Respiro corto
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Respiro corto

Massimo Carlotto

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Respiro corto

Massimo Carlotto

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Dopo averci raccontato come nessun altro i misfatti del Nordest italiano, e averci appassionato con le indagini dell'Alligatore, Massimo Carlotto ha deciso di allargare lo sguardo, e andare al cuore del crimine dei nostri tempi, globale e senza frontiere. Con i pregi che l'hanno fatto amare da tanti lettori: lo stile essenziale, la perfetta padronanza dell'intreccio, i personaggi che nella loro amoralità e crudeltà riescono ad affascinare, perché li sentiamo veri, umani nella loro disumanità. O nelle loro ossessioni, come la straordinaria coppia della poliziotta B.B. e del boss Grisoni, unici a contrastare l'avvento della Dromos Gang. *** Come una danza leggera e sapiente, ma implacabile, uno tra i più amati scrittori italiani ci conduce nella orgogliosa arroganza del nuovo crimine. E racconta da par suo una grande storia, che spazia dai boschi radioattivi di Cernobyl ai caveau delle banche svizzere. Con una irresistibile gang di privilegiati.
Zosim, Sunil, Giuseppe, Inez. La Dromos Gang. Si sono conosciuti studiando Economia a Leeds. Brillanti, impeccabilmente vestiti, del tutto amorali ma tra loro fraterni, quattro giovanissimi con pesanti famiglie alle spalle piombano su Marsiglia da ogni parte del globo, per prendersela tutta. Sono convinti che il mondo è di chi corre veloce come il denaro, di chi corre più veloce di tutti, e il resto non merita di vivere. È subito guerra con i vecchi arnesi: un tenace boss corso di lunga carriera, e una poliziotta in disgrazia che ha un'idea tutta sua della giustizia. Mentre un narcotrafficante allo sbaraglio, che porta il nome fatale di un grande calciatore, proverà a giocare la sua esilarante, tragica partita.
E Marsiglia, il luogo oggi dello scontro criminale per eccellenza, dove i conflitti si risolvono a colpi di kalashnikov, diventa l'epicentro di un sisma vastissimo, dalle conseguenze del tutto imprevedibili.

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Information

Uno

51.41˚N 30.06˚E
I lupi passarono sotto la grande ruota panoramica dirigendosi sottovento verso la giostra dell’autoscontro. Correvano veloci e sicuri nell’erba alta che iniziava a ingiallirsi per l’arrivo dell’autunno. Presto il giallo avrebbe virato al rosso insano dei tronchi degli alberi e a quello scuro, come sangue raggrumato, della ruggine che copriva la ferraglia del luna park. Solo la neve avrebbe avuto pietà di quel parco abbandonato, ricoprendolo di una coltre candida per alcuni lunghi mesi. I lupi si acquattarono fra le vecchie automobiline elettriche osservando i cervi che si abbeveravano a una grande vasca. Un tempo, doveva essere stata una fontana ricca di spruzzi e giochi d’acqua. I maschi ogni tanto alzavano il capo adornato da lunghe corna per annusare l’aria e fiutare i predatori, ma si riempivano le narici di un venticello di ponente, greve di odori della città fantasma di Pripjat´.
All’improvviso tutti gli animali si irrigidirono, drizzando le orecchie. Un rombo sordo si stava avvicinando a velocità sostenuta. Tre fuoristrada carichi di uomini armati irruppero nel piazzale. Grida, risate e spari. Due cervi caddero sotto i colpi, gli altri fuggirono via veloci inseguiti dalle pallottole. I mezzi si fermarono e gli uomini saltarono giú dai cassoni. La maggior parte indossava tute mimetiche militari ed era armata di fucili mitragliatori e pistole che spuntavano dai cinturoni. Dalle giacche ciondolavano rilevatori di radiazioni. Non sembravano affatto cacciatori. Nemmeno quelli che erano scesi dal pick-up piú nuovo e costoso, sfoggiando autentici ed eleganti indumenti inglesi e tenendo fra le braccia costosi fucili intarsiati muniti di cannocchiali.
Uno con la tuta appoggiò a terra il kalashnikov, staccò il rilevatore e lo avvicinò ai cervi abbattuti. Scosse la testa quando lesse il numero apparso sul display.
Per ultimo scese un giovane particolarmente ben vestito. Non doveva avere ancora trent’anni. Ai piedi portava scarpe italiane fatte a mano e il cappotto di cachemire si intonava alla sciarpa. Si guardò attorno e notò subito i lupi, che non si erano mossi di un millimetro e osservavano con curiosità gli uomini che stavano scuoiando i cervi. Zosim Kataev pensò che i lupi di Černobyl´ non avevano piú paura dell’uomo. Si guardò bene dall’avvertire gli altri della loro presenza. Non vedeva l’ora che la battuta terminasse per dedicarsi al vero motivo che lo aveva portato a Pripjat´.
Fu uno degli autisti, spedito a prendere bottiglie di vodka, a scorgere i lupi. I cacciatori imbracciarono i kalashnikov ansiosi di aprire il fuoco, ma Vitaly Zaytsev, che tutti chiamavano pakhan, alzò la mano.
– I lupi meritano rispetto. Sono coraggiosi, – disse in tono solenne estraendo un revolver dalla giacca. – E assomigliano maledettamente ai cani degli sbirri.
Tutti, eccetto Kataev, sghignazzarono di gusto, impugnando le pistole. Avanzarono verso i lupi, che continuarono a rimanere immobili fino a quando il pakhan non prese la mira e tirò il grilletto, fallendo il bersaglio di almeno un metro. Solo allora gli animali iniziarono ad allontanarsi, trotterellando con calma lungo la strada che portava all’uscita del parco.
L’inseguimento non durò a lungo. I lupi si inoltrarono fra le vie di un vicino quartiere e si infilarono ordinatamente nell’androne di una scuola. «La loro tana», pensò Zosim Kataev. Da quando gli abitanti erano stati evacuati dopo l’incidente alla centrale nucleare, la natura aveva iniziato a riprendersi la città. Centimetro dopo centimetro. Erano molti gli animali che avevano scelto di vivere nei palazzi abbandonati. Quando era venuto la prima volta, la sua guida, uno dei pochi che aveva deciso di tornare a Pripjat´, gli aveva raccontato divertito che aveva dovuto sloggiare dal salotto una famigliola di orsi.
I cacciatori, eccitati, stapparono le bottiglie di vodka che girarono di mano in mano. Lunghe sorsate e dorsi delle mani passati lentamente sulle labbra. Kataev osservava pensoso, cercando di nascondere il disgusto. Non se lo poteva permettere. Si fece versare del tè bollente da uno degli autisti, preparandosi ad assistere a un’inutile strage. Il pakhan e i suoi luogotenenti entrarono per primi, seguiti dagli uomini con le mimetiche.
Attraverso le grandi finestre dei corridoi, dove un tempo si aggiravano ordinati alunni e insegnanti, Kataev li vide irrompere nelle aule sfondando le porte a calci, con la stessa tattica usata nelle operazioni di polizia. Si coprivano a vicenda come se i lupi fossero armati a loro volta. Nel vano tentativo di aprirsi un varco, una femmina disperata colpí con le zampe il vetro di una finestra, ma fu abbattuta con una decina di proiettili.
Dal bagno dei professori, un maschio balzò sulla schiena di un cacciatore, ma quello a fianco lo fulminò piantandogli un paio di pallottole nel cranio.
Spari, grida e risate si susseguirono per un’altra decina di minuti. L’ultimo lupo sopravvissuto salí le scale con pochi salti e sbucò sul tetto. Guardò in basso cercando una via di fuga e incrociò gli occhi di Kataev. Per un lungo attimo rimasero a fissarsi, poi l’animale si girò e si sedette sulle zampe posteriori ad attendere la morte. I cacciatori si fermarono ansimanti a una decina di metri. Il primo colpo era privilegio del pakhan, che questa volta non fallí. L’impatto dei proiettili fece volare l’animale dal tetto. Gli autisti si lamentarono che la pelliccia era ormai piena di buchi. Caldi cappelli e guanti, adatti all’inverno che stava arrivando, gettati nel cesso.
Vitaly Zaytsev uscí dall’edificio e si avvicinò a Kataev. Col mento indicò la carcassa precipitata dal tetto. – Un tempo erano grandi e maestosi. Ora sono piccoli e brutti. E sfacciati.
– Per non estinguersi si sono adattati a vivere in questo inferno, – ribatté Kataev.
– Lo abbiamo fatto anche noi. Siamo sopravvissuti ai comunisti e ora ci arricchiamo con la democrazia. Il nostro inferno è finito, Zosim.
Kataev pensò che ne erano convinti anche quei lupi, ma si guardò bene dal contraddire il suo capo e cambiò discorso. – Dovrei incontrare quei funzionari di cui ti ho parlato, mi spiace abbandonare questa bella battuta di caccia, ma…
Vitaly sorrise e gli diede un buffetto. – Vai pure, e con me puoi fare anche a meno di fingere di divertirti. Lo so che tu pensi solo agli affari.
Il pakhan si allontanò di qualche passo, poi si girò. – Stai attento ai funzionari, un tempo appartenevano all’apparato del partito e sono infidi e disonesti.
Zosim annuí e Zaytsev raggiunse gli altri cacciatori che lo attendevano per farsi immortalare a fianco alla catasta di lupi insanguinati. Si abbracciarono fraternamente e qualcuno si scoprí la mano o l’avambraccio per mettere in risalto un tatuaggio a cui teneva parecchio.
Nessuno chiese a Zosim di unirsi al gruppo. Lui non ne faceva parte.
Una trentina di minuti piú tardi, Kataev, a bordo di un fuoristrada Uaz con lo stemma delle Nazioni unite, si addentrava nella foresta per raggiungere una zona di deforestazione. Boscaioli tagiki, troppo sporchi e laceri per i suoi gusti, abbattevano gli alberi con potenti motoseghe sotto lo sguardo attento di capisquadra russi. I tronchi, ripuliti grossolanamente, venivano caricati dalle gru sui pianali di grandi camion. Per anni, dopo l’esplosione della centrale nucleare, il legname contaminato era stato sepolto in profonde trincee con l’unico risultato di inquinare le falde acquifere. Un altro errore. L’ennesimo. Era stato sbagliato tutto. Prima e dopo. Per incuria, inefficienza, ignoranza e corruzione. Ora un progetto internazionale finanziava l’abbattimento degli alberi e il loro smaltimento da parte di aziende specializzate. Quella rappresentata da Zosim Kataev aveva vinto l’appalto senza incontrare alcuna difficoltà.
Un funzionario aprí una mappa della zona e la distese sul cofano del fuoristrada. Il giovane ben vestito era molto diverso ora. Per nulla annoiato, dava indicazioni precise con un tono che non ammetteva repliche. Si lamentò delle condizioni di salute dei lavoratori tagiki.
– Sono lenti perché sono denutriti e la produzione ne risente, – disse. – E se continuate a derubarli in modo cosí evidente qualcuno se ne accorgerà e avremo dei problemi. I miei saranno insignificanti rispetto ai vostri.
I funzionari e i capisquadra si scambiarono sguardi preoccupati.
– Sono tagiki, – si giustificò il responsabile del personale, – ne arrivano continuamente.
– Ma ogni nuovo lavoratore deve imparare a tagliare e ci impiega tra i sette e i dieci giorni, – ribatté Zosim. Indicò con un gesto lento e studiato la foresta che li circondava. – E noi abbiamo bisogno di boscaioli veloci ed efficienti perché tra un po’ arriva l’inverno, e quando la neve sarà troppo alta per usare la sega, qui ci dovrà essere una bella pianura.
Zosim Kataev rimase in silenzio il tempo necessario perché il messaggio venisse recepito con assoluta chiarezza, poi riprese a organizzare il lavoro. I funzionari erano stupiti della sua competenza e dovettero ricredersi sul proposito di turlupinare quel giovanotto dall’aria cosí perbene.
Due elicotteri apparvero all’orizzonte e uno iniziò a prepararsi per l’atterraggio. Kataev infilò la mano nel cappotto, estrasse delle buste e cominciò a distribuirle. Non erano tutte uguali. Quelle piú spesse finirono nelle tasche dei pezzi grossi. Tutti ringraziarono con brevi cenni del capo e lui non si dilungò nei saluti. Mentre si dirigeva verso l’elicottero incrociò lo sguardo di un giovane tagiko. Aveva gli stessi occhi del lupo che lo aveva fissato dal tetto. Zosim si fermò un attimo. Il ragazzo schiuse appena le labbra mostrando denti da vecchio e gengive infette. Zosim pensò che non avrebbe superato l’inverno.
L’elicottero si alzò in un turbine di foglie e segatura. Una manciata di secondi e il giovane tagiko diventò sempre piú piccolo. Poi scomparve.
– Tutto bene? – domandò Vitaly Zaytsev.
– Sí, nessun problema, – rispose distratto Zosim. – Ma dovrò fermarmi a Kiev per mettere a punto qualche dettaglio.
– Sbrigati a tornare, – ordinò il boss indicando gli altri due passeggeri con un vago gesto della mano. – Vogliono capire cosa stai combinando.
Kataev sorrise per la prima volta quel giorno. – Sarai fiero di me, pakhan.
Tre giorni piú tardi la Mercedes nera che aveva prelevato Zosim Kataev a casa si fermò davanti all’entrata dell’ex centro atletico dell’Armata rossa che Zaytsev aveva scelto come base della sua organizzazione. Foma, l’autista, sorrise alla telecamera e il pesante cancello iniziò ad aprirsi.
Zosim raccolse gli appunti che aveva riletto fino a quel momento e li ripose nella borsa. Foma lo guardò dallo specchietto. Aveva poco piú di venti anni. – Ti aspetto qui? – domandò mentre accendeva la radio e la voce di Glukoza, che cantava Svad´ba, invadeva l’abitacolo.
Zosim sorrise. – Tu sei malato. Non ascolti altro.
– Sono innamorato. È diverso.
– Per corteggiarla dovrai trasferirti a Mosca e convincere il marito a farsi da parte.
– Quello è il problema minore. È solo un magnate. La faccenda seria è convincere il pakhan, – sospirò. – Allora che faccio? Ti aspetto?
– Vatti a fare un goccio con i ragazzi. Ne avrò per un po’.
Zosim attraversò un atrio affrescato da sbiadita propaganda sovietica, quindi la palestra dove uomini a petto nudo coperti di tatuaggi luccicanti di sudore si accanivano a sollevare pesi. Imboccò una porticina e salí delle scale di servizio che lo condussero a un corridoio controllato da due guardie armate. Passò a fianco a una stanza dove tre uomini infilavano mazzette di rubli, dollari ed euro nelle macchine contasoldi, raggiunse un salone enorme dove un tempo ballavano gli ufficiali dell’Armata rossa e si diresse verso una grande porta blindata guardata a vista da due gorilla di mezza età, armati di mitragliette. Il pakhan li preferiva esperti, magari meno svelti ma con l’occhio allenato. I passi di Zosim echeggiavano nella sala ma loro non alzarono mai lo sguardo e neppure si sforzarono di salutarlo. Zosim non era mai stato in galera e non aveva un solo tatuaggio. Zosim, per loro come per gli altri, non aveva storia. Il ragazzo era comunque un pezzo grosso e quando fece capire che non avrebbe abbassato la maniglia, uno dei due dovette allungare la mano e accontentarlo.
Oltre al capo, seduto alla sua enorme scrivania, c’erano altri sei uomini ad attenderlo accomodati su poltrone e divani. Avevano la stessa età di Vitaly, appartenevano alla stessa generazione di mafiosi che si era impadronita di San Pietroburgo dopo i regolamenti di conti del 2005. Alcuni avevano partecipato alla battuta di caccia a Pripjat´ vestiti come possidenti inglesi, gli altri non li aveva mai visti. Bevevano, fumavano e mangiavano tartine chiacchierando a voce alta di cose senza importanza. Si degnarono di guardarlo solo quando Vitaly si alzò per andare a salutarlo con un abbraccio.
– Ecco il nostro Zosim che ora ci spiegherà come faremo a diventare piú ricchi.
Ma per rispetto dell’etichetta, Kataev dovette accettare l’ospitalità del pakhan e unirsi alla conversazione. Si limitò a una tazza di tè e a fingere di ascoltare con interesse aneddoti e pettegolezzi di quei vecchi tagliagole. Zosim li osservava celando il suo disprezzo dietro educati sorrisi. Li considerava sanguinari trogloditi tatuati, superati dalla storia. Perfino Hollywood li aveva raccontati con stra...

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