Momenti di trascurabile felicità
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Momenti di trascurabile felicità

Francesco Piccolo

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Momenti di trascurabile felicità

Francesco Piccolo

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«Entro in un negozio di scarpe, perché ho visto delle scarpe che mi piacciono in vetrina. Le indico alla commessa, dico il mio numero, 46. Lei torna e dice: mi dispiace, non abbiamo il suo numero.
Poi aggiunge sempre: abbiamo il 41.
E mi guarda, in silenzio, perché vuole una risposta.
E io, una volta sola, vorrei dire: e va bene, mi dia il 41». «Gli sms dopo le undici di sera che dicono: dove sei?, che significano molto di più di quello che dicono». «Quando la donna con cui dormo ha capito che ognuno deve dormire dal suo lato. Che ci si può abbracciare prima, o quando ci svegliamo la mattina, ma quando si dorme bisogna stare ognuno per i fatti suoi. Dividendo il letto con la stessa meticolosità con cui si tracciava la linea di divisione del banco con il compagno di banco, a scuola». Sei in coda al supermercato in attesa del tuo turno, magari sei bloccato nel traffico, oppure aspetti che la tua ragazza esca dal camerino di un negozio d'abbigliamento. Sei un po' distratto, insomma. Quando all'improvviso la realtà intorno a te sembra convergere in un solo punto, e lo fa brillare. E allora capisci di averne appena incontrato uno. I momenti di trascurabile felicità funzionano così: possono annidarsi ovunque, pronti a pioverti in testa e farti aprire gli occhi su qualcosa che fino a un attimo prima non avevi considerato.
Per farti scoprire, ad esempio, quant'è preziosa quella manciata di giorni d'agosto in cui tutti vanno in vacanza e tu rimani da solo in città. Quale interesse morboso ti spinge a chiuderti a chiave nei bagni delle case in cui non sei mai stato e curiosare su tutti i prodotti che usano. O la soddisfazione nel constatare che un amico ha ripreso in poco tempo tutti i chili persi con una dieta faticosissima che, per qualche giorno, sei stato tentato di fare anche tu.
A metà strada tra Mi ricordo di Perec e le implacabili leggi di Murphy - ma col gusto tutto italiano della divagazione - Francesco Piccolo mette a nudo con spietato umorismo i piaceri più inconfessabili, i tic, le debolezze con le quali prima o poi tutti noi dobbiamo fare i conti. Pagina dopo pagina, momento dopo momento, si finisce col venire travolti da un'inarrestabile ondata di divertimento, intelligenza e stupore.
Con la stessa sensibilità con cui ha perlustrato l'Italia «spensierata», Francesco Piccolo raccoglie, cataloga e fa sue le mille epifanie che sbocciano a ogni angolo di strada. Perché solo riducendo a spicchi la realtà si riesce ad afferrare per la coda - magari un attimo appena - il senso più profondo della vita.

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2011
ISBN
9788858403839

Momenti di trascurabile felicità

Non sopporto piú le persone che mi annoiano anche pochissimo e mi fanno perdere anche un solo secondo di vita.
GOFFREDO PARISE
Nelle pagine romane del quotidiano, il mercoledí o a volte anche prima, vedo l’annuncio di un film che aspettavo. C’è scritto: «da venerdí». Chiudo il giornale sapendo che da venerdí comincerà un segmento di tempo dentro cui una sera, presto, andrò a vederlo. Non so ancora dove, quando. Ma ci andrò.
Poi arriva il venerdí, e passa. Il primo fine settimana non se ne parla. Altrimenti anche il sapore dell’attesa durerebbe poco; e poi il primo fine settimana ci vanno tutti.
Aspetto.
Dalla settimana successiva, ogni giorno studio le sale e gli orari, il cinema piú vicino o quello che mi piace di piú, valuto la sala ma anche la strada, e se devo dirla tutta anche il marciapiede dove all’uscita chiederò a qualcuno una sigaretta e la fumerò con un piacere lento, ripensando ad alcuni dialoghi del film. Finirò per scegliere anche il marciapiede dove lascerò il mozzicone della mia sigaretta dopo il film. Penso di andarci da solo al primo spettacolo, oppure con qualcuno alle otto e mezza di sera, anzi – meglio – penso di uscire di casa dopo cena e chiedere a un amico di arrivare un po’ prima e passeggiare intorno all’isolato e poi entrare all’ultimo spettacolo.
E aspetto. Aspetto. Dico: ci vado la prossima settimana.
Settimana dopo settimana vedo le sale che cambiano, che si riducono; e so che il prossimo giovedí tremerò perché da domani forse non c’è piú, il film. E poi c’è, per fortuna, ma spostato in una sala piccola o periferica, come in un’agonia lenta, che non termina perché sta aspettando me. È piú difficile, adesso, piú lontano, piú complesso; piú arduo trovare qualcuno che non l’abbia ancora visto.
Solo a questo punto comincia a sedurmi un’idea nuova, maliziosa, e nell’attimo in cui la penso, decido, con coscienza, di metterla senz’altro in pratica – una cosa insensata ma alla quale non so resistere.
Non ci andrò.
Scalpiterò l’ultimo giorno, un giovedí, sapendo che da domani scomparirà, telefonerò a tutti quelli che conosco dicendo che forse bisognerebbe proprio andarci perché è l’ultimo giorno; ma avendo una buona scusa per dire che non ce la faccio in tempo, se qualcuno dovesse poi essere realmente disponibile.
E poi lo lascio andare via, quel film che volevo assolutamente vedere; non potevo perdermelo e me lo perdo, e da domani dirò che me lo sono perso, che mi dispiace. Il venerdí apro il giornale, scorro tutte le sale, e davvero non c’è piú, è scomparso.
E io mi sento, in qualche modo incomprensibile, sollevato.
La domenica mattina, piuttosto presto, quando la città è vuota e silenziosa e bellissima, me ne esco e vado in giro. E succede sempre che ne incontro due, o tre, una volta addirittura cinque. Qualche volta una sola. Mai: nessuna.
Sono certe donne dal viso pallido e il trucco sfregiato, infilate dentro vestiti eleganti e tacchi alti, con i visi mattinieri della notte quasi insonne e gli abiti stonati del sabato sera. Addirittura, qualcosa che luccica sul volto, sul vestito o sul cappotto. Qualche volta devo girare per molti quartieri, ma alla fine lo sento quel rumore di tacchi, oppure quel portone che si apre, e una di loro compare strizzando gli occhi contro il fastidio del mattino.
Ha passato la notte a casa di qualcuno e adesso cerca un bar, che non sa dove sia, per prendere un cappuccino prima di tornare a casa.
È fuori luogo; appartiene al giorno prima e non c’entra nulla con la domenica mattina; eppure è bellissima, è pallida e confusa, stordita dalla stanchezza. Esausta. Ma di una felicità sottile che si nasconde sotto l’aria confusa come sotto un tappeto. Subito la seguo nel bar, prendo anch’io un cappuccino, un po’ distante ma potendola guardare, senza parlare, senza alcuna intenzione di rivolgerle la parola, solo seguendo ogni movimento, quel modo di girare il cucchiaino lentamente, fissando di continuo un punto vuoto, sbadigliando, a volte dimenticandosi di pagare. Fino a quando non si dirige verso l’uscita, il rumore dei tacchi nel silenzio. Apre la porta del bar e va. E solo adesso è davvero il momento in cui ieri sera è finito.
Entro in un negozio di scarpe, perché ho visto delle scarpe che mi piacciono in vetrina. Le indico alla commessa, dico il mio numero, 46. Lei torna e dice: mi dispiace, non abbiamo il suo numero.
Poi aggiunge sempre: abbiamo il 41.
E mi guarda, in silenzio, perché vuole una risposta.
E io, una volta sola, vorrei dire: e va bene, mi dia il 41.
Il rumore delle stoviglie quando i baristi le scaraventano senza cura nel lavabo.
I gesti automatici e rapidi dei farmacisti quando impacchettano le medicine.
Prenoto il posto in treno, in tempo. Quando arrivo alla stazione, non salgo subito. Aspetto. Guardo tutte le riviste esposte all’edicola, compro una bottiglia d’acqua al distributore automatico. Poi, poco prima che il treno parta, due o tre minuti prima, salgo sulla mia carrozza. E mi avvicino al mio posto speranzoso. Spesso lo capisco anche da lontano. Se è libero, metto il bagaglio in alto e prendo posto.
Deluso.
Perché mi piace tanto trovare qualcuno che si è seduto al mio posto, sperando che io non arrivi.
Lo so che ha guardato l’orologio un sacco di volte, lo so che ogni volta che si avvicinava qualcuno temeva che fosse colui che reclamava il suo posto; lo so che ogni volta ha tirato un sospiro pieno di speranza. E lo so che ora, un paio di minuti prima della partenza, crede di avercela fatta.
In quel momento, arrivo io.
Con il mio diritto inalienabile di farlo alzare. Io che fino a qualche anno fa temevo di trovare qualcuno seduto al mio posto perché mi vergognavo di farlo alzare, mi dispiaceva. Adesso, sono diventato stronzo e mi piace.
«Scusi, ma questo posto sarebbe occupato». E mostro il biglietto. Dico «sarebbe» per fornirgli la possibilità di sperare ancora un pochino che io dica: ma non fa niente.
E invece non mi muovo. E lui, umiliato, se ne va, scappa quasi, in cerca di un altro posto.
L’inquadratura in campo lungo della prua della nave, con i quattro pinguini nati e vissuti nello zoo di New York che sono riusciti a raggiungere l’antartide per la prima volta nella loro vita, e lo guardano, in silenzio.
Alla fine uno di loro dice: «ma che schifo!»
E poi decidono di andarsene in Madagascar.
Il giorno in cui sta per scattare l’ora legale, o solare.
Perché non si capisce mai se questa volta scatta l’ora solare al posto della legale, o quella legale al posto della solare. E se la notte dormiremo un’ora in piú o in meno: questo è causa di discussioni estenuanti che si protraggono oltre l’ora dello spostamento delle lancette, vanificando pure l’eventuale ora di sonno in piú. Perché c’è sempre qualcuno, che pure quando gli hai fatto dei disegnini sulla carta, non è convinto, e dice che secondo lui è il contrario: cioè che dormiremo un’ora in piú, e non un’ora in meno come dite tutti (o un’ora in meno e non in piú).
Quando sbadigli, o dici di aver fame, o sonno, c’è sempre qualcuno che ti ricorda che è logico, perché sono le dieci, ma è come se fossero le undici; sono le due, ma è come se fosse l’una. E poi, quando alle sette della sera il sole è ancora alto e ti commuovi perché ormai hai capito che è arrivata la primavera, e dici «che bello, le giornate si sono allungate», ti dicono che non è esattamente cosí, perché è vero che sono le sette ma è come se fossero le sei, ed è soltanto per questo che il sole è ancora alto.
E cosí torni subito triste.
Però è bello quando nell’angolino basso della prima pagina, sul giornale, c’è il disegnino dell’orologio con la didascalia che dice: stanotte ricordatevi di mettere le lancette un’ora avanti (o indietro). E il giorno dopo, quando dice: vi siete ricordati di mettere le lancette un’ora avanti (o indietro)?
Prima di uscire di casa, spengo l’ultima luce quando sono ormai vicinissimo alla porta, e ci sono quei due secondi di buio improvviso in cui le mani cercano a tentoni la porta, la toccano, si spostano verso la serratura, cercano il punto esatto dove infilare la chiave e poi finalmente apro e ritorna la luce dall’esterno.
E anche quando mi sveglio in un posto che non è casa mia, quell’attimo in cui non capisco ancora dove sono. E anche quando poi lo capisco.
Non parti mai, d’estate. Te ne stai sempre a casa di giorno e giri per la città di notte. È il periodo dell’anno che ti piace di piú. Agosto. La parte centrale di agosto, meglio. Una settimana, al massimo dieci giorni, quello è il momento perfetto. Tutti vanno via e tu rimani qui. È la tua vacanza senza vacanza.
È come se avessi un balcone che affaccia su tutta la città e da giugno la vedessi riempirsi sempre di piú, con le notti piene di cose da fare e la gente che non ha nessuna voglia di tornarsene a casa. A un certo punto, però, ti accorgi che di gente laggiú comincia a venirne di meno. Se ti sporgessi a cercare di ascoltare le parole, sentiresti che si salutano, domani parto ci rivediamo quando torno. Pian piano la città si svuota. E in mezzo ad agosto saluti l’ultimo amico; e finalmente rimani solo.
Cosí la chiami: la tua vacanza senza vacanza. Sei in una città di gente straniera seminuda che fotografa ogni angolo e questo ti piace. Te ne stai a casa durante le ore piú calde, mangi poco e di continuo, leggi, guardi film che hai registrato anni prima. Hai davanti a te la pagina dell’estate di Repubblica e la consulti di continuo. Devi decidere cosa fare stasera. Fino alle cinque del pomeriggio, quasi sempre, hai deciso per una gimcana che ti porterà in tre posti diversi. Alle sei scendi a due. Alle otto, uno. E qualche volta con il motorino passi davanti all’arena dove avevi deciso di andare e non ti fermi e rimani a girare fino a notte fonda.
Qualche volta te ne stai un sacco di tempo nei supermercati semivuoti, compri un gran numero di gelati confezionati da tenere in freezer. Prendi tantissime volte la macchina (per il resto dell’anno non la prendi mai) perché adori andare in qualsiasi luogo e trovare subito parcheggio e adori ancora di piú tornare a casa e scegliere tra cinque o sei posti liberi. Vivi tutto il giorno nella penombra delle finestre semichiuse e ti cerchi dei punti dove c’è una leggerissima corrente. Giri nudo per casa e te ne stai un sacco di tempo a letto a guardare il soffitto. Lo fai soprattutto dopo aver fatto la doccia. Fai tante volte la doccia. Ti piace che il tempo non passi mai e ti piace non sapere cosa fare. Ti piace perfino annoiarti a tal punto, certi giorni, che cominci a pensare di voler partire, cominci a pensare ai tuoi amici che sono sparsi in giro e a come potresti raggiungere questo o quell’altro. Ti piace camminare nel corridoio avanti e indietro pensando che faccio, parto o non parto. Sapendo che non partirai mai.
Quando esci, in qualsiasi posto tu vada, succede sempre che dopo, nel mezzo della notte, fai delle lunghe passeggiate. Lasci il motorino o la macchina lontano e te ne vai al ghetto, a piazza Navona, a Campo Marzio. Cammini e incroci i turisti, cerchi sempre di scrutare nei loro occhi lo stupore per quello che stanno vedendo e ti piace pensare che loro ti guardano e pensano che tu vivi qui. Cammini fino a quando non senti i tuoi passi produrre l’unica eco nei dintorni. Oppure te ne vai alla Garbatella, in alcune stradine del quartiere Trieste, sui ponti a fare avanti e indietro. A via Giulia. Oppure in certe strade verdi e silenziose di Montesacro. A San Saba.
Quasi sempre da solo. Qualche volta in compagnia. E allora cammini fino a quando non senti i passi tuoi e di chi sta con te che si scambiano il ritmo.
Di solito, ogni volta succede che trascorri gran parte di questo tempo vuoto di agosto insieme a qualcuno che conosci a stento, che durante l’anno non hai frequentato o hai visto una sola volta. E che ricomincerai a non vedere piú appena questo tempo finisce.
Quest’anno hai incontrato lei. La conoscevi, la vedevi in un sacco di posti. L’ultima volta l’hai vista a una festa una sera di luglio e ora, mentre camminate nella notte, sostieni di aver parlato tutto il tempo con lei, quella sera. Lei sostiene che tu stavi parlando con lei e poi hai smesso per parlare tutto il tempo con una ragazza israeliana che era venuta a Roma per girare un documentario. Tu ti ricordi della ragazza israeliana ma non ti sembra che – comunque. Poi ti ricordi che quella sera un suo amico l’ha guardata negli occhi e ha detto: noi ci siamo baciati una volta, è vero? E lei ha detto sí. Hai capito subito che questa cosa te la saresti ricordata, ma non hai capito perché.
Poi la incontri a un concerto. Andate a bere una birra, prima che cominci. Lei ti dice che non parte perché Roma come è ad agosto non è mai piú. Tu non le dici che pensi esattamente la stessa cosa, perché ti sembra stupido. Stai zitto. Però capisci che quest’anno farai le tue vacanze in città con lei. Esci con lei tutte le sere. Per questa settimana, al massimo dieci giorni. Fino a quando non torna qualcuno che riporti te o lei a casa. A Roma com’era prima e come sarà dopo. Non questa Roma cosí.
Noi ci siamo baciati una volta, è vero? Aveva detto quel suo amico.
Lei ti chiama tutte le sere intorno alle sei e mezza. Non vi dite cosa avete fatto finora, non vi vedete mai se non la sera. State un sacco di tempo a discutere su cosa fare. Il film, il concerto, la pizza, l’indiano. Ogni volta che sembrate giungere a un accordo, uno dei due fa una proposta nuova. Vi piace molto complicare le cose. Poi andate da qualche parte. Poi prendete la macchina o i motorini e li lasciate ai margini di un quartiere e camminate fino a tardissimo. Parlate. Spesso prendete un gelato. Lei sta con te ma intanto sta anche con i suoi amici, anche se i suoi amici sono partiti. Manda sms e ne riceve di continuo. Non smette di camminare, di parlare o di ascoltare mentre spedisce o legge sms, non smette di spedire sms mentre cammina, parla o ascolta. Ogni tanto sorride e quando capisci che non stai dicendo nulla di divertente capisci anche che lei sta sorridendo per un sms. La cosa non ti dà fastidio, ti mette allegria.
Poi la accompagni a casa. Aprite il portone, salite fino all’ultimo piano – a te viene il fiatone, a lei no. Davanti alla porta di casa sua vi fermate a parlare ancora per tanto tempo. La seconda o la terza notte, non ricordi, vi baciate. Appena il bacio finisce, tu le dici buonanotte e scendi le scale con quella frenesia con cui si scendono le scale dopo i baci.
Poi tutti i giorni sono cosí. Telefonata. Cosa facciamo. Discussione. Scelta. Uscita. Passeggiata. Sms. Scale di casa sua. Davanti alla sua porta, lei spegne il telefonino. E vi baciate. Tutti i giorni so...

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