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Una ragazza della Resistenza a una ragazza di oggi

Marisa Ombra

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Una ragazza della Resistenza a una ragazza di oggi

Marisa Ombra

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Come è potuto accadere che lo slogan femminista «il corpo è mio e lo gestisco io» si sia ribaltato in una forma di schiavitú volontaria?
Una lettera appassionata e delicata sull'adolescenza, la scoperta del corpo, del sesso e della libertà.
Senza moralismo, con rispetto e amore. Una donna di 87 anni, ex partigiana, scrive una lunga lettera a una ragazza di 14 anni incontrata in un parco. Una lettera sulla libertà, la bellezza e la dignità delle donne. L'autrice racconta la guerra partigiana, la propria anoressia, i rapporti tra ragazzi e ragazze in montagna, e il senso di pericolo e futuro da cui tutti si sentivano uniti. Il ricordo della lotta di liberazione delle donne si contrappone, cosí, al disagio di vedere che, oggi, per molte ragazze, libertà significa libertà di mettere all'incasso la propria bellezza.

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2012
ISBN
9788858405758

Undici

Il momento in cui stai uscendo dall’infanzia, lo riconosci facilmente. All’improvviso vuoi essere indipendente, vuoi provare a vivere secondo i tuoi desideri e non piú secondo ciò che ti viene indicato, senti di poterti assumere delle responsabilità e hai fretta di farlo. Anche a costo di sbagliare, pensi.
Vuoi, in sostanza, decidere di te stessa, essere libera.
Che cosa sia la libertà non lo sai ancora. Per ora è un impulso. Un impulso tanto piú potente quanto pochi sono i tuoi anni. Quanto contenga questa parola lo imparerai a poco a poco.
Io, per esempio, fino al momento di praticarla, la libertà l’avevo associata a circostanze assolutamente fuori dell’ordinario e a frasi drammatiche, come «morire per la libertà». Pensavo a grandi gesti eroici. Chi aveva scelto la libertà doveva essere una persona speciale, che non aveva paura di niente e si giocava la vita – cosí leggevo nei libri – con grande sprezzo del pericolo. Doveva avere grandi ideali, forti passioni, un cuore pieno di ardimento.
Ho imparato a poco a poco che la libertà è una condizione naturale. Chiunque, consapevolmente o no, aspira a vivere libero. Gli impedimenti possono essere tanti e di varia natura, ma dipende da ciascuno, dalla propria volontà, dalla forza e dal coraggio, se affrontarli o meno e in che modo. La libertà è faticosa. Per questo molte persone, come le ragazze di cui abbiamo parlato, preferiscono l’illusione.
Ci sono momenti in cui il bisogno della libertà è specialmente acuto, come acuta, in certe situazioni, è la percezione che stai vivendo libera. In quei momenti speciali, è come se ogni particella del tuo corpo scoppiasse di felicità.
A me è capitato di sentirmi straordinariamente libera in momenti e per motivi che in sé non avevano niente a che fare con l’eroismo. Mi faceva sentire libera, per esempio, il fatto di camminare da sola lungo i crinali e i sentieri delle Langhe. Quel camminare aveva sempre un contenuto di pericolosità, dal momento che le circostanze erano quelle di una guerra. Ma se ripenso a quei momenti, non mi viene in mente il pericolo, piuttosto la solitudine. Che trovavo bellissima, mi dava un senso di forza, di proprietà di me stessa, di rapporto intimo con il paesaggio intorno. E anche di rapporto solido fra me stessa e il mondo al quale appartenevo in quei mesi. Qualche volta mi veniva da cantare.
Immagino che ci si senta cosí ogni volta che si è in pace con se stessi, possibilmente in luoghi che corrispondano alla felicità di quel sentire.
Il luogo, in quel momento, erano le Langhe. Che d’autunno si mostrano in tutta la loro magnificenza. I colori, quelli del bronzo dorato dei castagneti, il rosso scuro della vite quando finisce l’estate, quasi un’anticipazione dei celebri vini rossi che stanno per essere prodotti – il verde delle pinete. All’alzarsi delle nebbie, appare, come una cornice fantastica, la catena delle Alpi.
Essere sola ha costituito per me sempre una forza. Quando il paesaggio non è stato piú quello magnifico delle Langhe, ma una qualsiasi strada di una qualunque città, e la vita si è presentata meno pericolosa, ma assai piú complicata che durante la guerra, ho continuato ad amare la solitudine, almeno in certe circostanze. Mi aiutava a pensare, a rappresentarmi con piú precisione gli elementi di una difficoltà, a immaginare i modi di uscirne e le soluzioni per riprendere un rapporto, un contatto, un dialogo interrotto. A fissare qualche punto di chiarezza in piú rispetto a una svolta ancora indefinita ma importante per la mia vita. Perfino a recuperare qualcosa di me che stava diventando confuso.
Nella solitudine mi sono sempre trovata bene. È una delle esperienze importanti che ho ereditato dalle Langhe. La solitudine come condizione di libertà. Almeno certe volte, in certe circostanze.
Esistono tanti modi di scoprire cosa significhi essere liberi. La libertà ha tante facce ed è bellissimo, alla tua età, scoprirle.
La guerra partigiana portò, non solo a me, anche una libertà nuova che io vissi come una conquista importante, molto importante. Parlo della sensazione di libertà che mi procurò il fatto di vivere in banda insieme a dei ragazzi.
Come faccio a spiegarlo a te che, a quattordici anni, con i ragazzi della tua età vi vedete spesso, anche di sera, vi telefonate o chattate su Internet.
Le bambine della mia generazione – almeno quelle che appartenevano alle classi popolari – avevano giocato con i bambini in condizioni di relativa parità, piú o meno fino alla quinta elementare o poco dopo. Poi l’adolescenza ci cambiava. Man mano che si cresceva, tra maschi e femmine ci si incontrava sempre piú raramente, un po’ imbarazzati un po’ guardinghi. Avevamo perduto la naturalezza dei primi anni.
In quei venti mesi tra il 1943 e il 1945, accadde che moltissime ragazze entrassero, insieme ai ragazzi, in quell’avventura di guerra. Mai, prima, era avvenuto. Fu un fatto nuovo nella storia. Qualche singola donna controcorrente ed eccezionalmente coraggiosa aveva combattuto, ma non era mai successo che cosí tante ragazze decidessero di non rimanere a casa e di partecipare a una guerra.
La situazione inedita consisteva nel fatto che un paio di ragazze – o tre, o anche una sola – si trovassero a vivere insieme a una ventina di ragazzi, giorno e notte. In bande, cosí si chiamavano all’inizio le formazioni partigiane, ancora poco organizzate.
Che cosa ci facevano quelle ragazze in mezzo a tutti quei ragazzi è cosa che suscitò, finita la guerra, un po’ di curiosità e qualche domanda maliziosa. A me, per la verità, nessuno chiese nulla, ma suppongo che qualche pensiero qualcuno non abbia mancato di farselo.
Come si regolarono questi nuovi rapporti tra i sessi? La risposta è semplice. Si dovettero reinventare.
Date le circostanze, non fu difficile. Dal momento che tutto, proprio tutto, era inedito e straordinario e andava reinventato. Stare insieme con l’altro sesso era solo una delle novità che ci toccò affrontare.
Corpi maschili e corpi femminili vissero per molti mesi mescolati. Corpi esposti al pericolo e alla morte, oltre che alla difficoltà di soddisfare i bisogni piú materiali, come ripararsi dal freddo, dormire, mangiare. Corpi importanti come non mai, perché erano, prima di tutto, il mezzo per conseguire uno scopo di importanza capitale. Paradossalmente, avrebbero avuto la necessità di essere considerati con attenzione. Avrebbero avuto bisogno delle massime cure, come accade non a caso, nell’esercito. Soprattutto in certi eserciti. E invece, a causa delle particolari circostanze in cui si svolgeva quella guerra, decisa per volontà e determinazione dai partecipanti, ai nostri corpi non si prestava nemmeno un centesimo dell’attenzione che oggi i ragazzi e le ragazze, le donne e gli uomini adulti, prestano ai loro, perché siano sempre belli, vigorosi, efficienti.
Non dico che la consapevolezza del corpo e dei suoi vari significati fosse del tutto assente. Non voglio nemmeno dire che mancasse la percezione della differenza tra corpi maschili e femminili. Avevamo tutti piú o meno vent’anni, l’età in cui, normalmente, ci si innamora. A qualcuno piaceva attirare l’attenzione. Qualche tocco di voluta originalità, qualche tentativo di apparire speciale, qua e là lo notavi. La barba, per esempio, veniva lasciata crescere un po’ per comodità, ma forse anche per darsi un aspetto piú adulto, piú maschio e magari avventuroso. E i nomi di battaglia corrispondevano. I «Pirata», i «Sandokan», i «Tom Mix», la dicevano lunga sulle letture e gli eroi che erano stati il modello dei giovani partigiani quando, qualche anno prima, erano stati bambini.
C’era però anche chi riusciva a farsela, la barba. Ricordo uno che portava con sé un pettinino e uno specchietto per essere sempre in ordine. Chissà se è riuscito a salvarli.
Ma il contesto, appunto, li obbligava a ben altre cure e attenzioni. Come puntare d’abitudine gli occhi sui dintorni anche quando al momento non c’erano notizie di rastrellamenti. L’allerta, la vigilanza costante conferivano a tutti un modo di muoversi, di atteggiarsi, di essere persone, che li rendeva speciali. Intendo dire che c’era in tutti un tratto di serietà, di concentrazione, tale da renderli piú vivi.
C’erano, è ovvio, momenti di spensieratezza, spiritosaggini e battute che provocavano risate. Persino qualche tentativo di mettere in piedi un ballo in un cortile, subito represso dai responsabili. I vent’anni rompevano ogni tanto la disciplina, rivendicavano le loro esigenze. Tutto sommato, salvo i momenti dello scontro o della fuga, circolava un’aria allegra e l’ironia abbondava. Ma il tratto ordinario era l’attenzione vigile, cosí che nell’insieme quei ragazzi apparivano come persone bellissime e intense.
L’idea che suggerivano era quella di corpi agili e giovani, di una potente fisicità. Sarebbe stato facile innamorarsene.
In realtà accadeva raramente che si formasse una coppia. Non ricordo che fosse vietato, certo era considerato inopportuno. Non sono nemmeno sicura che si trattasse di tabú. Forse sí. Ma c’era la necessità della disciplina e il formarsi di una coppia avrebbe potuto creare disordine, magari qualche gelosia, qualche rottura. Quando accadeva, si percepiva una generale disapprovazione.
La questione sostanziale era il fatto nuovo della presenza delle ragazze. Che imponeva nuove regole e obbligava a inventare modi diversi nei rapporti tra noi. Si stavano sperimentando dei modelli per cui non esistevano riferimenti culturali.
Il rapporto che si stabilí è difficile da descrivere. Potrei parlare di intimità, se non fosse che questa parola ha, nel senso comune, un significato del tutto diverso. Parlo di un legame che prende una profondità non comparabile con altri, irripetibile, di altra qualità. Fu come se quei mesi fra noi avessero prodotto un innamoramento collettivo, che prescindeva dalle qualità dell’uno o dell’altro. Che prescindeva dai singoli. Non era mai stato cosí. Mai piú avremmo provato quell’intensità di vita.
Forse è una caratteristica dei giovani, forse l’appartenenza al gruppo suscita sentimenti simili. Per noi, la guerra li accentuò. Un po’, credo, capita sempre quando si sta insieme per molto tempo in situazioni eccezionali, di estremo pericolo ed è sempre possibile che quell’attimo sia l’ultimo della tua e della loro vita.
Tra noi rimaneva una piccola distanza, probabilmente dovuta al pensiero costante del perché eravamo lí, a fare che cosa. Quanto piú forte era il senso di appartenenza tanto piú forte fu in quegli anni la percezione della propria singolarità. E questo, forse, spingeva ognuno di noi all’osservazione dell’altro che, qualunque cosa avesse f...

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