Metà di un sole giallo
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Metà di un sole giallo

Chimamanda Ngozi Adichie, Susanna Basso

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Metà di un sole giallo

Chimamanda Ngozi Adichie, Susanna Basso

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Metà di un sole giallo è la storia di molte Afriche. Tutti questi mondi, con il loro bagaglio di felicità e dolore, di generosità e crudeltà, di amore e gelosia, vengono travolti dalla piena della storia quando nel 1967 la proclamazione d'indipendenza dalla Nigeria della Repubblica del Biafra sfocia in una tragica guerra civile. *** «Di solito non associamo la saggezza al neofita, eppure ecco una nuova scrittrice con il talento degli antichi cantastorie». Chinua Achebe *** «Amore e tradimento in un racconto magnifico e spietato». «Time Magazine»

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2011
ISBN
9788858401989
Parte quarta
Fine anni Sessanta

Capitolo venticinquesimo

Olanna trasaliva ogni volta che sentiva un tuono. Pensava subito a un altro attacco, a bombe che precipitavano da un aereo per venire a esplodere nel compound senza dare il tempo a lei, Odenigbo, Baby e Ugwu di raggiungere il bunker in fondo alla via. A volte immaginava il crollo del bunker stesso, e loro tutti sepolti sotto montagne di fango. Odenigbo aveva costruito il rifugio nel giro di una settimana, con l’aiuto di alcuni vicini; dopo aver scavato la fossa, delle dimensioni di una stanza, e dopo averla coperta con un tetto di argilla e tronchi di palma, le aveva detto: – Ora siamo al sicuro, nkem. Siamo al sicuro –. Ma la prima volta che le aveva mostrato come calarsi giù dai gradini sconnessi, Olanna, in un angolo, aveva visto un serpente avvolto in spire. La lucida pelle nera era screziata d’argento, c’erano grilli minuscoli che gli saltavano intorno e nel silenzio dell’umido sotterraneo che le ricordava una tomba, lei si era messa a strillare.
Odenigbo colpì il serpente con un bastone e le promise di assicurare meglio la lamiera di zinco all’ingresso del bunker in futuro. La sua serenità la sconcertava. La sconcertava la pacatezza di toni con cui affrontava il loro mondo nuovo, le circostanze diverse. Quando i nigeriani cambiarono la moneta e Radio Biafra si affrettò ad annunciare un analogo mutamento di valuta, Olanna si sobbarcò quattro ore di coda alla banca, tra uomini che mantenevano l’ordine a suon di scudisciate e donne che la spintonavano, per arrivare a cambiare il loro denaro nigeriano in più graziose nuove sterline biafrane. Più tardi, al tavolo della colazione, estrasse la modesta mazzetta di banconote e disse: – Ecco, tutto quello che abbiamo.
Odenigbo parve non prendere la cosa sul serio. – Guadagniamo tutti e due, nkem.
– È già il secondo mese che il Collegio ti trattiene lo stipendio, – ribatté Olanna, prima di tuffare nella propria tazza la bustina di tè appoggiata al piattino di lui. – E non credo che definirei la miseria che mi danno ad Akwakuma uno stipendio.
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– Riavremo presto la nostra vita, in un Biafra libero, – disse lui, sorseggiando il tè e accompagnando le parole abituali alla solita rassicurante certezza.
Olanna si portò la tazza alla guancia, per sentirne il tepore e rimandare il primo sorso di tè insipido preparato con una bustina già usata. Quando Odenigbo si alzò e la salutò con un bacio, Olanna si chiese come facesse a non essere spaventato dal poco che era loro rimasto. Forse dipendeva dal fatto che non andava personalmente al mercato. Non poteva rendersi conto di come una tazza di sale costasse ogni settimana uno scellino di più, di come i polli venissero tagliati a pezzetti che restavano comunque troppo cari e di come nessuno vendesse più il riso nei sacchi grossi perché non avrebbe trovato chi potesse permettersi di comprarli. Quella notte, rimase silenziosa sotto i colpi di lui, man mano più vigorosi. Era la prima volta che si sentiva lontana; lui le bisbigliava all’orecchio e lei rimpiangeva i suoi soldi fermi alla banca di Lagos.
Nkem, ti senti bene? – le chiese Odenigbo, sollevandosi per guardarla in faccia.
– Sì.
Le succhiò il labbro, si girò sul fianco e si addormentò. Non si era mai accorta che russasse tanto forte. Era stanco. Il lungo tragitto a piedi per raggiungere il Collegio delle Risorse umane e la fatica alienante di compilare elenchi di nomi e indirizzi un giorno dopo l’altro lo sfinivano, lo sapeva, eppure tornava sempre a casa con una luce negli occhi. Si era unito agli Agitator Corps; dopo il lavoro, raggiungevano i villaggi dell’interno per istruire la popolazione. Spesso lo immaginava al centro di una folla estatica di povera gente, a parlare, con quella sua voce stentorea, della grandezza del Biafra. I suoi occhi sapevano vedere il futuro. Perciò non gli disse che lei rimpiangeva il passato, una cosa diversa ogni giorno, le tovaglie a ricami d’argento, la sua macchina, i biscotti alla crema di fragola di Baby. Non gli disse che certe volte, guardando Baby correre insieme ai bambini del vicinato, così indifesa e felice, le veniva voglia di prendersela tra le braccia e chiederle scusa. Anche se Baby non avrebbe capito.
Da quando Mrs Muokelu, che insegnava alla prima elementare di Akwakuma, le aveva raccontato dei bambini costretti dai soldati a montare su un camion e riportati nel cuore della notte, con le mani scorticate e sanguinanti a furia di macinare cassava, aveva ordinato a Ugwu di non perdere mai di vista la piccola. Anche se non pensava che i soldati potessero ritenere di qualche utilità una bambina dell’età di Baby. A preoccuparla davvero erano gli attacchi aerei, invece. Faceva un sogno ricorrente: si dimenticava di Baby e correva al bunker e, dopo il bombardamento, inciampava sul corpo ustionato di un esserino dai lineamenti devastati a tal punto da non poter essere certi se si trattasse di Baby o no. Quel sogno la perseguitava. Obbligò Baby a esercitarsi a correre al bunker. Chiese a Ugwu di allenarsi a prendere Baby in braccio e precipitarsi al riparo. Insegnò alla bambina come mettersi in salvo in caso non fosse arrivata in tempo al rifugio: doveva sdraiarsi faccia a terra, e proteggersi la testa con le mani.
Comunque, temeva di non aver fatto abbastanza e che il sogno presagisse una negligenza da parte sua che potesse arrecare danno alla piccola. Quando, verso il finire della stagione delle piogge, Baby cominciò a tossire emettendo un sibilo, Olanna provò sollievo. Finalmente le succedeva qualcosa. Se in cielo c’era giustizia, le sventure di guerra dovevano escludersi vicendevolmente; posto che Baby già si era ammalata, non era pensabile che rimanesse anche vittima di un attacco aereo. La tosse era un male su cui Olanna era in grado di esercitare controllo, un attacco aereo, no.
Portò Baby all’Albatross Hospital. Ugwu rimosse le fronde di palma dal tetto dell’auto di Odenigbo, ma a ogni giro di chiave, il motore esalava un fievole fischio e spirava. Alla fine, Ugwu fece partire la macchina a spinta. Olanna guidò a passo d’uomo rallentando ogni volta che Baby aveva un accesso di tosse. Al posto di blocco, segnalato da un immenso tronco d’albero di traverso sulla strada, spiegò agli agenti della Difesa civile che la sua bambina era molto malata e quelli subito si scusarono evitando di perquisirle l’auto e la borsa. Il tetro corridoio d’ospedale odorava di piscio e penicillina. C’erano donne sedute coi bambini in braccio o in piedi coi piccoli issati sul fianco, e le loro parole si mescolavano al pianto. Olanna ricordò il dottor Nwala presente alle nozze. Non l’aveva nemmeno notato finché, dopo il bombardamento, l’aveva sentito dire: – Attenta, che il fango le macchia il vestito, – e poi l’aveva aiutata ad alzarsi, ancora avvolta nella camicia di Okeoma.
Alle infermiere disse di essere una sua vecchia collega.
– È molto urgente, – aggiunse, badando a esibire un buon accento inglese e a tenere ben alta la testa. Un’infermiera la fece passare subito nello studio. Una delle donne sedute in corridoio si mise a imprecare. – Tufiakwa!È da questa mattina all’alba che aspettiamo! È perché non parliamo nel naso come fanno i bianchi?
Il dottor Nwala sollevò il corpo esile dalla sedia e si avvicinò a stringerle la mano. – Olanna, – le disse, guardandola negli occhi.
– Dottore, come sta?
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– Si tira avanti, – disse lui, accarezzando una spalla di Baby. – E lei?
– Molto bene. Okeoma è passato a trovarci la settimana scorsa.
– Sì, è stato un giorno da me –. La fissava, ma a Olanna sembrò che non stesse ascoltando, come se non fosse davvero lì. Aveva l’aria smarrita.
– È già da qualche giorno che Baby non fa che tossire, – disse Olanna ad alta voce.
– Oh –. E si volse verso la piccola. Le appoggiò lo stetoscopio sul petto, mormorando ndo quando lei tossiva. Vedendolo dirigersi verso l’armadietto e rovistare tra i flaconi e le scatole di medicinali, Olanna provò compassione per lui senza nemmeno sapere perché. Impiegava troppo tempo per cercare tra quelle poche cose.
– Le posso dare uno sciroppo per la tosse, ma alla bambina servono antibiotici e io li ho finiti, – disse tornando a fissarla in quel modo strano, come bloccando lo sguardo in quello di lei. La sua espressione era piena di malinconia e di fatica. Olanna si chiese se avesse perduto da poco una persona cara.
– Le scrivo la ricetta e lei può tentare con una di quelle persone che commerciano in farmaci, ma deve trattarsi di gente affidabile, mi raccomando.
– Naturalmente, – ripeté Olanna. – Ho un’amica, Mrs Muokelu, che forse mi può aiutare.
– Molto bene.
– Perché non passa a trovarci quando ha tempo? – disse Olanna, alzandosi.
– Sì –. Le prese una mano e gliela tenne stretta un po’ troppo a lungo.
– Grazie, dottore.
– E di che? Non posso fare molto –. Le indicò con un gesto la porta, e Olanna capì che si riferiva alle donne sedute fuori in attesa. Uscendo, lanciò un’occhiata all’armadietto dei medicinali ormai semivuoto.
Il mattino dopo Olanna attraversò di corsa la piazza, diretta alla scuola elementare di Akwakuma. Faceva sempre così se si trovava in uno spazio aperto: correva fino alla successiva ombra fitta che le garantisse protezione in caso di attacco aereo. Nel compound della scuola un gruppo di bambini raccolti sotto un albero di mango lanciava sassi ai frutti. Olanna gridò: – Tornate in classe, osiso! – e quelli si dispersero momentaneamente per rimettersi subito a tirare ai manghi. Si udì un grido trionfante quando ne cadde uno, poi le voci concitate dei ragazzini che litigavano per stabilire di chi fosse il sasso che l’aveva abbattuto.
Mrs Muokelu stava davanti alla porta della classe con la campanella in mano. Gli irti peli neri su gambe e braccia, la peluria sul labbro e i peli isolati sul mento, oltre agli arti tozzi e muscolosi, avevano spesso fatto sospettare Olanna che Mrs Muokelu sarebbe forse stata più a suo agio nascendo maschio.
– Sa dove posso comprare degli antibiotici, sorella? – chiese Olanna, dopo averla abbracciata. – Baby ha la tosse, e all’ospedale li hanno finiti.
Mrs Muokelu canticchiò a bocca chiusa per dimostrare che stava riflettendo. La faccia di Sua Eccellenza spiccava stampata sulla stoffa del boubou che indossava ogni giorno; le piaceva ripetere che non si sarebbe cambiata d’abito fino al completo insediamento del Biafra libero.
– Chiunque può vendere medicine, ma chissà quanta gente prepara compresse di gesso nel cortile di casa e poi le chiama Nivaquine, – disse. – Dammi i soldi, che vado da Mama Onitsha. Lei è fidata. Sarebbe disposta a vendere anche le mutande sporche di Gowon se paghi il dovuto.
– Che si tenga pure le mutande, a me basta la medicina, – disse Olanna ridendo. Mrs Muokelu sorrise e sollevò la campanella. – Ho avuto una visione, ieri, – disse. Il boubou era troppo lungo per il suo corpo tozzo; spazzava per terra e Olanna temette potesse inciamparsi e cadere.
– Quale visione? – domandò Olanna. Mrs Muokelu ne aveva di continuo. L’ultima volta, aveva visto Ojukwu guidare personalmente la battaglia nel settore di Ogoja, il che stava a indicare che in quella zona il nemico era stato debellato alla radice.
– I guerrieri tradizionali di Abiriba usavano l’arco e le frecce contro i barbari del settore di Calabar. I makwa, i bambini andavano al rio calpestando le loro ossa. – Ma pensa, – disse Olanna, mantenendosi seria.
– Questo significa che non prenderanno mai Calabar, – concluse Mrs Muokelu, e suonò la campanella. Olanna osservò i gesti rapidi del braccio muscoloso. Non avevano davvero niente in comune, lei e quella maestra elementare poco più che analfabeta di Eziowelle, che credeva nelle visioni. Eppure Mrs Muokelu le era sempre parsa una di famiglia. Non c’entrava il fatto che Mrs Muokelu le acconciasse i capelli o che andasse con lei agli incontri del Servizio di volontariato femminile, o che le insegnasse come conservare le verdure; era piuttosto il senso di temerarietà che emanava dalla sua persona, una mancanza assoluta di paura che le ricordava Kainene.
Quella sera, quando Mrs Muokelu le portò le capsule di antibiotico avvolte nella carta di giornale, Olanna la fece entrare e le mostrò una foto di Kainene seduta sul bordo della piscina con la sigaretta in bocca.
– È la mia gemella. Abita a Port Harcourt.
– Una gemella! – esclamò Mrs Muokelu, sfiorando il ciondolo in plastica a forma di mezzo sole giallo che portava al collo. – Uno non finisce mai di stupirsi. Non lo sapevo che avessi una gemella e, nekene, non ti somiglia per niente.
– Abbiamo la bocca uguale, – disse Olanna.
Mrs Muokelu tornò a guardare la foto scuotendo la testa. – Non ti somiglia nemmeno un po’, – ripeté.
Gli antibiotici fecero venire a Baby gli occhi gialli. La tosse migliorò, si fece meno asmatica e profonda; in compenso l’appetito scomparve. La bambina rovistava nel garri distribuendolo sul bordo del piatto e lasciando coagulare la pappa in un malloppo colloso. Olanna spese la maggior parte dei contanti della busta per comprare i biscotti e le caramelle mou avvolte in carta lucida che vendeva una donna oltre le linee nemiche, ma Baby si limitò a sbocconcellarli. Olanna si prendeva la piccola in braccio e le infilava in bocca pezzetti di igname schiacciato per ritrovarsi a ricacciare a stento le lacrime, quando il boccone andava di traverso e faceva venire a Baby i conati di vomito. Il suo terrore era che Baby potesse morire. Quella paura devastante era lì, a fare da sfondo a ogni cosa che intanto pensava o faceva. Odenigbo saltava le esercitazioni degli Agitators Corps per correre a casa in anticipo, e Olanna sapeva che aveva paura anche lui. Ma non ne parlavano, come se verbalizzarlo potesse rendere la morte di Baby imminente, fino al mattino in cui Olanna sedette a guardare la bambina addormentata mentre Odenigbo si preparava per il lavoro. La voce tonante di Radio Biafra riempiva la stanza:
Gli stati africani sono caduti preda della cospirazione imperialista anglo-americana volta a utilizzare le raccomandazioni della commissione come pretesto per offrire un massiccio appoggio bellico all’inaffidabile governo fantoccio del regime neocolonialista nigeriano…
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– Esatto! – disse Odenigbo, abbottonandosi la camicia con gesti frettolosi.
Baby si mosse sul letto. Avendo perso l’aspetto paffuto, aveva un sinistro faccino da adulta, smunto e segnato. Olanna la osservava.
– Baby non ce la farà, – disse pacata.
Odenigbo si fermò a guardare lei. Spense la radio e le si avvicinò per premersi addosso il viso di Olanna. Il suo non dire niente in un primo momento divenne conferma che Baby sarebbe morta. Olanna si scostò.
– È normalissimo che non abbia fame, – disse lui alla fine. Ma il suo tono di voce mancava della sicurezza di un tempo.
– Guarda solo com’è dimagrita! – esclamò Olanna.
Nkem, la tosse migliora e vedrai che le tornerà anche l’appetito –. Cominciò a pettinarsi. Olanna ce l’aveva con lui perché non le diceva quel che voleva sentirsi dire, perché non assumeva su di sé l’autorevolezza del fato garantendole che Baby sarebbe tornata in salute, perché era abbastanza indifferente da continuare a vestirsi per andare al lavoro. Il bacio che le diede prima di uscire fu frettoloso, diverso dal solito indugiare vigorosamente sulle labbra, e anche per questo ce l’aveva con lui. Le si riempirono gli occhi di lacrime. Pensò ad Amala. Amala non si era più messa in contatto con lui da quel lontano giorno all’ospedale, ma ora Olanna si chiese se fosse suo dovere informarla qualora Baby fosse morta.
Baby sbadigliò svegliandosi. – Ciao, Mamma Ola –. Le si era affievolita perfino la voce.
– Baby, ezigbo nwa, come stai? – Olanna la tirò su, l’abbracciò, le soffiò nel collo cercando di trattenere le lacrime. Era così leggera, così inconsistente. – La mangeresti un po’ di pappa, tesoro? Un pezzetto di pane? Di che cosa hai voglia? Baby scosse la testa. Olanna stava cercando di persuadere Baby a bere qualche sorso di Ovaltine, quando si presentò Mrs Muokelu sorridente e soddisfatta, con un sacchetto annodato di rafia in mano.
– Hanno aperto un centro di aiuti umanitari in Bishop Road; ci sono stata prestissimo questa mattina, – disse. – Di’ a Ugwu di portarmi una scodella.
Ci versò dentro una polvere gialla.
– Che cos’è? – chiese Olanna
– Tuorlo d’uo...

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