passati rapidamente in rivista parenti e amici che avrebbero potuto prestarci uno smoking. Io m’avvedevo di averlo già fatto, inconsapevolmente, due giorni prima, e aver concluso che quasi tutte le persone che conosciamo ormai non lo possiedono più. Sorretti da un filo di speranza abbiamo telefonato a un cugino, ma ne aveva bisogno lui stesso, quella sera. Mentalmente abbiamo pesato, misurato alcuni amici, scotendo la testa. Un altro parente, interrogato per telefono, ha risposto quasi stupito della richiesta: «Uno smoking? No, non ce l’ho, a che mi servirebbe?». Riccardo, nel riappendere il microfono, ha detto con un riso nervoso: «Conosciamo tutta gente povera». E Michele ha ribattuto: «Gente come noi». Allora Riccardo ha proposto, fingendo di scherzare: «Se ne potrebbe affittare uno, no?, come fanno le comparse». Michele ha detto: «Ci mancherebbe altro». Sentivo che pensava alla sua marsina, al tight che indossava il giorno del nostro matrimonio: entrambi sono appesi nell’armadio sotto un lenzuolo bianco. Pensava, certo, alle divise nere e azzurre di suo padre. «Ci mancherebbe altro» ha ripetuto, severo. Io comprendevo benissimo ciò che conduceva Michele a dire così; anch’io ricordavo tante cose del passato dalle quali è difficile staccarsi e tuttavia giudicavo che avrei fatto bene a dire che quella di Riccardo era un’idea buonissima, si poteva affittare uno smoking. Sentivo che mio figlio aspettava che lo dicessi, era un aiuto che avrei voluto dargli, ma, stretta da una indefinibile incertezza, mi sono astenuta dal parlare. Intanto Mirella mi guardava fissa e io ho detto risolutamente: «Andrà Mirella sola». Michele voleva replicare; ho continuato senza guardare nessuno: «Bisogna incominciare ad accettare le situazioni nuove; quella di non avere uno smoking e quella di mandare una ragazza sola a un ballo come io non avrei potuto fare, al mio tempo. C’è un vantaggio in ogni cosa. Tu l’accompagni, Michele. Poi torni qui. Staremo bene lo stesso, noi tre. Riccardo, abbi pazienza».
Riccardo non diceva nulla. Mirella m’ha abbracciato lievemente, poi, incerta se salutare il fratello, è uscita con un passo che voleva essere discreto e che, invece, pel fruscìo del vestito, acquistava un accento di spavalderia. Mi auguravo che, prima di udire la porta di casa richiudersi, accadesse davvero un miracolo e io potessi accorrere verso Riccardo, ridendo, come se, fino allora, avessi recitato una commedia. Mi vedevo nel gesto di trarre dall’armadio uno smoking nuovo, ne vedevo i risvolti di raso fiammante. Quando la porta si è richiusa, Riccardo ha aggrottato un poco la fronte e io ho ripetuto: «Abbi pazienza».
Lo dicevo con un tono umile, come se avessi qualcosa da farmi perdonare, ed era proprio ad esso che, dentro di me, pur nell’usarlo, mi ribellavo. Avrei voluto promettere a Riccardo di comperargli uno smoking, a rate, come avevamo comperato il vestito da sera di Mirella; ma un vestito da uomo è sempre più caro, e poi un uomo non deve trovare marito. Dovevo riconoscere, perciò, di non poter gravare di questa spesa superflua il nostro bilancio. Ricordavo quando Mirella e Riccardo erano ...

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