Educazione siberiana
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Educazione siberiana

Nicolai Lilin

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Educazione siberiana

Nicolai Lilin

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La vita di un ragazzo siberiano educato da un'intera comunità criminale a diventare una contraddizione vivente, e cioè un «criminale onesto». Le avventure di strada, le giornate al fiume, gli scontri tra adolescenti guerrieri. E soprattutto il sapere dei vecchi, che portano l'esistenza tatuata sulla pelle e trasmettono con pazienza e rigore il loro modo di capire il mondo. La Transnistria, terra di tutti e di nessuno, crocevia di traffici internazionali e di storie d'uomini. In un universo che non assomiglia a nessun altro, dove la ferocia e l'altruismo convivono con naturalezza, una vita fuori dall'ordinario raccontata da chi l'ha vissuta con uno stile intenso ed espressivo.

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2010
ISBN
9788858400920

Il giorno del mio compleanno

Noi ragazzi di Fiume Basso vivevamo davvero seguendo le leggi criminali siberiane, avevamo un robusto sentimento religioso ortodosso, con un’influenza pagana molto forte, e venivamo chiamati da tutto il resto della città «Educazione siberiana» per i nostri modi di fare. Non dicevamo parolacce, non offendevamo mai il nome di Dio o della madre, non parlavamo senza rispetto di una persona anziana, di una donna incinta, di un bambino piccolo, di un orfano o di un disabile. Eravamo abbastanza inquadrati e a dire la verità non avevamo bisogno delle parolacce per sentirci adulti come i nostri coetanei di altri quartieri, perché eravamo trattati come se facessimo veramente parte della comunità criminale, eravamo una vera banda, composta da minorenni, con la gerarchia del modello criminale e con le responsabilità che i criminali adulti ci avevano dato.
Il compito che avevamo era fare le sentinelle. Andavamo in giro per la nostra zona, passavamo tanto tempo ai confini con gli altri quartieri e comunicavamo agli adulti ogni movimento anomalo. Se nel quartiere passava un tipo sospetto, un poliziotto, un infame, un criminale di un altro quartiere, le nostre autorità adulte lo sapevano in pochi minuti.
Quando arrivavano i poliziotti, di solito gli bloccavamo la strada, ci mettevamo seduti o sdraiati davanti alle loro macchine costringendoli a fermarsi. Quelli uscivano e ci spostavano a calci nel sedere o tirandoci per le orecchie, noi facevamo la lotta con loro. Di solito sceglievamo il piú giovane e ci buttavamo addosso a lui in tanti, qualcuno lo picchiava, qualcuno si attaccava a un braccio mordendolo, un altro si aggrappava alla schiena e gli portava via il cappello, un altro ancora gli strappava i bottoni della divisa o gli tirava fuori la pistola dalla fondina. Andavamo avanti cosí finché lo sbirro non andava in esaurimento, o finché i suoi colleghi non cominciavano a picchiare sul serio.
I piú sfortunati di noi si beccavano delle manganellate in testa, perdevano un po’ di sangue e via.
Una volta un mio amico ha tentato di rubare la pistola dalla fondina di un poliziotto, quello gli ha bloccato la mano in tempo, solo che l’ha stretta cosí forte che il mio amico ha premuto il grilletto e involontariamente gli ha sparato nella gamba. Appena abbiamo sentito lo sparo ci siamo messi a correre da tutte le parti, e mentre correvamo quegli imbecilli hanno iniziato a spararci dietro. Per fortuna non hanno colpito nessuno di noi, ma correndo sentivo le pallottole passarci vicine. Una è finita contro il marciapiede, staccando un pezzo di cemento che mi ha colpito in faccia. La ferita era piccola e per niente profonda, dopo non mi hanno dato neanche un punto, però per qualche strana ragione da quel buco usciva un casino di sangue e quando siamo arrivati davanti a casa del mio amico Mel, sua mamma, zia Irina, mi ha preso in braccio e ha cominciato a correre verso casa dei miei, gridando per tutto il quartiere che i poliziotti mi avevano sparato in testa. Inutilmente cercavo di calmarla, era troppo presa dalla corsa, e alla fine, a qualche metro da casa, attraverso il sangue che mi copriva gli occhi, ho visto mia mamma diventare pallida come la morte, con un aspetto già da funerale. Quando zia Irina si è fermata davanti a lei, io mi sono girato come un serpente per liberarmene e ho fatto un salto dalle sue braccia, atterrando in piedi.
Mia mamma mi ha guardato la ferita e mi ha detto di entrare in casa e poi ha dato a zia Irina un calmante, per toglierle l’agitazione.
Si sono sedute vicine sulla panchina nel cortile, bevendo valeriana e piangendo tutte e due. Io allora avevo nove anni.
Un’altra volta i poliziotti sono usciti tutti dalle macchine, per sbarazzarsi di noi in fretta. Ci hanno preso per le gambe o per le braccia e ci hanno lanciato sul bordo della strada; noi ci alzavamo e tornavamo al centro, e gli sbirri ricominciavano uguale. Per noi era un gioco infinito.
Uno dei miei amici ha approfittato di un attimo di distrazione di uno sbirro e ha tirato giú il freno a mano della sua macchina. Eravamo in cima a una piccola collina, su una strada che portava al fiume, cosí la macchina è partita come un missile e i poliziotti l’hanno guardata impietriti ma con le facce arrabbiatissime fare tutto il percorso, entrare in acqua e – glug – sparire come un sottomarino. A quel punto siamo spariti anche noi piú in fretta del solito, per non beccarci troppe botte.
Oltre alle sentinelle facevamo anche i messaggeri.
Siccome nella comunità siberiana non si usa comunicare attraverso il telefono, che è considerato un mezzo insicuro e soprattutto un simbolo disprezzabile, è molto sviluppata la cosiddetta «strada»: cioè la comunicazione attraverso un misto di messaggi passati a voce, scritti nelle lettere o codificati nelle forme di alcuni oggetti.
Un messaggio a voce si chiama «soffietto». Quando un criminale adulto vuole fare un soffietto chiama un minorenne qualsiasi, anche suo figlio, e gli dice il contenuto del messaggio in lingua criminale fenja, che proviene dall’antica lingua degli antenati dei criminali siberiani, il popolo degli Efei. I messaggi detti a voce sono sempre corti e hanno un significato concreto, vengono usati nei rapporti quotidiani, per questioni poco complicate.
Quando mio padre mi chiamava per affidarmi un messaggio vocale da portare a qualcuno, mi diceva: «Vieni qua, che devo fare un soffietto». Poi mi diceva il contenuto, tipo: «Vai da zio Venja e digli che qua la polvere sta come un palo», il che equivaleva a un invito immediato per discutere di una cosa importante. Io dovevo partire subito in bicicletta, salutare per bene zio Venja, dire due parole di circostanza che non c’entravano niente con il messaggio, come voleva la tradizione siberiana, ad esempio chiedergli della sua salute, e solo dopo potevo arrivare al dunque: «Porto per voi un soffietto da mio padre». Quindi dovevo aspettare che lui mi desse il permesso di riferirglielo; lui me lo dava, ma senza parlare in maniera diretta. Umilmente, per non gettare alcuna ombra di prepotenza, mi rispondeva: «Allora che Dio ti benedica, figliolo» o «Che lo Spirito di Gesú Cristo sia con te», facendomi capire che era pronto ad ascoltare. Io riferivo il messaggio e aspettavo la sua risposta. Il fatto è che non potevo andare via senza una risposta, anche se zio Venja o chi per lui non aveva niente da dire doveva comunque inventarsi qualcosa. «Di’ a tuo padre che affilerò i tacchi, vai con Dio», mi diceva lasciando intendere che accettava l’invito e sarebbe passato al piú presto. Se non voleva dire niente, diceva: «Come la musica per l’anima, cosí è per me una buona soffiata, torna a casa con Dio, che Lui dia a tutta la vostra famiglia salute e vita lunga». A quel punto facevo anch’io gli auguri di rito e me ne tornavo a casa il piú in fretta possibile. Piú eri veloce, piú venivi apprezzato come messaggero, meglio eri ricompensato. A volte riuscivo a rimediare una banconota da venticinque rubli (a quei tempi una bici ne costava cinquanta), altre volte un dolce o una bottiglia di acqua gasata con lo sciroppo.
Anche nella consegna delle lettere avevamo una nostra piccola parte.
Le lettere potevano essere di tre tipi: la ksiva (che nella lingua criminale significa documento), la maljava (piccolina) e la rospica (firma).
La ksiva era una lettera lunga e importante in lingua criminale. Veniva scritta molto di rado, da criminali autorevoli e vecchi, soprattutto per far arrivare gli ordini dentro il carcere, influenzare la politica di gestione delle galere, fomentare le rivolte o convincere a risolvere in un certo modo una situazione calda. Una lettera simile veniva passata di mano in mano, di galera in galera, e per l’importanza del suo contenuto non veniva mai affidata a un messaggero qualunque, solo a persone molto vicine alle autorità criminali. Noi minorenni non abbiamo mai portato lettere del genere.
La maljava, invece, era la tipica lettera che noi portavamo quasi sempre, avanti e indietro. Di solito veniva mandata dalla galera per comunicare con il mondo criminale fuori, senza essere controllati dal sistema carcerario. Era una lettera piccola, sintetica, sempre in lingua criminale. In un giorno ben preciso, ogni secondo martedí del mese, noi andavamo fuori dalla prigione di Tiraspol’. I prigionieri quel giorno «sparavano i fuochi», cioè, usando gli elastici delle mutande, lanciavano come con la fionda le loro lettere oltre il muro della prigione e noi le raccoglievamo. Ogni lettera aveva un indirizzo in codice, una parola o un numero.
Queste lettere venivano scritte da un po’ tutti i prigionieri e usavano la «strada» della prigione, quel sistema di comunicazione da cella a cella di cui ho già parlato: attraverso delle corde montate di notte da una finestra all’altra venivano «mandati i cavalli», cioè vari pacchi, messaggi, lettere eccetera. Tutte le lettere venivano poi raccolte da una squadra di prigionieri che si trovava nei blocchi piú vicini al muro, dove le finestre non avevano lamiere spesse ma solo le classiche sbarre di ferro. Da lí, delle persone chiamate «missilisti» lanciavano le lettere una dopo l’altra oltre il muro. Venivano pagati per questo dalla comunità criminale e non avevano nessun altro compito in prigione, si esercitavano tutti i giorni sparando oltre il muro pezzi di stracci con cui si lavano i pavimenti.
Per lanciare una maljava si faceva il «missile», un piccolo tubo di carta che aveva una lunga coda morbida, di solito fatta con i fazzoletti di carta (molto difficili da procurarsi in prigione): questo tubo si piegava da una parte, formando una specie di gancio che si fissava a un’estremità dell’elastico; poi si stringeva con le dita e si tirava, nel frattempo un’altra persona accendeva la coda di carta morbida e quando quella prendeva fuoco il tubicino veniva sparato.
La coda in fiamme ci permetteva d’individuare la lettera quando cadeva per terra. Bisognava correre il piú in fretta possibile, per spegnere il fuoco e non far bruciare il tubicino con dentro la preziosa lettera. Eravamo quasi sempre almeno in dieci, e in mezz’ora riuscivamo a raccogliere anche piú di cento lettere. Tornando a casa, le distribuivamo alle famiglie e agli amici dei prigionieri. Eravamo pagati per questo lavoro.
Ogni comunità criminale aveva il suo giorno preciso in cui lanciare le lettere, una volta al mese. In alcuni casi, se c’era una lettera molto urgente, tra criminali si usava aiutarsi l’un l’altro, anche se si apparteneva a comunità diverse. Cosí a volte le lettere di membri di altre comunità finivano insieme alle lettere dei nostri criminali, e noi le portavamo comunque al destinatario. O meglio, valeva la regola che a consegnarla doveva essere quello che l’aveva raccolta da terra: era una regola che serviva per evitare i litigi tra di noi. In casi come questi non eravamo pagati, ma di solito ci davano qualcosa. Portavamo le lettere a casa del Guardiano di zona, uno dei suoi aiutanti le prendeva e le metteva in cassaforte: dopo passava la gente, diceva una parola o un numero in codice, e lui, se trovava una lettera segnata con lo stesso codice, la consegnava al destinatario. Questo servizio non era pagato e rientrava nelle responsabilità del Guardiano; se succedevano casini con la posta, spariva qualche lettera o nessuno di noi andava a raccoglierla sotto la prigione, il Guardiano poteva essere punito severamente, anche finire ammazzato.
La rospica, cioè «la firma», era un tipo di lettera che girava sia in prigione che fuori. Poteva essere una specie di lasciapassare fornito da un’autorità criminale, che assicurava la permanenza tranquilla e l’accoglienza fraterna di un criminale nei posti dove non conosceva nessuno, ad esempio nelle galere lontane dalla sua regione o in città dove si recava per viaggi d’affari. Come ho già detto, la firma veniva anche tatuata direttamente sulla pelle.
In altri casi la rospica si usava per diffondere informazioni importanti, ad esempio per convocare a una grande riunione di autorità criminali tutti quelli che avevano un qualche potere, o per far arrivare apertamente e senza rischi un ordine destinato a piú persone; grazie al linguaggio cifrato, infatti, anche se la firma finiva nelle mani della polizia non succedeva niente.
Lettere cosí io le ho consegnate un paio di volte: erano normali, sempre aperte. Le autorità criminali non chiudono mai le loro lettere, e non solo perché sono in codice, ma anche e soprattutto perché il contenuto non deve mai gettare un’ombra su di loro, di solito ha un carattere dimostrativo, per esibire i poteri delle leggi e spargere una specie di carisma criminale.
Una volta ho consegnato una firma con un ordine che proveniva dalle galere della Siberia, ed era indirizzato alle galere dell’Ucraina. Ai criminali ucraini veniva ordinato di rispettare in carcere alcune regole, ad esempio venivano proibite le relazioni omosessuali e le punizioni di singoli detenuti tramite umiliazioni fisiche o di carattere sessuale. In calce a quella lettera avevano messo le loro firme trentasei autorità criminali siberiane. La firma capitata nelle mie mani era una delle tante copie di quel documento, destinato a essere riprodotto e diffuso tra tutti i criminali in prigione e in libertà nel territorio dell’Urss.
Un’altra forma di comunicazione, chiamata «lancio», avveniva attraverso la consegna di certi oggetti.
In pratica veniva dato a un messaggero qualsiasi, anche minorenne, un oggetto che nella comunit...

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