La macchia umana
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La macchia umana

Philip Roth, Vincenzo Mantovani

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La macchia umana

Philip Roth, Vincenzo Mantovani

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Il professor Coleman Silk da cinquant'anni nasconde un segreto, e lo fa cosí bene che nessuno se n'è mai accorto, nemmeno sua moglie o i suoi figli. Un giorno però basta una parola detta per sbaglio, e su di lui si scatenano le streghe del perbenismo, gli spiriti maligni della political correctness. Allora tutto il suo mondo, la sua brillante vita accademica, la sua bella famiglia crollano. E non c'è scampo, perché «noi lasciamo una macchia, lasciamo la nostra impronta. Impurità, crudeltà, abuso, errore, escremento, seme: non c'è altro mezzo per essere qui».

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2010
ISBN
9788858400555

Capitolo quarto

Quale maniaco l’ha concepita?

Solo un’altra volta, dopo quel luglio, vidi Coleman vivo. Personalmente non mi parlò mai della visita al college, né della telefonata dall’unione studentesca al figlio Jeff. Seppi che quel giorno era stato al campus perché era stato notato – casualmente, dalla finestra di un ufficio – dal suo ex collega Herb Keble, il quale, verso la fine del discorso che tenne al funerale, accennò al fatto di avere visto Coleman acquattato all’ombra del muro di North Hall, nascosto – in apparenza – per motivi che Keble poteva solo tirare a indovinare. Seppi della telefonata perché Jeff Silk, col quale parlai dopo il funerale, vi accennò, abbastanza ampiamente per farmi capire che durante la telefonata Coleman aveva perso ogni controllo. E fu direttamente da Nelson Primus che appresi della visita fatta da Coleman all’ufficio dell’avvocato lo stesso giorno in cui aveva telefonato a Jeff, una visita finita, come la telefonata, con una raffica di ingiurie disgustate uscite dalla bocca di Coleman. Dopodiché né Primus né Jeff Silk gli avevano piú rivolto la parola. Coleman non rispose né alle loro telefonate né alle mie – risultò che non aveva risposto alle telefonate di nessuno – e poi sembra che avesse staccato quasi subito la segreteria telefonica, perché il telefono, quando cercavo di mettermi in contatto con lui, continuava a suonare a vuoto.
Era in casa, però, da solo; non era andato via. Sapevo che era là perché, dopo due settimane di telefonate senza esito, un sabato sera ai primi di agosto, dopo il tramonto, passai da quelle parti per dare un’occhiata. C’era solo qualche luce accesa, ma quando mi fermai sotto l’ampio ombrello di rami dei vecchi aceri di Coleman, spensi il motore e restai seduto in macchina sulla strada asfaltata ai piedi del prato ondulato, sentii – come no – la musica da ballo prorompere dalle finestre aperte della casa di legno bianco con le persiane nere, il programma a modulazione di frequenza che durava tutto il sabato sera e che lo riportava col pensiero a Steena Palsson e alla stanza al seminterrato di Sullivan Street subito dopo la guerra. Coleman è là dentro, ora, solo con Faunia, e ciascuno dei due difende l’altro da tutti gli altri: ciascuno dei due, per l’altro, comprende tutti gli altri. Là dentro ballano, molto probabilmente svestiti, lasciandosi alle spalle il mondo con le sue tribolazioni, in un paradiso non terrestre di terrestre passionalità dove il loro accoppiarsi è il dramma in cui decantano tutte le rabbiose disillusioni della loro vita. Ricordavo una cosa che aveva detto Faunia – cosí almeno mi aveva raccontato lui – nell’euforia di una delle loro serate, quando sembravano avere tante cose in comune. Coleman le aveva detto: – Questo non è soltanto sesso, è qualcosa di piú, – e in tono reciso lei rispose: – No, non è vero. Hai semplicemente dimenticato cos’è il sesso. Questo è sesso. E basta. Non rovinarlo con la pretesa che sia un’altra cosa.
Chi sono, loro, adesso? Sono la versione piú semplice possibile di se stessi. L’essenza della singolarità. Tutto il dolore si è raggrumato in passione. Forse non rimpiangono nemmeno piú che le cose non siano andate diversamente. Si sono trincerati troppo bene nel disgusto per questa situazione. Sono sgusciati da sotto tutto ciò che era stato ammassato su di loro. Non c’è niente nella vita che li tenti come questa intimità, niente nella vita che li ecciti come questa intimità, niente nella vita come questa intimità che mitighi l’odio che hanno per la vita. Chi sono queste persone cosí drasticamente diverse tra loro, cosí assurdamente – a settantuno e trentaquattro anni – alleate tra loro? Sono il disastro a cui sono chiamati. Ballando nudi al ritmo della band di Tommy Dorsey e al soave canto confidenziale del giovane Frank Sinatra, vanno senza esitare verso una morte violenta. Ognuno, sulla terra, prepara in modo diverso la propria fine: questo è il modo in cui la programmano loro. Non è piú possibile, ormai, che si fermino in tempo. È fatta.
Non sono solo ad ascoltare la musica dalla strada.
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Quando vidi che non rispondeva alle mie telefonate, pensai che Coleman non volesse avere piú nulla a che fare con me. Qualcosa era andato di traverso, e immaginai, come si fa quando un’amicizia finisce bruscamente (una nuova amicizia, in particolare), che la responsabilità fosse mia, se non per qualche parola o azione indiscreta che lo aveva profondamente irritato o offeso, semplicemente per quello che sono. Ricordate che Coleman era venuto da me, la prima volta, perché sperava, poco realisticamente, di convincermi a scrivere il libro che avrebbe dovuto spiegare come il college aveva ucciso sua moglie; permettere a questo stesso scrittore di ficcare il naso nella sua vita privata era probabilmente l’ultima cosa che ora desiderava. Non sapevo a quale conclusione arrivare, se non che nascondermi i dettagli della sua vita con Faunia doveva essergli apparso, per qualche ragione, di gran lunga piú saggio che continuare a confidarsi con me.
Naturalmente, allora non sapevo nulla della verità delle sue origini – anche quella l’avrei appresa in maniera conclusiva al funerale – e perciò non potevo nemmeno sospettare che la ragione per cui non ci eravamo mai incontrati negli anni prima della morte di Iris, la ragione per cui aveva evitato di incontrarmi, era che io stesso ero cresciuto ad appena qualche miglio da East Orange e che, avendo della regione una conoscenza piuttosto approfondita, avrei potuto sapere troppe cose o essere troppo curioso per non indagare sulle sue radici jerseyane. E se fosse saltato fuori che ero uno dei ragazzi ebrei di Newark dei corsi di boxe che Doc Chizner teneva dopo la scuola? Il fatto è che andò proprio cosí, ma non prima del ’46 e del ’47, quando Silky ormai era alla NYU col sussidio della legge per i reduci e non aiutava piú Doc a insegnare ai ragazzi come me il modo giusto di piazzarsi sul ring e di muoversi e tirare pugni.
Il fatto è che, essendomi diventato amico nel periodo in cui scriveva la sua versione di Spettri, Coleman aveva veramente corso il rischio – e uno stupido rischio, se è per questo – di essere smascherato, quasi sessant’anni dopo, come lo studente negro del liceo di East Orange che doveva tenere il discorso di commiato durante la cerimonia per la consegna dei diplomi, il ragazzo di colore che aveva tirato di boxe nel New Jersey disputando incontri tra dilettanti per il Morton Street Boys Club prima di arruolarsi in marina come un bianco; troncare i rapporti con me nel pieno di quell’estate era sensato per un sacco di ragioni, anche se io non avevo modo di immaginare il perché.
Ma torniamo all’ultima volta che lo vidi. Un sabato d’agosto, spinto dalla solitudine, andai a Tanglewood ad assistere alla prova aperta al pubblico del concerto in programma per il giorno seguente. Una settimana dopo essermi fermato con la macchina sotto la sua casa, sentivo ancora sia la mancanza di Coleman che la mancanza dell’esperienza di avere un amico intimo, e cosí ebbi l’idea di aggregarmi a quel piccolo pubblico del sabato mattina che riempie per un quarto il Music Shed per queste prove, un pubblico di villeggianti che amano la musica e di studenti di musica in visita, ma soprattutto di anziani turisti, gente con l’apparecchio acustico e gente col binocolo e gente che sfoglia il «New York Times», arrivata in pullman sui Berkshire per passarvi la giornata.
Forse fu la stranezza di quella mia escursione, l’esperienza momentanea di essere una creatura socievole (o una creatura che fingeva di essere socievole), o forse fu a causa di una fuggevole impressione che mi fecero gli anziani tra il pubblico, di imbarcati, di deportati, in attesa di essere sospinti, galleggiando sulle onde della musica, lontano dalla fin troppo tangibile clausura della vecchiaia, ma quel sabato ventilato e pieno di sole nell’ultima estate della vita di Coleman Silk il Music Shed continuava a ricordarmi i pontili aperti ai lati che una volta si allungavano cavernosamente sull’Hudson, come se uno di questi pontili spaziosi e con le travature di ferro, risalenti a quando i transatlantici si ormeggiavano a Manhattan, fosse stato sollevato dall’acqua in tutta la sua mole, spostato in un lampo di centoventi miglia a nord e deposto intatto sull’ampio prato di Tanglewood, con un perfetto atterraggio tra gli alberi d’alto fusto e i vasti panorami montagnosi del New England.
Mentre mi avviavo verso un posto libero che avevo individuato, uno dei pochi posti liberi vicini al palcoscenico che nessuno aveva ancora occupato buttandovi sopra un pullover o una giacca, continuavo a pensare che stavamo andando tutti insieme da qualche parte, che in effetti ci eravamo già andati e arrivati, lasciando tutto indietro… quando, in realtà, non stavamo facendo altro che prepararci a sentire la Boston Symphony Orchestra che provava Rachmaninov, Prokof´ev e Rimskij-Korsakov. Sotto i piedi della gente, al Music Shed, c’è una distesa di terra battuta bruna dalla quale non potrebbe essere piú chiaro che la sedia ha i piedi ben piantati sulla terraferma; appollaiati in cima alla struttura ci sono gli uccelli dei quali si ode il cinguettio nel silenzio solenne tra i movimenti orchestrali, le rondini e gli scriccioli che alacremente vengono dal bosco ai piedi della collina e poi sfrecciano via come nessun uccello avrebbe osato fare lasciando la fluttuante arca di Noè. Eravamo a circa tre ore di macchina dalla costa, a ovest dell’Atlantico, ma io non riuscivo a liberarmi di questa duplice impressione, sia di essere dov’ero sia di essere partito, col resto dei pensionati presenti, per un ignoto acqueo e misterioso.
Era solo la morte a pesare sul mio spirito mentre pensavo a questo sbarco? Io e la morte? Coleman e la morte? O erano la morte e una massa di persone ancora capaci di trovare diletto nel farsi scarrozzare a destra e a manca come un gruppo di campeggiatori in gita estiva, e tuttavia, come palpabile moltitudine umana, entità di carne giudiziosa e sangue rosso e caldo, separata dall’oblio dal piú sottile, dal piú fragile strato di vita?
Il programma che precedeva la prova stava terminando proprio quando arrivai io. Un brillante conferenziere in camicia sportiva e pantaloni cachi, ritto davanti alle sedie vuote dell’orchestra, introduceva il pubblico all’ultimo dei pezzi che avrebbero ascoltato, suonando per loro brani di Rachmaninov su un registratore e parlando vivacemente della «cupa natura ritmica» delle Danze sinfoniche. Solo quando ebbe finito e il pubblico scoppiò in un applauso qualcuno emerse dalle quinte per scoprire i timpani e cominciare a disporre gli spartiti musicali sui leggii. In fondo al palco apparve una coppia di macchinisti con le arpe, poi entrarono i musicisti, chiacchierando tra loro mentre passavano, tutti, come l’oratore, vestiti in modo informale per la prova: un oboista con una felpa grigia col cappuccio, una coppia di contrabbassisti in jeans sbiaditi, e i violinisti, uomini e donne, tutti clienti, evidentemente, di Banana Republic. Mentre il direttore inforcava gli occhiali – un direttore ospite, Sergiu Commissiona, un anziano romeno con un pullover a collo alto, zazzera bianca in alto, espadrillas blu in basso – e mentre il pubblico, educato e puerile, si metteva ancora una volta ad applaudire, notai Coleman e Faunia che avanzavano lungo il corridoio, cercando un posto vicino al palco.
I musicisti, che stavano per subire la trasformazione da comitiva di gitanti apparentemente spensierati in fluida e possente macchina musicale, si erano già sistemati e stavano accordando gli strumenti quando la coppia – la donna bionda, alta, dal volto emaciato, e il bell’uomo asciutto dai capelli grigi, molto piú vecchio e non alto come lei, sebbene il suo passo fosse ancora quello elastico e leggero dell’atleta – si diresse verso due posti liberi tre file davanti alla mia e una mezza dozzina di metri alla mia destra.
Il pezzo di Rimskij-Korsakov era una fiaba melodiosa di oboi e flauti la cui dolcezza il pubblico trovò irresistibile, e quando l’orchestra arrivò alla fine della prima parte del programma tornarono a levarsi applausi entusiasti, come un’ondata d’innocenza, da quella folla di anziani. I musicisti avevano in effetti messo a nudo la piú giovane, la piú innocente delle nostre idee della vita, l’indistruttibile struggimento per come le cose non sono e non potranno mai essere. O cosí pensai mentre volgevo lo sguardo verso il mio ex amico e la sua amante scoprendo che non erano per nulla cosí strani o cosí umanamente isolati com’ero arrivato a vederli da quando Coleman era sparito. Non avevano affatto l’aria di persone smodate, e meno di tutti Faunia, i cui tratti yankee nitidamente scolpiti mi fecero pensare a una stanza angusta con le finestre, ma senza la porta. In quelle due persone non c’era nulla che sembrasse in lotta con la vita, o all’attacco, o sulla difensiva. Forse da sola, in questo ambiente poco familiare, Faunia avrebbe potuto non sentirsi cosí a suo agio come sembrava, ma con Coleman al fianco la sua affinità con quell’ambiente non sembrava meno naturale dell’affinità che aveva con lui. Là seduti, fianco a fianco, non avevano l’aria di una coppia di desperados, ma piuttosto di una coppia che aveva raggiunto una sua supremamente concentrata serenità, che non badava nel modo piú assoluto ai sentimenti e alle fantasie che la sua presenza poteva fomentare in qualunque parte del mondo, per non parlare della Berkshire County.
Mi chiedevo se Coleman l’avesse istruita in anticipo su come voleva che si comportasse. Mi chiedevo se, in tal caso, Faunia gli avesse dato retta. Mi chiedevo se queste istruzioni erano necessarie. Mi chiedevo perché Coleman avesse scelto di portarla a Tanglewood. Solo perché voleva ascoltare della musica? Perché voleva farla ascoltare a lei, e mostrarle i musicisti in carne e ossa? Sotto gli auspici di Afrodite, nel ruolo di Pigmalione e nell’ambiente di Tanglewood, voleva forse, il professore di lettere classiche in pensione, costringere una Faunia recalcitrante e trasgressiva a vivere come una civile e raffinata Galatea? Si era forse assunto il compito di educarla, influenzarla, si era assunto il compito di salvarla dalla tragedia della sua estraneità? Era Tanglewood un primo grande passo verso la trasformazione della loro riottosità in qualcosa di meno eterodosso? Perché cosí presto? Perché? Perché, quando tutto ciò che avevano ed erano insieme era nato e si era sviluppato dal sotterraneo e dal clandestinamente crudo? Perché curarsi di normalizzare o regolarizzare questa alleanza, perché fare addirittura il tentativo, andando in giro come una «coppia»? Poiché la pubblicità tenderà solo a erodere l’intensità, è questo, in realtà, che vogliono veramente? Che vuole, lui? Questo addomesticamento era ormai essenziale per la loro vita, o il fatto che fossero lí non aveva alcun significato? O era uno scherzo che stavano facendo, un atto destinato ad agitare, una deliberata provocazione? Sorridevano tra sé, quelle bestie carnali, o erano lí solo per ascoltare la musica?
Poiché non si alzarono per stirarsi o per fare quattro passi mentre l’orchestra riposava durante l’intervallo e sul palco veniva spinto un pianoforte – per il Secondo concerto per pianoforte di Prokof´ev – anch’io rimasi al mio posto. Faceva un po’ freddo sotto la grande tettoia, un fresco piú autunnale che estivo, anche se la luce del sole, fiammeggiando sul vasto prato, scaldava quelli che preferivano ascoltare e divertirsi dall’esterno, un pubblico in gran parte piú giovane di coppie sulla ventina e di madri con i bambini in braccio e di famiglie venute lí per un picnic che stavano già estraendo dai panieri la roba da mangiare. Tre file davanti a me Coleman, con la testa un po’ inclinata verso di lei, stava parlando tranquillamente, seriamente, con Faunia; ma di cosa, ovviamente, non sapevo.
Perché noi non sappiamo, no? Tutti sanno… Cosa? Perché le cose vanno come vanno? Cosa? Tutto ciò che sta sotto l’anarchia del corso degli avvenimenti, le incertezze, i contrattempi, il disaccordo, le traumatiche irregolarità che caratterizzano le vicende umane? Nessuno sa, professoressa Roux. «Tutti sanno» è l’invocazione del cliché e l’inizio della banalizzazione dell’esperienza, e sono proprio la solennità e la presunta autorevolezza con cui la gente formula il cliché a riuscire cosí insopportabili. Ciò che noi sappiamo è che, in un modo non stereotipato, nessuno sa nulla. Non puoi sapere nulla. Le cose che sai … non le sai. Intenzioni? Motivi? Conseguenze? Significati? Tutto ciò che non sappiamo è stupefacente. Ancor piú stupefacente è quello che crediamo di sapere.
Mentre il pubblico rientrava nella sala cominciai, caricaturalmente, a immaginare il morbo fatale che, senza che nessuno lo riconoscesse, era all’opera dentro di noi, dentro ciascuno di noi: a vedere i vasi sanguigni che si occludevano sotto i berretti da baseball, i tumori maligni che crescevano sotto i capelli bianchi con la permanente, gli organi che cedevano, si atrofizzavano, smettevano di funzionare, le centinaia di miliardi di cellule assassine che spingevano di nascosto tutto il pubblico verso l’inverosimile disastro che lo aspettava. Non riuscivo a trattenermi. Quella fantastica decimazione che è la morte viene a spazzarci via tutti. Orchestra, pubblico, direttore, tecnici, rondini, scriccioli… Pensate alle cifre per la sola Tanglewood tra il momento attuale e l’anno 4000. Poi moltiplicate questo numero per un altro numero infinito. L’incessante estinzione. Che idea! Quale maniaco l’ha concepita? Eppure, che bella giornata è oggi, un dono del cielo, un giorno ideale cui non manca nulla in un luogo di villeggiatura del Massachusetts che è già di per sé il piú innocuo e il piú bello della terra.
Poi, ecco apparire Bronfman. Bronfman il brontosauro! Mister Fortissimo! Bronfman viene a suonare Prokof´ev, a un ritmo tale e con una tale aria da gradasso che tutta la mia morbosità vola fuori dal ring. È un uomo considerevolmente massiccio nella parte alta del busto, una forza della natura mimetizzata dalla blusa di una tuta, uno che è arrivato al Music Shed dal circo dove esibiva i propri muscoli e che ora se la prende col piano: una sfida ridicola, per la gargantuesca energia in cui sguazza. Piú che all’uomo che lo suonerà, Yefim Bronfman somiglia a quello che dovrebbe trasportarlo. Non avevo mai visto nessuno gettarsi su un pianoforte come quel robusto barilotto di un ebreo russo con la barba di tre giorni. Quando avrà finito, penso, dovranno buttarlo via. Lo sta schiacciando. Non gli lascia nascondere nulla. Qualunque cosa abbia dentro dovrà uscire, e con le mani in alto. E quando accade, quando tutto è là fuori, e si spegne l’ultima eco dell’ultima vibrazione, anche lui si alza e se ne va, lasciandosi dietro la nostra redenzione. Ci saluta allegramente con la mano e sparisce; e anche se porta via con sé tutto il suo fuoco con un impeto non minore di quello di Prometeo, ora la nostra vita sembra inestinguibile. Nessuno morirà, nessuno … No, se Bronfman potrà dire la sua!
Ci fu un altro intervallo nella prova, e quando Faunia e Coleman si alzarono, stavolta, per uscire all’aperto, li imitai. Attesi che mi precedessero, non sapendo come avvicinare Coleman o – poiché sembrava che non gli interessassi piú di ogni altro dei presenti – se proprio dovevo avvicinarlo. Eppure sentivo la sua mancanza. E cos’avevo fatto? Il desiderio di un amico che provavo venne a galla proprio come durante il nostro primo incontro, e ancora una volta, per via di un certo magnetismo che c’era in lui, di un fascino che non ero mai riuscito a definire, non trovai un modo efficace di soffocarlo.
Tre o quattro metri dietro di loro, li seguii con lo sguardo mentre, mescolati a un gruppo di persone che procedevano strascicando i piedi, risalivano lentamente la pendenza della corsia verso il prato illuminato dal sole, Coleman rivolgendo ancora tranquillamente la parola a Faunia, con la mano tra le scapole di lei, e il palmo sulla spina dorsale per guidarla mentre le spiegava ciò che le stava spiegando, qualunque cosa fosse, a proposito di ciò, qualunque cosa fosse, che Faunia non sapeva. Una volta fuori, si incamminarono attraverso il prato, presumibilmente nella direzione dell’entrata principale e dello spiazzo al di là che era il parcheggio, e io non feci alcun tentativo di seguirli. Quando per caso mi voltai indietro, verso la tettoia, vidi nell’interno, sotto le luci del palco, gli otto bellissimi contrabbassi allineati e appoggiati sul fianco là dove i musicisti li avevano lasciati prima di uscire per l’intervallo. Perché anche questo dovesse ricordarmi la morte di tutti noi, non saprei dire. Un cimitero di strumenti in posizione orizzontale? Non avrebbero potuto, piú giocondamente, farmi venire in mente un branco di balene?
Ero lí sul prato a stiracchiarmi, godendomi il tepore del sole sulle spalle ancora per qualche istante prima di tornare al mio posto per ascoltare il Rachmaninov, quando li vidi tornare indietro – evidentemente si erano allontanati dalla tet...

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