L'arte della gioia
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L'arte della gioia

Goliarda Sapienza

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L'arte della gioia

Goliarda Sapienza

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L'arte della gioia è un libro postumo: giaceva da vent'anni abbandonato in una cassapanca e, dopo essere stato rifiutato dai principali editori italiani, venne stampato in pochi esemplari da Stampa Alternativa nel 1998.
Ma soltanto quando uscí all'estero - in Francia, Germania e Spagna - ricevette il giusto riconoscimento.
Nel romanzo, tutto ruota intorno alla figura di Modesta: una donna vitale e scomoda, potentemente immorale secondo la morale comune. Una donna siciliana, una «carusa tosta» in cui si fondono carnalità e intelletto, che attraversa bufere storiche e tempeste sentimentali protetta da un infallibile talismano interiore: «l'arte della gioia». Modesta nasce il primo gennaio del 1900 in una casa povera, in una terra ancora piú povera. Ma fin dall'inizio è consapevole, con il corpo e con la mente, di essere destinata a una vita che va ben oltre i confini del suo villaggio e della sua condizione. Ancora ragazzina è mandata in un convento e da lí, alla morte della madre superiora che la proteggeva, in un palazzo di nobili. Qui il suo enorme talento e la sua intelligenza machiavellica, le permettono di controllare i cordoni della borsa di casa, e di convertirsi in aristocratica attraverso un matrimonio di convenienza. Tutto ciò senza mai smettere di sedurre uomini e donne di ogni tipo. Amica generosa, madre affettuosa, amante sensuale, Modesta attraversa la storia del Novecento con quella forza che distingue ogni grande personaggio della letteratura universale.

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2010
ISBN
9788858400258

Parte seconda

40.
Ma le promesse di libertà che le onde e il vento andavano ripetendo, si frantumavano lungo i muri dei palazzi fioriti di rose e pampini di lava tagliente. Non c’era libertà in quelle strade, e vicoli, e piazze ambigue, traboccanti di soli uomini con pagliette e bastoni arroganti, spiati da ombre femminili nascoste fra le tendine delle finestre o nel buio dei bassi sempre socchiusi. Il palazzo di via Etnea spalancava una sequela di saloni ostili dove, due giorni dopo il nostro arrivo, una processione di donne impeccabilmente vestite, con guantini bianchi o neri e cappellini fioriti, cominciò a sfilare davanti a noi aprendo e chiudendo ventagli e offrendo protezione e consigli.
– Oh, Gesummaria! No! da sole all’Opera? no! C’è il nostro palco, nipotina cara...
– Ma assolutamente! Già s’è parlato molto della vostra assenza di domenica! Certo, eravate stanche del viaggio, certo. Ma mi raccomando colombelle, domenica alla messa di mezzogiorno. È tradizione. Assolutamente.
– Scendere al caffè da sole? Oh no, è inammissibile cugina, inammissibile!...
– Certo, è proprio una disgrazia non avere un fratello, un marito!
– Al cinematografo? Quella diavoleria moderna? Oh no! Noi non andiamo mai, eccetto in qualche rara occasione e sempre a condizione che qualcuno dei nostri uomini si sia sincerato prima che non si tratti di una pellicola troppo licenziosa...
– Una pellicola che tratta di storia, dite, cugina? Macché! Storia come paravento a scene indecorose, donnine scollacciate, baccanali, lasciamo stare! Tutti parlano ancora di quel Cabiria! Una vera indecenza! E quelli del parlamento che si riempiono la bocca con la scusa della libertà. Ma che c’è da aspettarsi con tutti quei socialisti al governo? E il nostro Santo Padre prigioniero! Intanto il malcostume dilaga anche nelle nostre case! Ieri per poco non mi prendeva un colpo a sentire mio nipote, a soli quattordici anni, che generazione arida di sbandati, egoisti sta venendo su!... che dicevo? Ah sí, per poco non mi venne un colpo a sentire mio nipote che spingeva sua sorella a tagliarsi i capelli come fanno tutte quelle forsennate del Continente, le suffragette. Mio marito, che le ha viste a Milano, dice che uomini sembrano con quei capelli corti e senza busto. Ci manca solo che si mettano i pantaloni e amen! Tutto si sta sovvertendo, tutto!...
– Se mi posso permettere, amiche care, voi leggete troppo. Fa male agli occhi. Mio zio medico asserisce che leggere fa venire le rughe... Gaia ve lo permetteva? Eh già, sempre originale! Donna di grande valore, non dico, ma troppo, troppo...
– Domenica scorsa alla messa il baronello Ortesi ha mostrato un vero interesse per la nostra cara Beatrice. Certo non sono di vecchia casata, ma ricchi sono questi baroni! Bisognerebbe farlo incontrare con Beatrice... Oh no! Non qui! Voi donne sole siete e non potete ricevere uomini. Si potrebbe approfittare della bontà della cugina Esmeralda che gentilmente si è offerta di approntare un tè. Eh! non sarebbe male se entrasse un uomo in questa casa...
Beatrice impallidiva, e io sempre piú oppressa da cifre e conti non dormivo piú. Rotolandomi nel letto sbattevo alle pareti di quella prigione di pagamenti, imposte fondiarie, patti d’affittanza... Campieri e sovrastanti faticavano a riscuotere i fitti, i contadini alzavano la testa, la campagna non rendeva, i salari triplicati. Per leggere qualche libro avevo sacrificato ore e ore di sonno. Il pianoforte taceva. Il baule di Jacopo, ancora chiuso, giaceva nella stanza accanto dimenticato in un angolo. In che trappola ero caduta? Portavo avanti quella specie di regno immenso che faceva acqua da tutte le parti. E quella casa abnorme tenuta come un palazzo reale? «Suggerirei a voscenza di rinfrescare le tende a primavera» umilmente il maestro di casa aveva comandato. Il che voleva dire rifarle. La villa in campagna sempre aperta, funzionante come un albergo, in attesa del ritorno di tutti quei morti; venti bocche da sfamare, venti salari da sborsare ogni mese. Non dormivo piú. Anche Gaia soffriva d’insonnia. Capivo adesso il suo sguardo ossessionato, quel suo stare sempre chiusa nello studio intenta a combattere quella battaglia impossibile. A che cosa si era sacrificata? Al dovere di un nome da tenere alto nella considerazione degli altri o ai propri occhi? Infatti tutti quegli avvocati, banchieri, notai avevano come lei quello sguardo sordo, fisso in un’unica direzione. Carmine no. Carmine sul suo cavallo, i ricci bianchi, immobili nell’aria, mi correva incontro nel ricordo ridendo... Da mesi non lo vedevo che circondato da notai e avvocati chiusi nei loro panciotti e giacche nere attillate. Appena poteva, fuggiva. Anch’io dovevo fuggire da quelle mura e da quegl’uomini che tanto avevo ammirato quando tenevo l’amministrazione al Carmelo, ma che ora mi apparivano come carcerati di una prigione che loro stessi si erano costruiti giorno per giorno. «Voscenza principessa, se mi posso permettere, lei uomo doveva nascere». Un tempo quella frase mi sembrava il piú alto riconoscimento che si potesse avere dagli altri, ma adesso il terrore di diventare come Gaia mi opprimeva il torace e mi levava il fiato.
La città insegnava. Quel potere di cupole maestose, di palazzi e torri rapaci appena ingentiliti da trine di cancelli sdegnosi, sbarrava il passo al formicolio miserabile che si dissanguava a servire e sorridere, ricordando a tutti, ricchi e poveri, di accumulare denaro per combattere la paura della morte, una parola che in realtà non è piú paurosa della parola malattia, schiavitú, tortura. Non mi sarei piú confrontata con la morte, con quel traguardo che non piú temuto fa eterna ogni ora goduta pienamente. Ma bisognava essere liberi, approfittare di ogni attimo, sperimentare ogni passo di quella passeggiata che chiamiamo vita. Liberi di osservare, di studiare, di guardare dalla finestra, di spiare fra quel bosco di palazzi ogni luce che dal mare si insinua fra le imposte... Qualcuno aveva spento tutti i lampioni, la sirena del porto salutava una nave invisibile, uno dopo l’altro s’alzava il fragore di saracinesche. Un grido di pescivendolo saliva dai vicoli che tagliavano via Etnea spezzando il richiamo dell’uomo della neve, che evocava la calura per vendere la «saliva del Monte»... Ma tutto questo non lí, non in quella via elegante di portoni di banche pesanti e sontuosi come bare. Avevano spalancato i battenti del Banco di Sicilia, ed ecco il primo impiegato attraversare la strada. Non era un piccolo impiegato, lo si vedeva dal taglio perfetto del vestito scuro e dal bastone agile e lucido. Quell’uomo aveva sicuramente lo stesso sguardo fisso e duro dell’avvocato Santangelo e si preparava alla sua giornata di superiore, lieto di dare ordini e umiliare. No, non sarei diventata l’impiegata del mio patrimonio. Per prima cosa quel giorno non avrei ricevuto nessuno.
Jacopo col suo sorriso ironico mi chiama dal fondo del baule, devo aprire quel baule. Un tempo mi ha parlato di ricchezza e povertà, ma troppo giovane ero allora. In qualche modo mi ha detto che sia l’una che l’altra possono dare vita e morte: «Dal Carmelo, 27 marzo millenovecentododici. Domani parto. Riprendo la strada. Non c’è vita in queste menti obliterate dall’orgoglio. Mi sento un vigliacco a lasciare tutto il peso sulle spalle di Gaia. Ma a che serve combattere contro la storia? Il mio dovere sarebbe di chiudermi con lei in questa prigione e seguirla nella sua assurda speranza di mantenere in piedi una mentalità e una ricchezza rubata al sudore degli umili, e che presto sarà ingoiata dalla borghesia forte di un’avidità nuova. E se non sarà lei... uno spettro si aggira per l’Europa. Mi dichiaro un vigliacco, ma riprendo la mia strada. L’unica amarezza e colpevolezza che porterò con me, fardello pesante, è Beatrice. Bisognerebbe prepararla alla vita, farla studiare; il nuovo mondo sarà dei medici, degli ingegneri, dei chimici. Parto, e il resto è silenzio».
Beatrice diceva che Jacopo sarebbe stato bello come Ignazio se non avesse avuto un’andatura curva... Curvo sotto il suo fardello, Jacopo cammina per strade a me sconosciute, lunghe strade buie senza alberi né case. Dove andava?
– Vedi, Beatrice, fa sempre cosí. Mi parla e poi si allontana.
– Non dirlo, mi fa paura! Dio, che paura Modesta! Ma che t’ha detto?
– Tante cose buone e giuste, che vuole per la tua e la mia felicità.
– Oh, Dio! Adesso basta, dormiamo. Abbracciami! Ho paura di vederlo anch’io.
Beatrice si stringe a me. Mi piace sentire il suo tremore: come nasce, come piano piano si placa fra le mie braccia, finché il cadere della mano o la pressione della sua testa sul mio petto mi precipita con lei in un sonno profondo senza ricordi. A stare a quello che mi dissero, dormii due giorni e due notti.
41.
– Vendo tutto. Ho detto che vendo tutto. Il palazzo l’affitto alla banca: l’avvocato Santangelo è d’accordo, tramutare tutto in oro e qualche titolo. Poi si vedrà. Fra poco ci vorrà una valigia di carta per comprare un pezzo di pane. La villa al mare basterà, e sarà anche un beneficio per Ippolito: qui non può scendere per le strade e la sua salute ne risente. Al Carmelo s’era abituato a lavorare col giardiniere, a stare all’aria aperta, a...
– E un errore è stato! La voce sulla sua deformità s’è propagata per i campi. Altro è immaginare e altro è vedere, figghia, e ne avete perso di autorità! Se poi, come mi dici, a questo primo errore vuoi aggiungere anche quello di ritirarti in una piccola casa senza rappresentanza, difficile sarà mantenerla l’autorità.
– Ma io non voglio mantenere nessuna autorità, Carmine. Forse non sono stata chiara. Voglio disfarmi anche delle terre.
– Anche delle terre? E no! che non avevo capito. Io e la principessa buonanima ti abbiamo dato fiducia, ma vedo che donna sei e pigra. Ti sei già stancata di lavorare?
– Sono fatti miei. Tu non puoi capire. Non mi piace questo lavoro. Io voglio studiare!
– Studiare? Che s’ha da sentire! E che vuol dire studiare?
– Vedi che non puoi capire? Allora pigra sono e donna, mettila come vuoi.
– Non parlo piú. Ma quando sapranno che vendi, si passeranno la voce e non troverai nessuno che ti offrirà il valore reale della terra: una miseria ti daranno, come fu il mese scorso col feudo di Suormarchesa, quello del territorio di Serradifalco: all’asta pubblica s’è dovuto vendere e don Calò se l’è portato a casa per quattro soldi.
– E tu non aspettare l’asta pubblica e l’arrivo di don Calò. Compra tu. Porta a termine il piano che hai da vent’anni.
– Vedo che astuta sei. Ma io non ho rubato, mi sono preso quello che mi spettava col lavoro, mentre il principe e i suoi figli, non è per parlare male dei morti, giocavano a studiare coi libri e a guardare le stelle. E poi l’ho fatto per i miei figli.
– I tuoi figli? Quali figli?
– Due figli c’ho... non lo sapevi?
– E come potevo saperlo se non me l’hai detto?
– Io te lo dovevo dire? Si guarda, figghia, s’ascolta. Come i signori sei diventata. Sempre persa dietro a cose inutili... In gran pena sono stato in questi quattr’anni di guerra. Ma come vuole Dio, Mattia tornò quando tu partoristi, e ora mi torna Vincenzo ca per disperso me lo dettero. Anche tu c’hai un figlio, ca te lo scordasti? Vendendo tutto che gli lasci? Puoi avere pane per dieci anni, venti, ma la terra serve per dare uno stato ai figli. E tu un figlio hai!
– È anche figlio tuo.
– Non porta il mio nome!
– Parli da quel vecchio che sei, il «nome», lo «stato»! Mio figlio si aprirà la strada con le sue mani. Noi giovani siamo diversi.
– Sarà! Ma come dici tu, io uomo all’antica sono, e per me prima viene il mio dovere di padre. E già che siamo in discorso: i miei figli non devono sapere le mie debolezze. Una bambina sei, solo pochi anni ti togli con Mattia.
– E allora?
– Non ci possiamo vedere piú come prima. I miei figli non devono sapere.
Mi buttai in avanti per colpirlo, ma questa volta non si fece picchiare. Con la mano mi fermò e, tenendomi lontana, disse con una voce gelida che non gli conoscevo:
– Ferma là carusa, è passato il tempo della spensieratezza! Quieta hai da stare, intesi? E dimenticare. Carmine ha dimenticato. Sempre ai suoi ordini, principessa.
– Questo dobbiamo portarlo assolutamente, è un quadro unico, e anche questo paesaggio, guarda! Anche se a te non piacciono molto, dobbiamo tenerli. Li metteremo tutti in una stanza. Zio Jacopo diceva che col tempo avrebbero acquistato un valore inestimabile. Per fortuna fece una nota di quelli che lui indicava come preziosi. Sapeva tutto della pittura, della scultura, e anche dell’architettura. Che liberazione, Modesta! Hai visto che m’è tornato il colore come tanto volevi, e che sono ingrassata anche? Su, abbracciami e sorridi. Proprio non posso vederti cosí triste. Speriamo che questa malattia ti passi presto. Cosa ti ha detto il medico... anemia? Ti ha detto cosí? Ho tanta voglia di prendere lezioni di guida con te. Che bella idea hai avuto di vendere quel carro funebre e comprare quell’automobile cosí piccola. Senza autista saremo piú libere di andare dove vogliamo, guideremo noi, pensa che bellezza! Ma come stai? Meglio? Vieni, perché c’è un tavolo impero proprio bello che vorrei portare con noi, ma voglio il tuo parere.
Avete sentito la voce di Beatrice? Carmine se n’è andato e lei ha intuito il vuoto nel quale sono caduta e che ho bisogno di lei.
Era mia intenzione fino a qualche minuto fa, di fronte a...

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