Immagini di città
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Immagini di città

Nuova edizione

Walter Benjamin, Enrico Ganni, Giorgio Backhaus, Enrico Ganni, Gianni Carchia, Marisa Bertolini Peruzzi, Helmut Riediger

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Walter Benjamin, Enrico Ganni, Giorgio Backhaus, Enrico Ganni, Gianni Carchia, Marisa Bertolini Peruzzi, Helmut Riediger

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Parigi, Marsiglia, Weimar, Napoli, San Gimignano... E soprattutto Mosca. Negli anni venti Benjamin scrive per giornali e riviste una serie di articoli-reportage sulle città dove, per varie ragioni, gli capita di soggiornare. Nel segno della lucidità e della precisione, ma anche dell'evocazione e dello smarrimento, lo sguardo di Benjamin riesce a catturare l'«anima» di ogni luogo. Libro postumo, assemblato da Peter Szondi nel 1955, Immagini di città viene qui riproposto in un'edizione ampliata di tre scritti. Alla base delle descrizioni delle città straniere di Benjamin non troviamo motivi meno personali di quelli che ispirarono Infanzia berlinese. Ma ciò non significa che egli non abbia saputo vedere quei luoghi nella loro realtà. Ché un paese straniero riesce a operare la magica trasformazione del visitatore in fanciullo solo se gli si mostra così pittoresco e così esotico come una volta era apparsa al bambino la propria città. Simile al fanciullo che sta con occhi attoniti nel labirinto inestricabile, Benjamin nei paesi stranieri si consegna con tutto il suo stupore e tutta la sua avidità alle impressioni che lo investono. A ciò deve il lettore quelle immagini che non potrebbero essere più ricche, più colorite, più precise. (...) Il linguaggio metaforico aiuta Benjamin - analogamente alla struttura da lui preferita: l'articolazione in brevi periodi - a dipingere le immagini di città come miniature. Nella loro sintesi di lontananza e vicinanza, nella loro incantata realtà, esse assomigliano a quei globi di vetro in cui la neve cade su un paesaggio, che furono fra gli oggetti preferiti da Benjamin.

Dalla postfazione di Peter Szondi

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2010
ISBN
9788858402368
Immagini di città

Napoli (con Asja Lacis)

Alcuni anni fa, accusato di mancanze morali, un prete veniva trasportato su un carro per le vie di Napoli seguito da una folla imprecante. Ma ecco che a un angolo comparve un corteo nuziale. Il prete si levò, impartí la benedizione e tutti quelli che erano dietro il carro caddero in ginocchio. Un esempio della perentorietà con cui il cattolicesimo riesce in questa città a risorgere da qualsiasi situazione. Dovesse scomparire dalla faccia della terra, l’ultimo posto probabilmente non sarebbe Roma, bensí Napoli.
Il seno della chiesa è il luogo che piú di qualsiasi altro garantisce a questo popolo di poter vivere secondo la sua ricca barbarie sviluppatasi dal cuore stesso della grande città. Ha bisogno del cattolicesimo, poiché con esso una leggenda o l’onomastico di un martire conferiscono legittimità ai suoi eccessi. Qui nacque Alfonso da Liguori, il santo che ha reso duttile la pratica della chiesa cattolica, di cui scrisse il compendio in tre volumi, consistente nel seguire con competenza l’azione di delinquenti e prostitute per poterla controllare in sede di confessione attraverso punizioni piú o meno severe. Solo la chiesa, non la polizia, è in grado di tener testa all’organismo di autogoverno della malavita, la camorra.
Ecco che quindi chi ha subito un torto, se gli preme di rientrare in possesso di ciò che gli è stato tolto, non pensa a chiamare la polizia. Attraverso mediatori civili o ecclesiastici, se non addirittura personalmente, si rivolge a un camorrista. Attraverso di lui pattuisce un riscatto. Da Napoli a Castellammare, lungo i sobborghi proletari, si estende il quartier generale della camorra continentale. Infatti questa organizzazione criminale evita quartieri in cui rischierebbe di doversi mettere a disposizione della polizia. È distribuita tra la città e i sobborghi, e ciò la rende pericolosa. Il viaggiatore, che fino a Roma, come lungo uno steccato, procede a tastoni da opera d’arte a opera d’arte, a Napoli prova un senso di disagio.
Non si poteva darne prova piú grottesca che convocando un convegno internazionale di filosofia. Senza lasciare traccia esso andò in pezzi tra i fumi di questa città, mentre il settimo centenario dell’università, a cui doveva fare da altisonante corona, si svolgeva tra gli schiamazzi di una festa popolare. Prostrati, in segreteria comparivano gli invitati ai quali in quattro e quattr’otto erano stati sottratti soldi e documenti. Ma anche al comune viaggiatore non va molto meglio. Neanche Baedeker riesce a rabbonirlo. Le chiese non si riescono a trovare, la scultura piú rinomata è sempre nell’ala del museo chiusa al pubblico, e dalle opere della pittura locale si è messi in guardia dalla parola «manierismo».
Nulla è commestibile ad eccezione della famosa acqua potabile. La povertà e la miseria appaiono contagiosi, proprio come le si descrive ai bambini, e la folle paura di venire imbrogliati non è che la debole razionalizzazione di questo sentimento. Se è vero che, come disse Péladan, il diciannovesimo secolo ha trasformato l’ordine medievale e naturale a favore delle condizioni di vita dei poveri, e abitazioni e abbigliamenti sono stati resi obbligatori a spese del cibo, qui queste convenzioni sono state rifiutate. Un mendicante giace sulla carreggiata appoggiato al marciapiede e, come coloro che prendono commiato in stazione, agita il suo cappello vuoto. Qui la miseria porta verso il basso, cosí come duemila anni fa portava nelle cripte: ancora oggi la via verso le catacombe porta attraverso un «giardino delle sofferenze», ancora oggi sono i diseredati a fare da guida al suo interno. L’ingresso dell’ospedale dei poveri è costituito da un complesso di edifici bianchi che si attraversa per due cortili. Su entrambi i lati della strada si trovano le panche degli infermi. Essi seguono coloro che escono con sguardi da cui non si capisce se si aggrappino al loro abito per venire liberati oppure per soddisfare inimmaginabili voglie. Le uscite dalle camere del secondo cortile sono dotate di inferriate, da dietro le quali gli storpi mettono in mostra le loro malformazioni gioendo dello sgomento dei trasognati passanti.
Uno dei vecchi fa da guida tenendo la lanterna vicina a un frammento di affreschi paleocristiani, e quindi pronuncia la centenaria parola magica: «Pompei». Tutto ciò che il forestiero desidera, ammira e paga è «Pompei». «Pompei» rende irresistibile l’imitazione di gesso delle rovine dei templi, la catena di massa lavica e la persona pidocchiosa del cicerone. Questo feticcio risulta tanto piú taumaturgico, se si considera che solo una minima parte di coloro a cui esso dà da vivere lo hanno mai visto. Si capisce quindi perché in onore della taumaturgica Madonna che vi troneggia sia stato eretto un prezioso santuario nuovo di zecca. È in questo edificio e non in quello dei Vetti che Pompei vive per i napoletani. E regolarmente criminalità e miseria vi tornano a casa.
Le descrizioni fantastiche di numerosi viaggiatori hanno colorato la città. In realtà essa è grigia: di un rosso grigio o ocra, di un bianco grigio. E assolutamente grigia in confronto al cielo e al mare. Il che contribuisce non poco a togliere piacere al visitatore. Poiché per chi non coglie le forme, qui c’è poco da vedere. La città ha un aspetto roccioso. Vista dall’alto, da Castel San Martino, dove non giungono le grida, al crepuscolo essa giace morta, tutt’uno con la pietra. Solo una striscia lungo la costa si estende piatta, mentre dietro, gli edifici sono scaglionati uno sopra l’altro. Casermoni di sei o sette piani con scale che si arrampicano dalle fondamenta, che in confronto alle ville appaiono grattacieli. Nel basamento della roccia, là dove esso raggiunge la riva, sono state scavate delle grotte. Come sui quadri di eremiti del Trecento qui e là nelle rocce si intravede una porta. Quando è aperta, si scorgono grandi cantine che fungono insieme da alloggio per la notte e da deposito merci. Vi sono poi dei gradini che portano al mare, in osterie di pescatori, allestite all’interno di grotte naturali. Da lí, alla sera, fioche luci e deboli musiche si alzano verso l’alto.
L’architettura è porosa quanto questa pietra. Costruzione e azione si compenetrano in cortili, arcate e scale. Ovunque viene mantenuto dello spazio idoneo a diventare teatro di nuove impreviste circostanze. Si evita ciò che è definitivo, formato. Nessuna situazione appare come essa è, pensata per sempre, nessuna forma dichiara il suo «cosí e non diversamente». È cosí che qui si sviluppa l’architettura come sintesi della ritmica comunitaria: civilizzata, privata, ordinata solo nei grandi alberghi e nei magazzini delle banchine – anarchica, intrecciata, rustica nel centro in cui appena quarant’anni fa si è iniziato a scavare grandi strade. Ed è solo in queste che la casa costituisce il nucleo dell’architettura urbana in senso nordico. All’interno invece tale nucleo è rappresentato dall’isolato, tenuto insieme agli angoli, come fossero grappe di ferro, dai dipinti murali raffiguranti la Madonna. Per orientarsi, nessuno usa i numeri civici. I punti di riferimento sono dati da negozi, fontane e chiese, ma neanche questi sono sempre chiari. Infatti la tipica chiesa napoletana non campeggia su una grande piazza, ben visibile e con tanto di edifici trasversali, coro e cupola. Essa è nascosta e incassata; le alte cupole spesso si possono vedere solo da pochi punti, ma anche in questi casi non è facile raggiungerle; impossibile distinguere la massa della chiesa da quella degli edifici civili attigui. Il forestiero vi passa davanti. La porta poco appariscente, spesso nient’altro che una tenda, rappresenta una sorta di accesso segreto per iniziati. Un solo passo e dalla confusione di sporchi cortili ci si trova trasportati nella pura solitudine dell’ambiente alto e imbiancato di una chiesa. La vita privata del napoletano è lo sbocco bizzarro di una vita pubblica spinta all’eccesso. Infatti non è tra le mura domestiche, tra moglie e bambini, che essa si sviluppa, bensí nella devozione o nella disperazione. Nelle viuzze laterali, scendendo per scale sudicie, lo sguardo scivola su bettole, dove tre o quattro uomini a qualche distanza l’uno dall’altro siedono e bevono, nascosti dietro dei bidoni che sembrano i pilastri di una chiesa.
In angoli come questi è difficile distinguere le parti dove si sta continuando a costruire da quelle ormai già in rovina. Nulla infatti viene finito e concluso. La porosità non si incontra soltanto con l’indolenza dell’artigiano meridionale, ma soprattutto con la passione per l’improvvisazione. A questa in ogni caso vanno lasciati spazio e occasioni. I cantieri vengono usati come teatro popolare. Tutti si dividono in una infinità di ribalte animate simultaneamente. Balcone, ingresso, finestra, passo carraio, scala e tetto fanno contemporaneamente da palco e da scena. Anche la piú misera delle esistenze è sovrana nella sua oscura consapevolezza di essere parte, nonostante tutta la propria depravazione, di una delle irripetibili immagini della strada napoletana, di godere dell’ozio nella sua povertà e di seguire la grande veduta generale. Ciò che si svolge sulle scale è una grande scuola di regia. Queste vite, mai completamente messe a nudo, ma ancor meno chiuse all’interno dell’oscuro casermone nordico, si precipitano fuori dalle case a pezzi, compiono una svolta ad angolo e scompaiono, per poi prorompere nuovamente.
Anche per quanto riguarda i materiali, gli addobbi delle strade rivelano una stretta parentela con quelli teatrali. Il ruolo principale spetta alla carta. Scacciamosche rossi, blu e gialli, altari di carta lucida colorata sui muri, rosette di carta sui pezzi di carne cruda. E poi le abilità da variété. Un uomo è inginocchiato sull’asfalto con accanto una cassetta, e siamo in una delle vie piú animate. Con gesso colorato disegna sulla pietra un Cristo, e sotto forse la testa della Madonna. Si forma un cerchio di persone, l’artista si alza, e mentre attende accanto alla sua opera, un quarto d’ora, mezz’ora, dal gruppetto degli spettatori qualche sparuta monetina fiocca sulle membra, sulla testa e sul tronco della sua figura. Infine le raccoglie, il crocchio si scioglie e in pochi attimi l’immagine è completamente calpestata.
Non ultima tra queste abilità è quella di mangiare i maccheroni con le mani. A pagamento se ne offre un saggio al forestiero. Anche altri oggetti hanno le loro tariffe: vi sono commercianti che a prezzo fisso offrono mozziconi di sigarette, raccolti dalle fessure dopo la chiusura dei caffè. (Una volta si andava a cercarli muniti di candele schermate). Accanto agli avanzi dei ristoranti, a teste di gatto cotte e molluschi, essi vengono venduti sulle bancarelle nella zona del porto. La musica circola: non mesta per qualche cortile, bensí raggiante per le strade. Il largo carro, una specie di silofono, è ornato di variopinti testi di canzoni che si possono acquistare. Uno gira la manovella; l’altro, accanto, compare con il piattino dinanzi a chiunque sognante si azzardi a fermarsi. Cosí tutto ciò che dà allegria è mobile: la musica, i giochi, i gelati si diffondono per le strade.
Questa musica è residuo degli ultimi e preludio dei successivi giorni festivi. Irresistibilmente il giorno di festa pervade ogni giorno feriale. La porosità è la legge che questa vita inesauribilmente fa riscoprire. Un grano di domenica è nascosto in ogni giorno della settimana, e quanto del giorno feriale vi è in questa domenica!
Nondimeno nelle poche ore di riposo domenicale nessuna città riesce ad appassire piú rapidamente di Napoli. È piena di motivi festivi radicatisi nei modi meno appariscenti. Quando si calano le persiane davanti alle finestre, è come quando altrove vengono issate delle bandiere. Ragazzi variopinti pescano in ruscelli blu levando lo sguardo a campanili imbellettati di rosso. In alto sopra le vie si tendono corde per il bucato da cui la roba pende come bandiere allineate. Delicati soli si accendono nei recipienti di vetro con le bevande ghiacciate. Di giorno e di notte risplendono questi padiglioni contenenti i pallidi succhi aromatici attraverso i quali anche la lingua apprende cosa significa la porosità.
Ma quando la politica o il calendario offrono una qualche occasione propizia, tutti questi tratti misteriosi e divisi si raccolgono in una festa chiassosa che regolarmente culmina in uno spettacolo pirotecnico sul mare. Nelle serate estive da luglio a settembre la costa tra Napoli e Salerno è percorsa da un’unica striscia di fuoco. Ora sopra Sorrento, ora sopra Minori o Praiano, sopra Napoli sempre, risplendono delle palle di fuoco. Qui il fuoco ha un abito e un’anima. Esso sottostà alle mode e agli artifici. Ciascuna parrocchia deve superare la festa dei suoi vicini con nuovi effetti luminosi.
Tuttavia il piú antico elemento di origine cinese, il miracolo meteorologico in forma di razzi che si dispiegano a mo’ di drago, si mostra di gran lunga superiore allo sfarzo tellurico: ai soli appiccicati a terra e al crocifisso circondato dalle fiamme del fuoco di Sant’Elmo. Sulla spiaggia i pini del giardino pubblico formano un chiostro. Percorrendolo durante la notte di festa la pioggia di fuoco crea dei nidi sulle cime delle piante. Ma anche qui nulla che faccia sognare. Soltanto i botti riescono ad assicurare il favore popolare a qualsiasi apoteosi. In occasione di Piedigrotta, la festa principale dei napoletani, questo desiderio infantile di frastuono mostra una faccia selvaggia. Nella notte dell’8 settembre bande, composte anche da cento persone, percorrono le vie. Soffiano in giganteschi coni il cui foro di risonanza è ricoperto con maschere grottesche. Con violenza, quando non in altra maniera, si viene circondati, e da innumerevoli tubi il cupo suono penetra straziante nell’orecchio. Attività intere si fondano sullo schiamazzo. Il «Roma», il «Corriere di Napoli» si tendono nella bocca degli strilloni come stecche di gomma. Le loro grida fanno parte dei manufatti della città.
L’attività lavorativa autoctona napoletana sfiora l’azzardo e resta fedele al giorno festivo. Il noto elenco dei sette peccati capitali collocava la superbia a Genova, l’avarizia a Firenze (gli antichi tedeschi erano di altro avviso e chiamavano ciò che viene denominato amore greco «Florenzen»), la voluttà a Venezia, l’ira a Bologna, la gola a Milano, l’invidia a Roma e la pigrizia a Napoli. Entusiasmante e struggente come da nessun’altra parte in Italia, il gioco del lotto continua a essere un elemento della vita professionale. Ogni sabato alle quattro ci si accalca sulla piazza antistante l’edificio dove vengono estratti i numeri. Napoli è una delle poche città con estrazione propria. Con il monte di pietà e il lotto lo stato tiene in pugno questo proletariato: ciò che gli procura con l’uno se lo riprende con l’altro. L’ebbrezza piú moderata e liberale dell’azzardo, a cui partecipa l’intera famiglia, sostituisce quella alcolica.
E all’azzardo si assimila anche la vita degli affari. A un angolo della strada c’è un uomo in piedi su un calesse staccato. La gente si pigia attorno a lui. La cassetta è aperta e, vantandola, il commerciante estrae la sua merce. Ma ancor prima di poter vedere di cosa si tratti essa scompare avvolta da piccoli pezzi di carta rosa o verde. Cosí incartata il commerciante la tiene alta nella mano e in un attimo è venduta per qualche soldo. Con il medesimo misterioso gesto i pezzi vengono smerciati uno dopo l’altro. La carta contiene forse biglietti della lotteria? Oppure fette di torta con una moneta in ogni decima confezione? Cosa renderà la gente tanto avida e l’uomo impenetrabile quanto il Mograby? – L’uomo sta vendendo un dentifricio.
Un ruolo di particolare importanza in questo tipo di gestione dei commerci spetta alla vendita all’incanto. Quando alle otto del mattino, al momento di spacchettare, con una certa diffidenza, come se prima dovesse ancora esaminare la merce, l’ambulante comincia a presentare al suo pubblico i pezzi uno per uno – ombrelli, stoffe per camicie, scialli – si riscalda, fa prezzi fantastici, e infine con calma ripiega il grande pezzo di tessuto da cinquecento lire abbassando il prezzo a ogni piega per poi, tenendolo ormai piccolo sul suo braccio, offrirlo a cinquanta, egli non fa che rimanere fedele alle piú antiche consuetudini in uso nelle fiere di paese. A proposito del gusto dei napoletani per la trattativa commerciale vi sono spassosi aneddoti, come il seguente: su una piazza affollata a una grassa signora sfugge il ventaglio. Si guarda attorno perplessa sul da farsi, non essendo, a causa della sua mole, in grado di raccoglierlo da sé. Appare un cavaliere disposto a prestare questo servizio per cinquanta lire. I due trattano e la signora riottiene il ventaglio per dieci.
Beata distrazione nel deposito merci! Infatti esso qui è tutt’uno con la bancarella: si tratta di veri e propri bazar. Un luogo privilegiato è costituito dal lungo corridoio. All’interno di uno di essi ricoperto di vetro c’è un negozio di giocattoli (in cui si possono acquistare anche profumi e bicchieri da liquore), che potrebbe reggere il confronto con una galleria da fiaba. Una galleria sembra anche la strada principale di Napoli, il Toledo, una delle piú frequentate della Terra. Ai due lati di questo stretto corridoio, disteso in maniera insolente, crudo e seducente, giace tutto ciò che è affluito nel porto. Solo le fiabe conoscono questa lunga linea che si percorre senza guardare né a destra né a sinistra se non si vuole cadere vittima del diavolo. C’è un grande magazzino che nelle altre città in genere rappresenta il luogo d’acquisto ricco e attraente. Qui invece non presenta attrattive, superato dalle moltitudini di oggetti concentrate su spazi piú ristretti. Tuttavia, attraverso minuscole succursali – palloni, saponi, cioccolate – ricompare altrove nascosto tra le piccole bancarelle.
La vita privata è frammentaria, porosa e discontinua. Ciò che la distingue da tutte le altre grandi città Napoli lo ha in comune con il kraal degli ottentotti: le azioni e i comportamenti privati sono inondati da flussi di vita comunitaria. L’esistere, che per l’europeo del nord rappresenta la piú privata delle faccende, è qui, come nel kraal degli ottentotti, una questione collettiva.
Cosí la casa non è tanto il rifugio in cui gli uomini si ritirano, quanto l’inesauribile serbatoio da cui escono a fiotti. Non solo dalle porte prorompe la vita, non solo sulla piazza antistante dove la gente fa il proprio lavoro seduta su una sedia (poiché ha la capacità di trasformare in tavolo il proprio corpo). Gli arredi domestici pendono dalle finestre come piante in vaso. Dalle finestre dei piani alti, appesi a corde, scendono cesti per la posta, la frutta e la verdura.
Come l’ambiente domestico si ricrea sulla strada, con sedie, focolare e altare, cosí, solo in maniera molto piú chiassosa la strada penetra all’interno delle case. Anche la piú povera di queste è gremita di candele di cera, santi di pastafrolla, fasci di fotografie sui muri e letti in ferro, quanto la strada lo è di carri, persone e luci. La miseria ha provocato una dilatazione dei confini che è immagine speculare della piú radiosa libertà di spirito. Il sonno e i pasti non hanno orario, spesso neanche un luogo.
Piú è povero il quartiere, tanto piú sono numerose le trattorie. Da cucine poste in mezzo alla strada, chi può, prende ciò che gli serve. A seconda del cuoco gli stessi cibi hanno un gusto diverso; non si procede a casaccio, bensí secondo ricette consolidate. Il modo in cui pesci e carni si presentano allo sguardo dell’esperto, ammucchiati nella vetrina della piú piccola delle trattorie, rivela una sfumatura che va al di là di quanto richiesto dall’intenditore. Al mercato del pesce questo popolo di navigatori si è creato il suo grandioso rifugio in stile olandese. Stelle marine, granchi, polpi provenienti dalle acque del golfo pullulanti di mostri ricoprono i banchi, e spesso, conditi soltanto con un goccio di limone, vengono divorati crudi. Anche gli animali piú comuni della terraferma assumono fattezze fantastiche. Accade cosí che al quarto o quinto piano di questi casermoni vengano tenute delle vacche. Gli animali non scendono mai in strada e i loro zoccoli si sono talmente allungati da non consentirgli piú di stare in piedi.
Come riuscire a dormire in stanze simili? Vi sono sí dei letti, quanti l’ambiente riesce a contenerne. Ma anche se questi arrivano a essere sei o sette, non di rado il numero degli abitanti ammonta a piú del doppio. Ecco perché anche a notte tarda, alle dodici, talvolta addirittura alle due, si incontrano bambini per strada. A mezzogiorno poi li si trova a dormire sdraiati dietro i banconi delle botteghe o sui gradini delle scale. Questo sonno recuperato anche da uomini e donne in qualche angolo ombroso, non ha nulla a che vedere con il protetto sonno nordico. Anche qui compenetrazione di giorno e notte, rumori e silenzio, luce esterna e oscurità interna, di strada e casa.
Financo ai giochi si estende tutto ciò. Liquefatta, nei pallidi colori del bambinello di Monaco, la Madonna giace lungo i muri delle case. Il bambino che come uno scettro tende lontano da sé, è lo stesso che, altrettanto rigido, fasciato, privo di braccia e di gambe si trova come bambola di legno nelle piú misere botteghe di Santa Lucia: le facce di questi pezzi si adattano a qualsiasi uso. Anche nei loro piccoli pugni lo scettro e la bacchetta magica: è cosí che il Salvatore bizantino riesce ad affermarsi ancora oggi. Legno grezzo dietro, dipinto soltanto sul lato anteriore: vestito blu, macchie bianche, orlo rosso e guance rosse.
Ma in alcune di queste bambole che giacciono nelle vetrine tra carta da lettera a buon mercato, mollette di legno e pecorelle di latta si è insinuato il demone della lussuria. Nei quartieri sovrapopolati, molto presto anche i bambini fanno la conoscenza del sesso. Ma se da qualche parte si moltiplicano eccessivamente, se muore il padre o si ammala la madre, non sono necessari parenti vicini o lontani. Per un certo periodo, breve o lungo che sia, una vicina accoglie il bambino alla sua tavola facendo sí che le famiglie si compenetrino in rapporti assimilabili a quelli dell’adozione.
Veri laboratori di questo grande processo di compenetrazione sono i caffè. La vita in essi non può sedersi per ristagnare. Si tratta di sobri ambienti aperti tipo caffè politico popolare, agli antipodi di quello viennese con il suo carattere letterario borghese e ristretto. I caffè napoletani sono concisi. Una tazza di caffè espresso bollente – nelle bevande calde questa città è altrettanto insuperabile quanto nei sorbetti, negli spumoni e nei gelati – invita il cliente a uscire. I tavoli splendenti di rame sono piccoli e tondi; una piccola compagnia esita già sulla soglia e fa marcia indietro. Solo poche persone trovano posto per una breve sosta. Tre movimenti della mano, questa è la loro ordinazione.
Il linguaggio mimico è piú spiccato che in qualsiasi altra parte d’Italia. Una conversazione tra napoletani risulta impenetrabile per qualsiasi forestiero. Le orecchie, il naso, gli occhi, il petto e le ascelle sono posti di segnalazione azionati attraverso le dita. Tale suddivisione ritorna nel loro erotismo schizzinosamente specializzato. Gesti servizievoli e tocchi impazienti appaiono allo straniero in una regolarità che esclude il caso. Sí, qui egli sarebbe perduto, e invece, bonario, il napoletano lo manda via. Lo manda qualche chilometro in là a Mori. «Vedere Napoli e poi Mori», dice secondo un vecchio motto. «Vedere Napoli e poi muori», ripete il tedesco.

Mosca

1.
Prima che Mosca stessa, è Berlino che si impara a conoscere attraverso Mosca. A chi torna dalla Russia la città appare come appena lavata. Non c’è sporcizia in giro, ma non c’è neppure la neve. Le strade gli si presentano in realtà desolatamente lustre e ripulite, proprio come nei disegni di Grosz. E anche l’autenticità dei suoi person...

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