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Marco Balzano

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  1. 192 pages
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Marco Balzano

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Finalista Premio Strega 2018 Quando arriva la guerra o l'inondazione, la gente scappa. La gente, non Trina. Caparbia come il paese di confine in cui è cresciuta, sa opporsi ai fascisti che le impediscono di fare la maestra. Non ha paura di fuggire sulle montagne col marito disertore. E quando le acque della diga stanno per sommergere i campi e le case, si difende con ciò che nessuno le potrà mai togliere: le parole. «Se per te questo posto ha un significato, se le strade e le montagne ti appartengono, non devi aver paura di restare». L'acqua ha sommerso ogni cosa: solo la punta del campanile emerge dal lago. Sul fondale si trovano i resti del paese di Curon. Siamo in Sudtirolo, terra di confini e di lacerazioni: un posto in cui nemmeno la lingua materna è qualcosa che ti appartiene fino in fondo. Quando Mussolini mette al bando il tedesco e perfino i nomi sulle lapidi vengono cambiati, allora, per non perdere la propria identità, non resta che provare a raccontare. Trina è una giovane madre che alla ferita della collettività somma la propria: invoca di continuo il nome della figlia, scomparsa senza lasciare traccia. Da allora non ha mai smesso di aspettarla, di scriverle, nella speranza che le parole gliela possano restituire. Finché la guerra viene a bussare alla porta di casa, e Trina segue il marito disertore sulle montagne, dove entrambi imparano a convivere con la morte. Poi il lungo dopoguerra, che non porta nessuna pace. E cosí, mentre il lettore segue la storia di questa famiglia e vorrebbe tendere la mano a Trina, all'improvviso si ritrova precipitato a osservare, un giorno dopo l'altro, la costruzione della diga che inonderà le case e le strade, i dolori e le illusioni, la ribellione e la solitudine. Una storia civile e attualissima, che cattura fin dalla prima pagina. Il nuovo grande romanzo del vincitore del Premio Campiello 2015, già venduto in diversi Paesi prima della pubblicazione.

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2018
ISBN
9788858427880
Parte seconda

Fuggire

Capitolo primo

Non ti racconterò la tua assenza. Non ti dirò una sola parola degli anni passati a cercarti, dei giorni sulla soglia a fissare la strada. Non ti dirò di tuo padre che senza salutarmi esce di casa. Alla stazione di Bolzano lo bloccano mentre cerca di salire su un treno merci diretto a Berlino. La polizia italiana prima lo sbatte in cella, poi gli promette che gliela riporteranno loro, la sua Marica. Qualche giorno piú tardi prova ad attraversare il confine a piedi. La luce delle torce gli acceca la faccia ma lui non si ferma all’altolà. Una pallottola lo colpisce di striscio. Il pomeriggio dei militari bussano alla porta, avvolti in cappotti grigio topo, con i gradi cuciti sul petto. Prima di spingerlo nel maso minacciano di internarlo nel manicomio di Pergine, lo stesso che Hitler svuoterà per deportare i ricoverati nei campi e sopprimerli col gas. Non ti dirò di Michael che se ne va in giro con una tua foto – una foto senza bordi dell’anno prima, i capelli raccolti come non li portavi piú – e insieme a una squadra di mocciosi passa le giornate nei paesi qui attorno a mostrarla a chiunque. Non ti dirò dei mesi in cui ciascuno di noi d’improvviso scappava, senza avvisare gli altri, e trovando la casa vuota pensava che prima o poi i boschi ci avrebbero inghiottito. Persi per sempre nell’insensato tentativo di riportarti qui. Dove non volevi piú stare.
Una mattina il postino corre a consegnarmi una lettera. Sulla busta c’è solo il mio nome. Nessun francobollo, nessun timbro. La scrittura la riconosco, è la tua.
– Qualcuno l’ha lasciata sulla porta dell’ufficio, – dice senza guardarmi.
– Chi? – gli chiedo strappandogliela di mano.
– Non lo so.
Cerco di controllare il tremore alle mani. Non so perché mi viene in mente Ma’, quando apriva col ferro caldo le mie lettere per controllare se erano di un’amica o di un uomo.
Cara mamma, ti scrivo mentre sono sola nella mia camera. Sono stata io a voler partire con gli zii. Sapevamo che non ci avreste dato il permesso, è per questo che siamo fuggiti. Qui in città potrò studiare e diventare migliore. Non soffrite per me perché sto bene e perché un giorno ritornerò a Curon. Se la guerra durerà a lungo tu non preoccuparti, qui sono al sicuro. Quando busserò alla vostra porta spero che tu, papà e Michael mi amerete ancora. Gli zii non mi fanno mancare niente. Perdonateli se potete. E perdonate anche me.
Marica
Da quel giorno il dolore cambia. Michael strappa la tua foto e ci chiede di non parlargli piú di te. Di non nominarti nemmeno. Erich smette di correre avanti e indietro, non cerca di espatriare, né piú di ritrovarti. Rimane alla finestra a fumare, senza scendere nemmeno a dar da mangiare agli animali. La apre il mattino e la richiude la sera. Tra queste due azioni non succede niente. Io resto a letto, le persiane accostate, la porta chiusa a chiave. Mi sento senza piú lacrime. Rileggo per tutto il tempo quella lettera che mi tengo sempre addosso. Ripercorro senza pace quella notte. Mi chiedo come posso non aver sentito la tua voce, i passi di quei bastardi, il rumore che fanno le cose caricate sul carro, i cavalli che sbuffano nell’attesa di partire o il rombo di un’automobile che si accende. Come sia possibile che a Curon non vi abbia sentiti nessuno. Eri sveglia o ti hanno caricata nel sonno? Volevi partire o ti hanno costretta? L’hai scritta tu quella lettera o ti hanno obbligata?
Pa’ un giorno bussa alla porta e mi dice di uscire a comprargli una presa di tabacco. Si mette di fianco a Erich senza parlare. Stanno cosí, fermi alla finestra a guardare le nuvole. Poi lo prende sottobraccio e lo porta in stalla a dar da mangiare alle bestie. Gliele fa accarezzare una per una. Prima di andarsene viene da me, mi ordina di mettere su la cena e apparecchiare la tavola. Vicino all’acquaio lascia una cesta con la carne, una pagnotta, del vino.
Diventa una vertigine, il dolore. Qualcosa di familiare e nello stesso tempo di clandestino, di cui non si parla mai. Tutti, quando ci capita di dimenticare le parole di quella lettera, proveremo ancora per anni a cercarti, ma ormai lo sappiamo che questo cercarti solitario è solo obbedire a una speranza che non sentiamo piú nemmeno di avere.
No, non meriti di conoscere quei giorni di buio. Non meriti di sapere quanto abbiamo gridato il tuo nome. Quante volte ci siamo illusi di essere sulla strada giusta. È una storia che non ha ragione di riaccadere nelle parole. Ti racconterò invece della vita di noi, del nostro essere sopravvissuti. Ti dirò di quello che è successo qui a Curon. Nel paese che non c’è piú.

Capitolo secondo

Era scoppiata la guerra. Tanti di quelli che avevano deciso di partire per la Germania alla fine restarono qui. La paura dell’ignoto, le bugie della propaganda, la furia di Hitler li tennero a Curon.
Le giornate di gennaio avevano una luce breve e opaca. Iniziavano tutte con lunghe albe grigie. Sull’Ortles si vedeva la vetta imbiancata e piú in basso le cime degli alberi soffiate dal vento gelido. In paese la gente non sembrava preoccupata, solo piú stanca. Stanca dei fascisti, stanca di brancolare nel buio.
Io cucivo con Ma’, che adesso non mi lasciava mai sola. Mi insegnò a lavorare coi ferri e stavamo lunghe ore in silenzio, gomito a gomito, su quelle sedie della cucina che mi dimenticavo di far impagliare. Di te non voleva che parlassi. Quando non c’era niente da cucire mi metteva una gerla in testa e mi portava al fiume a lavare i panni del banchiere. Se mi perdevo a guardare il vuoto diceva che dovevo torcere i panni piú forte, fino a far sparire i pensieri sbagliati.
– Se Dio ci ha fatto gli occhi davanti ci sarà un motivo! È in quella direzione che bisogna guardare, altrimenti li avremmo di lato come i pesci! – ripeteva severa.
Per lei che a nove anni lavorava nei campi e passava le sere a inchiodare cassette per la frutta, tu eri solo una persona egoista che aveva scelto chi aveva piú soldi.
Una complice.
Tutti credevano che le cose sarebbero andate come nel ’15, che sul Carso italiani e austriaci si ammazzavano ma qui a Curon si continuava a raccogliere il fieno, a tagliare l’erba e a metterla ad asciugare sui muri, a portare in malga le mucche, a riempire secchi di latte e farci il burro, a sgozzare il maiale e mangiare per giorni salsicce e salami. I bambini dei poveri hanno continuato a partire per andare a fare i pastori oltre frontiera in cambio di un paio di scarpe, un pugno di spiccioli, qualche vestito. Le madri li hanno attesi, contando i giorni che mancavano a San Martino, quando tutti rientravano e in paese si faceva festa fino a sera. Abbiamo aspettato che l’estate sciogliesse la neve e che poi il vento delle Alpi ce la riportasse, silenziosa e pesante. Ci siamo pianti i nostri morti in silenzio. Abbiamo inghiottito il rospo di aver combattuto con gli austriaci per ritrovarci italiani. Siamo riusciti a fare tutto questo perché eravamo convinti che fosse l’ultima guerra. La guerra per eliminare le guerre. Cosí la notizia di un secondo conflitto, con la Germania alla riscossa che presto avrebbe invaso il mondo, sul momento ci lasciò attoniti, ma ci illudemmo che le montagne sarebbero ancora state pareti di solitudine, che questa Italia di cui dovevamo sentirci parte sarebbe rimasta neutrale fino alla fine. Anzi, sulle prime la notizia della guerra portò in paese un certo sollievo: «almeno adesso la pianteranno con questa storia della diga», «ora avranno altro a cui pensare», «le nostre bestie e i nostri masi finalmente saranno al sicuro». Cosí dicevano gli uomini all’osteria. Cosí le donne davanti alla chiesa. A Curon c’è stato chi l’ha festeggiato, l’inizio della guerra. Gerhard girava col fiasco e lo alzava in aria gridando: «La guerra da loro, la pace da noi!»
Chi era rimasto qui, adesso che gli eserciti di Hitler erano in marcia, si ringalluzziva di aver scelto bene. Immaginava quei pochi che erano emigrati in Germania a combattere in prima fila sui confini orientali o affondati nel fango di chissà quale parte d’Europa.
E poi italiani, da quando era scoppiata la guerra, finalmente non ne arrivavano piú. Si vedevano sempre le camionette dei carabinieri, un andirivieni frenetico di mezzi militari che faceva presagire quello che piú temevamo, ma di quella gente arrogante con le valigie in mano non se n’è piú vista.
Il primo Natale senza di te l’abbiamo passato con Ma’ e Pa’, che hanno impastato gli gnocchi e cucinato il brodo di gallina. Abbiamo mangiato in silenzio e non c’era mai stato tanto silenzio in un pranzo di festa. Gli amici e i clienti che passavano per fare gli auguri, Pa’ li rimandava via in pochi minuti. Abbiamo sentito i pifferai che attraversavano i paesi della valle, con quelle musiche che l’anno prima tu e tuo fratello avevate ballato giú in strada insieme agli altri bambini. Ma’ cucinava, cuciva, faceva avanti e indietro dal fiume senza fermarsi un attimo. Non so dove trovasse tutte quelle energie. D’improvviso non mi sembrava piú vecchia. Ogni tanto, quando eravamo sole, scoppiavo a piangere e lei mi prendeva la mano. Non mi sono mai sentita cosí tanto figlia come dopo che tu sei scappata.
Trascorse anche quell’inverno. Ad aprile il sole sembrava una luce di cristallo e lo spazzacamino passò di maso in maso ad aggiustare le grondaie. Adesso non tenevamo piú il fuoco acceso, che era l’invidia del paese. Gli altri per scaldarsi usavano frasche e sterpaglie, noi la legna degli alberi che Michael portava dalla bottega di Pa’. Aveva imparato il lavoro e a scuola non ci era piú andato. Gli operai dicevano che per avere quindici anni era un falegname provetto.
I campi induriti dal gelo tornarono a verdeggiare ma si faceva sempre piú fatica a lavorare con le bestie. Il latte munto rimaneva nei secchi per giorni e non si riusciva piú a venderne nemmeno un litro. Erich dalla rabbia tirava calci ai secchi e io restavo ammutolita a guardare le macchie bianche bevute dal fango schizzare sotto gli zoccoli delle mucche.
Continuavo a dipanare la lana e ne facevo mucchi per terra. Li veniva a ritirare un vecchio con gli occhi acquosi e le spalle ricurve. Ci pagava una miseria, ma almeno potevamo restare al caldo. Faceva, con quella lana, uniformi ed equipaggiamenti per i soldati.
– Quando entrerà in guerra l’Italia ci sarà piú lavoro, – diceva caricando la lana sul motocarro.
– E quando entrerà in guerra l’Italia? – chiedeva Ma’, infervorata come se fosse il vecchio a decidere.
Quello faceva una smorfia storcendo la faccia sghemba e poi ripartiva su quel suo motocarro che spandeva per la strada un odore muffoso che saturava l’aria.
E comunque, al di là di quel che diceva il vecchio, molte strade diventavano impraticabili, sbarrate dai posti di blocco, e giorno dopo giorno, ora dopo ora, lo sentivamo anche noi che stava per scoppiare la guerra. La sera gli aerei dietro le montagne sembravano nugoli di calabroni e Ma’ diceva che dovevamo correre a rifugiarci nella stalla dove aveva preparato una cassa con la paglia e le coperte.
– Le bombe possono cadere per sbaglio anche su Curon che è cosí vicina all’Austria! – ripeteva in preda al panico.
– Vacci tu nella stalla, io voglio morire nel mio letto, non nella puzza di merda! – le gridava Pa’ con la sua voce sempre piú roca.
Una mattina aspettavo Ma’ e invece non arrivò. All’ora di pranzo andai al suo maso. La porta era aperta e vicino alla stufa non c’era nessuno. La chiamai ma non mi venne incontro né mi rispose. La chiamai ancora, piú forte, restando imbambolata a guardare le pentole di rame appese alle pareti. Quando mi decisi a entrare in camera la trovai sul letto, accucciata di fianco a Pa’ che era già vestito col suo abito blu, quello che aveva messo quando mi ero sposata. Gli aveva fatto la barba e pettinato i capelli. Gli stava aggrappata alla spalla piangendo piano e quando il pianto si faceva piú forte gli prendeva la testa tra le mani come fosse quella di un passero.
– È morto nel sonno.
– Perché non sei venuta a chiamarmi?
– È morto stanotte, – disse senza ascoltarmi.
– Perché non sei venuta a chiamarmi? – ripetei ancora.
Quando finalmente si girò mi prese la mano e la appoggiò su quella di Pa’, che ancora era calda. Si strinse piú vicino a lui e non so come mi ritrovai anch’io sdraiata su un angolo del letto. Sentivo l’odore dei vestiti di Ma’, che sapevano di cenere della stufa. Ascoltavo il suo pianto e ogni tanto mi facevo coraggio, cercando di nuovo la mano di Pa’ che diventava piú fredda.
Al funerale la bara la portarono Theo e Gustav insieme a Erich e al Peppi. Michael era fiero di averla costruita. Mi disse: – Il nonno lí dentro dormirà il sonno dei giusti.
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