Il complotto contro l'America
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Il complotto contro l'America

Philip Roth, Vincenzo Mantovani

  1. 416 pages
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Il complotto contro l'America

Philip Roth, Vincenzo Mantovani

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America, 1940: Lindbergh, eroe della trasvolata sull'Atlantico, fervido antisemita e filonazista, diventa presidente. Da questomomento gli Stati Uniti smettono di appoggiare inglesi e francesi, e dietro un'apparente neutralità stringono patti con la Germania diHitler. Una famiglia ebraica di Newark, la famiglia Roth, scopre dinon essere abbastanza americana per i gusti del nuovo presidente, e inizia a temere che anche il proprio Paese si trasformi in un regnodel terrore. Tra controstoria e autobiografia, il ritratto dell'Americain forma di incubo.

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2010
ISBN
9788858402528

1. Giugno 1940 - ottobre 1940
Votate per Lindbergh
o votate per la guerra

La paura domina questi ricordi, un’eterna paura. Certo, nessuna infanzia è priva di terrori, eppure mi domando se da ragazzo avrei avuto meno paura se Lindbergh non fosse diventato presidente o se io stesso non fossi stato di origine ebraica.
Quando ci fu la prima sorpresa – la candidatura alla presidenza di Charles A. Lindbergh, l’eroe dell’aria americano famoso in tutto il mondo, alla convention repubblicana di Philadelphia del giugno 1940 – mio padre era un assicuratore di trentanove anni, munito di licenza media, che guadagnava quasi cinquanta dollari la settimana, abbastanza per pagare in tempo le bollette più importanti, ma non abbastanza per permetterci altri lussi. Mia madre – che avrebbe voluto andare al teachers’ college ma non poté perché costava troppo, che vivendo con i suoi aveva lavorato come segretaria dalla fine delle superiori, e che ci aveva impedito di sentirci poveri nei momenti peggiori della Depressione amministrando i guadagni ricevuti da mio padre ogni venerdì con la stessa efficienza con cui dirigeva la casa – aveva trentasei anni. Mio fratello Sandy, che faceva la settima e mostrava un prodigioso talento per il disegno, aveva dodici anni e io, che ero avanti di un anno e facevo la terza elementare – e avevo cominciato a raccogliere francobolli, ispirato, come milioni di altri ragazzi, dal primo filatelico del paese, il presidente Franklin Delano Roosevelt –, avevo sette anni.
Abitavamo al primo piano di una villetta bifamiliare in una strada alberata di case con la struttura di legno munite di verande in muratura, ogni veranda coperta da un tetto a due falde e fronteggiata da un giardinetto cintato da una piccola siepe. Il quartiere di Weequahic era stato costruito su terreni agricoli non coltivati alla periferia sudoccidentale di Newark subito dopo la prima guerra mondiale, a una mezza dozzina delle sue strade erano stati dati, imperialmente, i nomi dei comandanti navali vittoriosi nella guerra ispano-americana e il cinematografo locale era stato chiamato il Roosevelt, da Theodore Roosevelt, cugino quinto di FDR e ventiseiesimo presidente del paese. La nostra via, Summit Avenue, correva sulla cresta della collina dove era stato costruito il quartiere, il punto più elevato di una città portuale che di rado si innalza di trenta metri sopra il livello delle paludi salmastre scoperte dalla marea a nord e a est della città e delle acque profonde della baia a est dell’aeroporto che girano intorno ai serbatoi di petrolio della penisola di Bayonne e là si mescolano con quelle della baia di New York per scorrere davanti alla Statua della Libertà e sfociare nell’Atlantico. Guardando a ovest dalla finestra posteriore della nostra camera da letto, certe volte potevamo vedere l’interno del paese fino al cupo limite della vegetazione arborea dei Watchung, una bassa catena montuosa contornata da grandi tenute e opulenti sobborghi poco popolati, l’estremo limite del mondo conosciuto… a circa otto miglia dalla nostra casa. A un isolato di distanza verso sud c’era la città operaia di Hillside, la cui popolazione era prevalentemente cristiana. Il confine con Hillside segnava l’inizio della Union County, un New Jersey completamente diverso.
Eravamo una famiglia felice, nel 1940. I miei genitori erano persone socievoli e ospitali, con amici scelti tra i colleghi d’ufficio di mio padre e tra le donne che insieme a mia madre avevano contribuito a organizzare l’Associazione genitori-insegnanti nella nuova scuola di Chancellor Avenue, dove andavamo mio fratello e io. Erano tutti ebrei. Gli uomini del quartiere o lavoravano in proprio – i padroni del candy store1, della drogheria, della gioielleria locale, del negozio di abbigliamento, del negozio di mobili, della stazione di servizio e della rosticceria, o i proprietari di piccole officine lungo il confine Newark-Irvington, o idraulici, elettricisti, imbianchini e fontanieri indipendenti – o erano piazzisti come mio padre, fuori tutti i giorni nelle vie della città e nelle case della gente, a vendere le loro mercanzie, pagati a commissione. I medici e gli avvocati ebrei e i ricchi commercianti proprietari dei grandi magazzini del centro vivevano nelle case unifamiliari delle strade che si diramavano dalle pendici orientali della collina di Chancellor Avenue, più vicine all’erboso e alberato Weequahic Park, trecento acri di parco con un lago abbastanza grande per andarci in barca, un campo da golf e una pista per le corse al trotto che separavano il quartiere di Weequahic dagli stabilimenti industriali e dai capannoni degli spedizionieri lungo la statale 27 e il viadotto della Pennsylvania Railroad più a est, e l’aeroporto in rapida espansione più a est, e l’estremo orlo dell’America ancora più a est: i docks e i magazzini della baia di Newark, dove si scaricavano merci provenienti da tutto il mondo. All’estremità occidentale del quartiere, l’estremità senza parco dove vivevamo noi, abitava uno sporadico insegnante o farmacista, ma per il resto pochi erano i professionisti tra i nostri immediati vicini, e sicuramente nessuna delle floride famiglie di industriali o imprenditori. Gli uomini lavoravano cinquanta, sessanta, anche settanta ore o più la settimana; le donne lavoravano tutto il tempo, con scarsi aiuti da parte delle macchine che avrebbero dovuto alleviare le loro fatiche, facendo il bucato, stirando camicie, rammendando calzini, rivoltando colletti, attaccando bottoni, mettendo l’antitarme nella roba di lana, lucidando i mobili, spazzando e lavando pavimenti, lavando finestre, pulendo lavandini, vasche, gabinetti e fornelli, passando l’aspirapolvere sui tappeti, assistendo i malati, andando a fare la spesa, cucinando, dando da mangiare ai familiari, riordinando armadi e cassetti, controllando il lavoro di imbianchini e altri artigiani, organizzando le cose per i riti delle feste, pagando le bollette e tenendo l’amministrazione familiare mentre si occupavano, simultaneamente, della salute, del vestiario, della pulizia, dell’istruzione, della nutrizione, della condotta, dei compleanni, della disciplina e del morale dei loro figli. Qualche donna lavorava al fianco del marito nel negozio a gestione familiare nelle strade commerciali del quartiere, aiutata dopo la scuola e il sabato dai figli più grandi, che consegnavano la roba a casa dei clienti, mettevano la merce in magazzino e facevano le pulizie.
Era il lavoro, per me, a identificare e distinguere i nostri vicini, assai più della religione. Nessuno nel quartiere aveva la barba o vestiva nella maniera antiquata del Vecchio Continente o portava lo zucchetto per la strada o nelle case che visitavo abitualmente con i miei amici d’infanzia. Gli adulti non erano più osservanti nei modi esterni e riconoscibili, se lo erano mai stati seriamente, e a parte i bottegai più vecchi come il sarto e il macellaio kosher – e i nonni malati o decrepiti che vivevano necessariamente con i loro figli adulti – quasi nessuno nel vicinato parlava con un accento. Nel 1940, nell’angolo sud-occidentale della più grande città del New Jersey, i genitori ebrei e i loro figli parlavano tra loro in un inglese americano somigliante più alla lingua che si parlava ad Altoona o Binghamton che ai famigerati dialetti parlati sull’altra sponda dell’Hudson dai nostri omologhi ebrei nei cinque distretti amministrativi di New York. Scritte in ebraico erano riprodotte sulla vetrina del macellaio e incise negli architravi delle piccole sinagoghe del quartiere, ma in nessun altro posto (a parte il cimitero) accadeva che l’occhio si fermasse sull’alfabeto del libro di preghiere piuttosto che sui caratteri familiari dell’idioma natio usato tutto il tempo praticamente da tutti per ogni motivo immaginabile, nobile o plebeo. All’edicola davanti al candy store dell’angolo, le persone che compravano il «Racing Form» erano dieci volte più di quelle che compravano il quotidiano yiddish, il «Forvertz».
Israele ancora non esisteva, sei milioni di ebrei europei non avevano ancora cessato di esistere, e l’interesse locale per la remota Palestina (sotto mandato britannico dal 1918, dopo la dissoluzione da parte degli Alleati vittoriosi delle ultime remote province del defunto impero ottomano) era per me un mistero. Quando uno sconosciuto con la barba che non andava mai in giro senza cappello faceva la sua comparsa, ogni due o tre mesi, dopo il tramonto, per chiedere in un inglese sgrammaticato un contributo alla fondazione di una patria nazionale ebraica in Palestina, io, che non ero un bambino ignorante, non capivo affatto che cosa ci facesse sul nostro pianerottolo. I miei genitori davano a me o a Sandy un paio di monete da mettere nella sua cassetta delle elemosine, dono munifico, ho sempre pensato, elargito generosamente per non ferire i sentimenti di un povero vecchio che, nonostante il passare degli anni, sembrava incapace di mettersi in testa che avevamo già una patria da tre generazioni. Ogni mattina, a scuola, giuravo fedeltà alla bandiera della nostra patria. Ne cantavo le meraviglie con i miei compagni durante i programmi collettivi. Ne osservavo con entusiasmo le feste nazionali, e senza ripensamenti sul mio feeling per i fuochi artificiali del Quattro Luglio o il tacchino del Ringraziamento o le due partite del Decoration Day. La nostra patria era l’America.
Poi i repubblicani nominarono Lindbergh e tutto cambiò.
Per quasi un decennio Lindbergh fu nel nostro quartiere un eroe non meno grande di quanto lo era in tutti gli altri posti. Il caso volle che la conclusione del suo volo solitario senza scalo di trentatre ore e mezzo da Long Island a Parigi sul minuscolo monoplano Spirit of St Louis coincidesse addirittura col giorno di primavera del 1927 in cui mia madre scoprì di essere incinta del mio fratello maggiore. Di conseguenza, il giovane aviatore il cui ardimento aveva elettrizzato l’America e il mondo e la cui impresa era il segno premonitore di un futuro caratterizzato da progressi aeronautici inimmaginabili venne a occupare una nicchia speciale nella galleria di aneddoti familiari che generano la prima compatta mitologia di un bambino. Il mistero della gravidanza e l’eroismo di Lindbergh si saldarono tra loro per conferire una distinzione che rasentava il divino alla mia stessa madre, per la quale l’incarnazione del suo primogenito era stata accompagnata nientemeno che da un’annunciazione universale. Sandy avrebbe poi ricordato questo momento con un disegno che illustrava la giustapposizione di quei due splendidi avvenimenti. Nel disegno – che venne completato all’età di otto anni e che aveva involontariamente un certo sentore di poster art sovietica – Sandy l’aveva immaginata lontanissima da casa, in mezzo a una folla gioiosa all’angolo tra Broad e Market. Snella ragazza di ventitre anni con i capelli neri e un sorriso pieno di sana allegria, mia madre è sorprendentemente sola e indossa il suo grembiule da cucina a fiorami all’intersezione delle due arterie più trafficate della città, con una mano aperta sul grembiule, dove il giro dei fianchi è ancora ingannevolmente infantile, mentre con l’altra lei sola tra la folla indica lo Spirit of St Louis che sorvola, ben visibile, il centro di Newark nel preciso momento in cui si rende conto, con una prodezza non meno trionfante per un mortale di quella di Lindbergh, di avere concepito Sanford Roth.
Sandy aveva quattro anni e io, Philip, non ero ancora nato quando nel marzo 1932 il primogenito di Charles e Anne Morrow Lindbergh, un maschietto il cui arrivo venti mesi prima era stato accolto da un tripudio generale, fu rapito dalla nuova casa isolata dei suoi nella rurale Hopewell, nel New Jersey. Una decina di settimane dopo il corpo in decomposizione del bebè venne scoperto per caso in un bosco a qualche miglio di distanza. Il bambino era stato assassinato o ucciso accidentalmente dopo essere stato tolto dalla culla e, al buio, sempre avvolto nelle coperte, fatto uscire da una finestra della sua stanza al primo piano e scendere fino a terra per una scala di fortuna mentre la bambinaia e la madre erano assorbite dalle loro normali attività serali in un’altra parte della casa. Quando il processo per il rapimento e l’infanticidio si concluse a Flemington, nel New Jersey, nel febbraio 1935 con la condanna di Bruno Hauptmann – un ex carcerato tedesco di trentacinque anni che viveva nel Bronx con la moglie tedesca –, l’ardimento del primo pilota transatlantico del mondo in solitario si era permeato di un pathos che lo trasformò in un titano martirizzato paragonabile a Lincoln.
Dopo il processo, i Lindbergh lasciarono l’America, espatriando temporaneamente nella speranza di proteggere da ogni pericolo un nuovo Baby Lindbergh e di ritrovare un po’ della privacy che agognavano. La famiglia si stabilì in un paesino dell’Inghilterra e da là, come privato cittadino, Lindbergh cominciò a fare i viaggi nella Germania nazista che lo avrebbero trasformato in una canaglia per la maggior parte degli ebrei americani. Nel corso di cinque visite, durante le quali ebbe modo di conoscere direttamente la grandezza della macchina bellica tedesca, fu ostentatamente ricevuto dal maresciallo dell’aria Göring, fu cerimoniosamente decorato in nome del Führer, ed espresse del tutto apertamente la sua alta considerazione per Hitler, definendo la Germania la «nazione più interessante» del mondo e il suo leader «un grand’uomo». E tutto questo interesse e tutta questa ammirazione dopo le leggi razziali di Hitler del 1935 che avevano tolto agli ebrei tedeschi i loro diritti civili, sociali e di proprietà, annullato la loro cittadinanza e proibito loro il matrimonio con ariani.
Quando cominciai ad andare a scuola, nel 1938, quello di Lindbergh era un nome che in casa nostra provocava lo stesso genere d’indignazione dei programmi radiofonici domenicali di padre Coughlin, il prete dell’area di Detroit che dirigeva un settimanale di estrema destra chiamato «Social Justice» e la cui virulenza antisemita eccitò, nei momenti difficili che il paese stava attraversando, le passioni di un pubblico piuttosto ragguardevole. Fu nel novembre 1938 – per gli ebrei d’Europa l’anno più nero e più nefasto in diciotto secoli – che il peggiore pogrom della storia moderna, la Kristallnacht, venne organizzato dai nazisti in tutta la Germania: sinagoghe date alle fiamme, le abitazioni e le ditte degli ebrei distrutte, e, nel corso di una notte che faceva presagire il mostruoso futuro, ebrei a migliaia strappati con la forza alle loro case e trasportati nei campi di concentramento. Quando gli suggerirono, come reazione a questa barbarie senza precedenti, perpetrata da uno stato sui suoi cittadini, di restituire la croce d’oro adorna di quattro svastiche conferitagli dal maresciallo dell’aria Göring a nome del Führer, Lindbergh declinò l’invito col pretesto che per lui rinunciare pubblicamente alla Croce di Servizio dell’Ordine dell’Aquila Tedesca avrebbe costituito «un’inutile offesa» alla leadership nazista.
Lindbergh fu il primo celebre americano vivente che imparai a odiare – proprio come il presidente Roosevelt fu il primo celebre americano vivente che mi insegnarono ad amare – e così la sua nomination da parte dei repubblicani come avversario di Roosevelt nel 1940 rappresentò l’attacco più violento che fosse mai stato sferrato contro quella ricca dotazione di sicurezza personale che io avevo dato per scontata come figlio americano di genitori americani in una scuola americana di una città americana in un’America in pace col mondo.
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L’unica minaccia paragonabile era venuta circa tredici mesi prima quando, grazie alle vendite notevolmente alte che era riuscito a fare nel periodo peggiore della Depressione come agente dell’ufficio di Newark della Metropolitan Life, mio padre si era visto offrire una promozione a vicedirettore responsabile degli agenti nell’ufficio della ditta sei miglia a ovest della nostra casa a Union, una cittadina la cui sola distinzione, ch’io sapessi, consisteva in un drive-in dove le proiezioni continuavano anche quando pioveva, e dove la ditta pretendeva che mio padre e la sua famiglia andassero a stabilirsi se lui accettava il posto. Come vicedirettore, mio padre avrebbe potuto guadagnare subito settantacinque dollari la settimana, e negli anni seguenti anche cento la settimana, una fortuna nel 1939 per la gente con le nostre aspettative. E poiché a Union c’erano delle case unifamiliari che a causa della Depressione si vendevano a qualche migliaio di dollari, mio padre avrebbe potuto realizzare un’ambizione che aveva nutrito mentre cresceva senza un soldo in tasca in una casa popolare di Newark: diventare un proprietario di casa americano. «L’orgoglio della proprietà» era una delle frasi preferite di mio padre, e per un uomo con le sue origini incorporava un’idea reale come il pane, un’idea che c’entrava non con la competitività sociale o l’esibizionismo consumistico ma con la sua posizione di virile capofamiglia.
L’unico lato negativo era che, poiché Union, come Hillside, era una città operaia di cristiani, molto probabilmente mio padre sarebbe stato l’unico ebreo in un ufficio di trentaquattro o trentacinque persone, mia madre l’unica donna ebrea nella nostra strada e Sandy e io gli unici ragazzi ebrei nella nostra scuola.
Il primo sabato dopo che a mio padre venne offerta quella promozione – una promozione che, soprattutto, avrebbe esaudito il desiderio di un piccolo margine di sicurezza finanziaria di una famiglia della Depressione –, dopo pranzo andammo tutt’e quattro a visitare Union. Ma una volta là, e mentre andavamo su e giù in macchina per le strade residenziali scrutando le case a un piano – non proprio identiche ma ognuna, nondimeno, con la sua veranda schermata sul davanti e il prato ben rasato e una macchia di arbusti e il vialetto di ghiaia che portava al garage per una macchina, case modestissime ma pur sempre più spaziose del nostro appartamento con due camere da letto e che somigliavano moltissimo alle bianche casette dei film sull’America di provincia, il sale della terra –, una volta là, l’innocente esuberanza suscitata in noi dalla possibile ascesa della famiglia alla classe dei proprietari di case venne soppiantata, abbastanza prevedibilmente, dalle nostre ansie sui limiti della carità cristiana. Alla domanda di mio padre – «Che te ne pare, Bess?» – mia madre, donna solitamente piuttosto energica, rispose con un entusiasmo la cui falsità era intuibile anche da un bambino. E io, piccolo com’ero, potevo immaginarne la ragione: perché mia madre stava pensando: «La nostra sarà la casa “dove stanno gli ebrei”. Si ripeterà la storia di Elizabeth».
Elizabeth, nel New Jersey, quando vi abitava mia madre, da bambina, in un appartamento sopra la drogheria di suo padre, era un porto industriale della grandezza di un quarto di Newark, dominato dalla classe operaia irlandese e dai suoi uomini politici e dalla chiusa vita parrocchiale che ruotava intorno alle tante chiese della città, e anche se io non l’avevo mai sentita lamentarsi di essere stata deliberatamente maltrattata a Elizabeth da bambina, fu solo dopo il matrimonio e il trasferimento nel nuovo quartiere ebraico di Newark che Bess Roth scoprì la fiducia in se stessa che la portò a diventare prima rappresentante di classe dell’Agi, poi vicepresidente dell’Agi incaricata di fondare un Kindergarten Mothers’ Club, e infine la presidente dell’Agi che, dopo avere partecipato, a Trenton, a un convegno sulla paralisi infantile, propose un ballo annuale per la March of Dimes da tenersi il 30 gennaio – compleanno del presidente Roosevelt – che fu accettato da quasi tutte le scuole di Newark. Nella primavera del 1939 era al suo secondo anno fortunato come dirigente di idee progressiste – offrendo già il suo appoggio a un giovane insegnante di studi sociali desideroso di portare l’«educazione visiva» nelle aule di Chancellor – e ora non poteva fare a meno d’immaginarsi orba di tutto ciò che aveva ottenuto per il fatto di essere diventata una delle mogli e madri di Summit Avenue. Se avessimo avuto la fortuna di comprare e trasferirci in una casa di una qualsiasi delle vie di Union che stavamo vedendo nel loro miglior aspetto primaverile, non soltanto il suo status sarebbe tornato a essere quello che era quando era soltanto la figlia di un droghiere ebreo immigrato nell’Elizabeth cattolica irlandese, ma, peggio ancora, Sandy e io saremmo stati costretti a rivivere la sua giovinezza solitaria di estranea nel quartiere.
Nonostante il malumore di mia madre, mio padre fece tutto il possibile per tenerci su di morale, mostrandoci com’era pulita e ben tenuta ogni cosa, ricordando a Sandy e a me che abitando in una di quelle case noi due non avremmo più dovuto condividere una piccola camera da letto e un solo armadio, e spiegando i vantaggi che sarebbero derivati dal pagare un mutuo piuttosto che un affitto, una lezione di economia elementare che finì bruscamente quando gli toccò di fermare la macchina a un semaforo rosso di fianco a quello che sembrava un bar all’aperto che dominava un angolo dell’incrocio. C’erano dei tavoli verdi da picnic all’ombra di alberi ricchi di fogliame, e in quell’assolato pomeriggio del weekend c’erano dei camerieri in giacca bianca gallonata che si spostavano rapidamente qua e là, tenendo in equilibrio vassoi carichi di bottiglie, caraffe e piatti, e uomini di ogni età raccolti intorno a ogni tavolo, che fumavano sigarette, pipe e sigari e che bevevano avidamente da alti calici e tazze di terracotta. C’era anche la musica: una fisarmonica suonata da un ometto robusto in calzoni corti e calzettoni che portava un cappello adorno di una lunga penna.
– Figli di puttana! – disse mio padre. – Bastardi fascisti! – e poi il semaforo cambiò colore e noi proseguimmo in silenzio per andare a vedere il palazzo di uffici dove mio padre stava per avere la fortuna di guadagnare più di cinquanta dollari la settimana.
Fu mio fratello che, quando andammo a letto quella sera, mi spiegò per quale motivo mio padre aveva perso il controllo e imprecato ad alta voce davanti ai figli: l’accogliente locale circondato da un pezzo di terra e traboccante di allegria proprio al centro della città era una «birreria», la birreria aveva qualcosa a che fare col Bund Tedesco-Americano, il Bund Tedesco-Americano aveva qualcosa a che fare con Hitler, e Hitler, come sapevo benissimo, aveva tutto a che fare con la persecuzione degli ebrei.
L’antisemitismo come bevanda alcolica. Ecco quello che immaginai ripensando a tutte le persone che quel giorno bevevano tanto allegramente nella loro birreria: come tutti i nazisti in ogni luogo, occupati a buttar giù pinte su pinte di antisemitismo come per imbeversi del rimedio universale.
Mio padre dovette prendersi un mattino di vacanza per andare alla sede centrale di New York – nel grattacielo la cui torre più alta era coronata dal faro che la società chiamava fieramente «La luce che non si spegne mai» – a informare il direttore delle agenzie che non poteva accettare la promozione che tanto desiderava.
– È colpa mia, – annunciò mia madre appena lui si mise a raccontare, a tavola, com’erano andate le cose lassù al diciottesimo piano di Madison Avenue 1.
– Non è colpa di nessuno, – disse mio padre. – Prima di andarci avevo già spiegato cosa gli avrei detto, e ci sono andato e gliel’ho detto, ecco tutto. Non si va a Union, ragazzi. Si resta qua...

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Roth, P. (2010). Il complotto contro l’America ([edition unavailable]). EINAUDI. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3425101/il-complotto-contro-lamerica-pdf (Original work published 2010)

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Roth, Philip. (2010) 2010. Il Complotto Contro l’America. [Edition unavailable]. EINAUDI. https://www.perlego.com/book/3425101/il-complotto-contro-lamerica-pdf.

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Roth, P. (2010) Il complotto contro l’America. [edition unavailable]. EINAUDI. Available at: https://www.perlego.com/book/3425101/il-complotto-contro-lamerica-pdf (Accessed: 15 October 2022).

MLA 7 Citation

Roth, Philip. Il Complotto Contro l’America. [edition unavailable]. EINAUDI, 2010. Web. 15 Oct. 2022.