Viaggio in Sardegna
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Viaggio in Sardegna

Undici percorsi nell'isola che non si vede

Michela Murgia

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Viaggio in Sardegna

Undici percorsi nell'isola che non si vede

Michela Murgia

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«Ci sono buchi in Sardegna che sono case di fate, morti che sono colpa di donne vampiro, fumi sacri che curano i cattivi sogni e acque segrete dove la luna specchiandosi rivela il futuro e i suoi inganni. Ci sono statue di antichi guerrieri alti come nessun sardo è stato mai, truci culti di santi che i papi si sono scordati di canonizzare, porte di pietra che si aprono su mondi ormai scomparsi, e mari di grano lontani dal mare, costellati di menhir contro i quali le promesse spose si strusciano nel segreto della notte, vegliate da madri e nonne. C'è una Sardegna come questa, o davanti ai camini si racconta che ci sia, che poi è la stessa cosa, perché in una terra dove il silenzio è ancora il dialetto piú parlato, le parole sono luoghi piú dei luoghi stessi, e generano mondi.
Questo è un viaggio in compagnia di dieci parole, dieci percorsi alla ricerca di altrettanti luoghi, piú uno. Undici mete, perché i numeri tondi si addicono solo alle cose che possono essere capite definitivamente.Non è cosí la Sardegna, dove ogni spazio apparentemente conquistato nasconde un oltre che non si fa mai cogliere immediatamente, conservando la misteriosa verginità delle cose solo sfiorate».

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2011
ISBN
9788858404515
1.

Alterità

Murales, balentía e altre storie di libertà
Provincia di Nuoro,
regione storica della Barbagia di Ollolai,
comune di Orgosolo
Se questo mondo fosse fatto di balentes, sarebbe un gran bel mondo.
Antonangelo Liori, Manuale di sopravvivenza in Barbagia.
La categoria dell’alterità è consapevolmente presente nei sardi come elemento proprio della loro identità, tanto che a parlarci risulta abbastanza comune che essi si descrivano principalmente come cosa diversa rispetto ai «continentali» e agli altri stranieri. Questa visione piuttosto egocentrica della propria stimata specialità non è diversa da quella di molti altri posti d’Italia, ma la cosa che conferma perentoriamente agli occhi dei sardi l’esistenza effettiva di una loro alterità è che di solito si tratta di una percezione ricambiata: chi si rapporta ai sardi come stereotipo etnico non sa effettivamente a chi accomunarli, perché non sembrano rientrare nelle categorie di lettura che identificano il tipo di italiano a seconda della latitudine in cui si nasce e vive. È certamente l’insularità a determinare questa percezione ambivalente, ma le ragioni vere sono, piú che geografiche, soprattutto storiche e culturali.
La Sardegna ha un percorso storico in larga misura del tutto autonomo rispetto a quello che ha accomunato altre regioni del centro e sud Italia, ed è stata interessata da flussi di popolazioni e culture diverse, al punto che persino sul piano biologico è noto da tempo che i sardi presentino un quadro genetico peculiare rispetto alle altre popolazioni europee e circum-mediterranee, come i baschi e i lapponi. Ma dentro questa apparente uniformità, definita per contrapposizione a quello che viene da oltre il mare, c’è anche un’alterità interna che porta i sardi a vedersi diversi tra di loro, spesso in maniera radicale.
Il luogo della Sardegna dove la percezione di essere altro è piú spiccata resta sicuramente la Barbagia, la principale regione interna sarda e anche la piú estesa tra quelle che non toccano il mare. Prima ancora di essere un luogo fisico, la Barbagia è una forma mentis. Per questo i suoi confini geografici sono discutibili e discussi, tanto che persino al di fuori del suo territorio ci sono paesi che si considerano barbaricini pur senza strettamente esserlo, perché si riconoscono nella particolare cultura che ancora oggi caratterizza fortemente questo territorio, approssimativamente coincidente con la provincia di Nuoro.
La Barbagia è la regione storica piú estesa dell’isola e ne costituisce il centro geografico, il che equivale a dire che da qualunque parte della Sardegna si parta, la difficoltà che si incontra a raggiungerla è la stessa. L’automobile è indispensabile, perché Nuoro resta un capoluogo di provincia in Italia non ancora raggiunto dalla linea ferroviaria di Trenitalia; il piccolo treno che ci arriva appartiene infatti alle Ferrovie della Sardegna e viaggia a gasolio su rotaie di un altro secolo, regalando però panorami indescrivibili. David Herbert Lawrence ne raccontava già nel 1921 dalle pagine del suo diario di viaggio, magnificandone l’audacia nell’arrancare agilmente lungo i costoni scoscesi della catena del Gennargentu, come una capra a vapore. Per chi ama farsi suggestionare senza fretta, prendere quel treno resta ancora oggi il piú panoramico modo per perdere tempo in Sardegna. Scrive Lawrence:
La corriera ci portò veloce e serpeggiante sulla collina, a volte attraverso l’ombra fredda, quasi solida, a volte attraverso una chiazza di sole. C’era un sottile strato di ghiaccio lucente nei solchi, e sull’erba grigia brina scura. Non posso dire quanto la vista dell’erba e dei cespugli, gravidi di brina e incolti, in quel loro primitivo stato selvaggio, mi affascinasse. I pendii delle ripide, incolte colline scendevano giú aspri e cespugliosi, con poche bacche tardive e i lunghi steli d’erba appassiti dalla brina.
Andare in Barbagia ed entrarci sono due cose diverse. Il primo modo passa per la strada e per sceglierlo non serve nessuna guida, se non quella della cartina. I panorami di granito e macchia mediterranea che tanto colpirono Lawrence si faranno perdonare la non sempre facile viabilità con la loro bellezza silenziosa, e dopo averli rimirati si potrà dire senza mentire che ci si è stati e valeva la pena. Entrarci nel vero senso della parola è invece un altro paio di maniche, e parte dalla certezza che la cosa piú interessante da conoscere in Barbagia siano proprio i barbaricini. Riuscire in questo intento è un’esperienza umana meravigliosa, che per essere gustata appieno non può prescindere dalla conoscenza di ciò che in Barbagia è altro rispetto al resto della Sardegna.
La Barbagia è un territorio abitato da sardi che per ragioni storiche, geografiche ed economiche hanno vissuto per secoli in un isolamento relativo, motivo per cui questa regione è sempre stata ai margini rispetto ai processi storici che hanno interessato il resto della Sardegna. Il nome stesso di Barbagia le deriva dall’etnocentrismo culturale dei romani, che non riuscendo a penetrarci con la stessa facilità che avevano incontrato sulle coste, la liquidarono sbrigativamente come terra di barbarie. La nomea le rimase anche negli anni successivi, tanto che quando Tolomeo nel II secolo stendeva la carta geografica del mondo noto, al massiccio del Gennargentu mise il significativo nome di Insani Montes, che in bocca agli scrittori classici corrisponde, se riferita a cose, a «rabbioso», «furioso»; in verità può significare anche «eccessivamente alto», ma nessun monte sardo raggiunge vertici che potrebbero giustificare questa accezione.
Nel corso dei secoli questo processo di individualizzazione culturale è continuato su tutti i fronti, aumentando nei barbaricini la percezione della propria alterità rispetto non solo ai popoli che venivano dal mare, ma progressivamente anche al resto degli abitanti dell’isola. Il risultato di questo processo è riscontrabile soprattutto nella straordinaria persistenza di usi e costumi di antichissima radice storica e culturale, altrove scomparsi o mai esistiti.
Una di queste differenze nasce dal fatto che l’isolamento ha portato nei secoli la comunità barbaricina a darsi un sistema di norme non scritte percepito come autonomo. Questo codice di autoregolamentazione sociale non ha mai avuto un nome per la comunità pastorale che lo praticava, come non ha nome il buon senso; era semplicemente il modo naturale in cui ci si doveva comportare in quel contesto. Ha preso la definizione di «banditismo» solo quando, con l’avvento di un potere diverso da quello tradizionale che per secoli l’aveva governata, sono emerse le discrepanze tra l’antico sistema di norme e l’altro, quello venuto da fuori con piú mezzi politici (e militari) per potersi imporre come prevalente. Molto piú spesso in conflitto che in dialettica, i due sistemi normativi si sono sovrapposti con fatica per tutto il secolo scorso e gli echi della loro difficile convivenza persistono ancora oggi, intorno alla diversa percezione di cosa sia giusto fare in determinate circostanze della vita. Quel sistema di norme non scritte è oggi noto con il nome di Codice Barbaricino, dicitura attribuitagli dal giurista Antonio Pigliaru che negli anni Cinquanta del secolo scorso, affrontò per primo come questione essenzialmente culturale il problema posto dall’esistenza di due leggi confliggenti, che pretendevano di «regolare la condotta di uno stesso uomo» facendone un bandito o un balente, cioè un valoroso, a seconda della prospettiva.
La balentía resta una buona chiave di comprensione dello spirito barbaricino, purché intesa nel suo senso corretto. Il concetto di balentía ha infatti una doppia accezione, a seconda che esso venga espresso dentro o fuori dal territorio della Barbagia. Se la parola balente viene usata da sardi non barbaricini, nove volte su dieci ha connotazione negativa e si intende riferita a persona vendicativa, prepotente e permalosa, pronta a passare alle mani alla prima provocazione e con cui non ci si può permettere la minima confidenza. Chi riceve questo epiteto viene circondato dall’aura di disprezzo guardingo che si tributa ai pazzi imprevedibili, quelli che in linea di massima è meglio temere che averci a che fare. Questa caricatura della balentía è frutto sia di un diverso quadro di riferimento normativo (e quindi culturale) tra la Barbagia e il resto dell’isola stessa, sia del falso mito mediatico del banditismo romantico, che ha danneggiato la Sardegna piú di quanto non si sia disposti ad ammettere nemmeno tra i sardi stessi, troppo spesso compiaciuti di crogiolarsi a scopo folkloristico nella fama leggendaria di popolo temibile. Non di rado chi arriva in Barbagia vittima di questo pregiudizio si trova spiazzato davanti all’apparente incongruenza di un’ospitalità calda e tutt’altro che ombrosa. La balentía in Barbagia ha un significato molto piú elevato e teoricamente segna la cifra massima della potenzialità di un uomo, l’apoteosi della nobiltà dell’animo unita alla fermezza del carattere. A livello ideale il balente è l’incarnazione della perfezione virile, che secondo il criterio strettamente barbaricino è espressa da colui che allo stesso tempo sa, sa fare, e quindi fa; le tre cose prese distintamente generano l’incapace, l’indeciso e l’avventato, tutte antitesi del vero balente, che resta persona abile soprattutto nel discernere il momento opportuno per piegare gli eventi al meglio del suo volere. Per questo nel mito la parola del balente pesa come oro e chi gli dà la propria è bene che vi attribuisca il medesimo valore.
Molto chiaramente è Antonio Pigliaru a rappresentare cosa si intenda in Barbagia quando a qualcuno si dà del balente.
Su balente è l’uomo che vale, che sa farsi valere e vale anche se, intendiamoci, la fortuna non gli arride, anche se la sua balentía non risulterà all’atto pratico coronata da un adeguato successo. L’importante non è vivere o morire, ma vivere e morire da uomo. […] Sa balentía è la virtú che consente all’uomo barbaricino, al pastore barbaricino, di resistere alla propria condizione, di restare uomo, soggetto, in un mondo implacabile e senza speranza nel quale esistere è resistere: resistere a un destino sempre avverso nell’unico modo in cui ciò può essere fatto salvando se non altro la propria dignità umana.
Nella teoria della concezione barbaricina si ama dire che il balente non è mai violento senza necessità, ma in troppi posti della Barbagia il limite della sedicente necessità è ancora fissato brutalmente al ribasso, senza che ci sia piú, se è vero che in passato c’è stato, un contesto socioculturale che possa ancora oggi fornire attenuanti: la società pastorale barbaricina ha perso da tempo l’alibi di essere impermeabile e autoreferenziale. I delitti che oggi sono realmente riconducibili a un’interpretazione rigida dell’antico codice ormai sono veramente pochi: troppe le infrazioni alla regola negli ultimi dieci anni, con gravi fatti di sangue che hanno interessato in diversi centri anche categorie prima ritenute inviolabili: donne, bambini e anziani. Per questo il mito del balente romantico, forte solo con i forti, resiste a stento anche in quello che fino a poco tempo fa era l’immaginario comune, e la Barbagia del resto è la regione sarda che meno lo coltiva; anzi, il barbaricino mal tollera la rumorosa esaltazione mediatica che vuole il centro Sardegna come orgoglioso covo di latitanti. Il che non significa che i latitanti non ci siano stati o non ci siano ancora, ma certo non è questo il lato della Barbagia con cui è possibile, per il visitatore, venire a contatto piú facilmente. Chi venisse qui cercando i banditi visiterà un’assenza, e degli assenti è ovunque buona educazione non parlare. In quell’assenza sembra muoversi tutto il resto, a cominciare dai passi rapidi delle donne all’uscita della chiesa e dallo sguardo fermo degli uomini di ogni età appoggiati ai muri, che vicino ai numerosi bar spesso si vedono ancora indossare i pantaloni di velluto, estate o inverno che sia. Le strade sono tortuose e scorrono tra i muri di granito seguendo pendenze che sembrano impossibili da percorrere se non a piedi; mentre ci passi arrancando ti può sorprendere il saluto spontaneo di un passante o lo sguardo attento degli occhi di un ragazzino, di quel colore chiaro che qui non è affatto raro incontrare.
Tutti i paesi della Barbagia devono il loro incanto alla sensazione costante di essere finiti su un piano temporale sfalsato. Il tempo in cui sembrano sospese queste piccole comunità non somiglia però a nessun tempo storico noto. Manca del tutto il senso della continuità degli eventi inscritto nell’architettura di certi paesi medievali del centro Italia, anche perché il Medioevo, cosí come lo conosciamo dai libri, qui non è mai arrivato.
Tutta la Sardegna, ma in special modo la Barbagia, ha vissuto una storia alternativa che l’ha resa radicalmente diversa rispetto ad analoghe zone isolate di altre regioni, tanto che la sensazione che si ha è che a un certo punto questo posto abbia scelto un momento preciso del tempo e vi abbia messo dimora stabile, cristallizzandolo. Un tempo non casuale, rispetto al quale la Barbagia non solo non sembra in ritardo, ma per molti aspetti sembra esattamente dove vuole essere. Lo scrittore Sergio Atzeni, in Passavamo sulla terra leggeri, fa dire al suo custode del tempo Antonio Setzu, colui che tramanda oralmente la storia sarda, una frase che interpreta con chiarezza quanto possa essere percepibile in certi sardi la determinazione a fermare il tempo con la sola volontà:
Noi custodi del tempo, dal giorno della perdita della libertà sulla nostra terra, abbiamo preferito finire la storia a questo punto.
Il suggestivo riferimento di Atzeni è esplicitamente al 1402, anno in cui morí il giudice Eleonora di Arborea, segnando la fine dell’ultimo Giudicato libero della Sardegna, comprendente anche i territori di gran parte della Barbagia attuale. Il Giudicato di Arborea, il piú potente ed esteso di tutta l’isola, otto anni dopo venne infatti sottomesso e passò sotto il dominio aragonese, che impose il sistema feudale e mise fine alla splendida cultura giudicale, unica nel suo genere in Italia. L’esercizio del governo giudicale si basava infatti sulla combinazione di elementi appartenenti alla cultura sapienziale nuragica (come la proprietà collettiva della terra) con istituti normativi di derivazione romano-bizantina. Questa commistione faceva sí che il giudice non esercitasse un potere assoluto, ma – insieme a un ristretto parlamento detto Corona de Logu – governasse per esplicito mandato popolare sulla base del bannus-consensus, contravvenendo al quale poteva essere destituito e in extremis anche ucciso.
Gli echi del concetto di proprietà comune della terra e del potere come esercizio vicario della volontà popolare, in Barbagia non sono venuti mai totalmente meno, e ne permangono tracce in molti aspetti attuali della vita comune e della storia recente. Fare gli amministratori in un comune barbaricino interpretando il servizio al cittadino secondo criteri diversi da questi può ancora dar luogo a richiami al concetto piú o meno espliciti, non di rado a carattere intimidatorio. Eppure si ingannerebbe chi pensasse alla Barbagia come a un mondo chiuso in sé e arretrato. Al di là della sensazione di fermo immagine che si prova nei paesi dell’interno – facilitata anche dall’evidenza di aspetti tradizionali come il non ancora scomparso uso del vestiario tipico e l’ostentazione orgogliosa della lingua sarda come linguaggio prevalente – alcuni segni chiari stanno a indicare che non tutto è autoreferenziale come può apparire.
Il paese di Orgosolo, che può essere assunto a paradigma dello spirito barbaricino, esprime perfettamente questa ambivalenza attraverso lo strumento suggestivo dei suoi murales, una delle esperienze piú significative per chi visita la Barbagia. Sebbene la presenza dei murales a Orgosolo sia relativamente recente, si è talmente radicata da identificare il paese stesso, che oggi è tavolozza all’aperto di circa 150 dipinti murali visibili, a fronte degli oltre 400 realizzati nel corso degli anni e poi sbiaditi.
Cominciò a realizzarli nel 1975 il senese Francesco Del Casino, sposato e residente ad Orgosolo, che in qualità di insegnante di educazione artistica coinvolse le scolaresche nell’abbellimento di alcuni muri del paese. Nell’arco dei decenni che seguirono, l’esperienza muralistica coinvolse decine di persone, orgolesi e stranieri, che trasposero sui muri delle case del centro storico di Orgosolo scene di vita locale e internazionale, interpretate secondo la sensibilità di ciascuno. Il risultato è una straordinaria testimonianza artistica che non ha confronti nel resto dei paesi della Sardegna che presentano forme di muralismo: infatti altrove quest’arte ha manifestazioni prevalentemente ornamentali e non si presenta mai con soggetti di storia contemporanea, tanto meno a esplicita valenza sociopolitica. Sui muri di Orgosolo invece scorre la storia, tutta la storia, non solo quella locale. Accanto alle rivendicazioni politiche e sociali sarde spuntano dagli intonaci, con la stessa disinvoltura, le torri gemelle in fiamme, i volti di una Gaza fucilata nei suo...

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