Il sergente nella neve
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Il sergente nella neve

Ricordi della ritirata di Russia

Mario Rigoni Stern

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Il sergente nella neve

Ricordi della ritirata di Russia

Mario Rigoni Stern

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I ricordi della ritirata di Russia scritti in un Lager tedesco dall'alpino Rigoni Stern nell'inverno del 1944 vennero pubblicati da Einaudi nel 1953 nei «Gettoni» diretti da Vittorini sotto il titolo Il sergente nella neve. Apprezzato inizialmente soprattutto per il valore della testimonianza, il romanzo ha mostrato le sue grandi qualità espressive con la progressiva distanza temporale dai drammatici avvenimenti narrati. E ormai è giustamente considerato un classico del Novecento: per la lingua intensa e sempre concretissima, per l'alta moralità di fronte a esperienze estreme, per la totale mancanza di enfasi retorica, per il candore e la forza con cui viene rappresentata la lotta dell'uomo per conservare la propria umanità.Cronologia della vita e delle opere a cura di Giuseppe Mendicino.

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2013
ISBN
9788858407899
Parte seconda

La sacca

Prima di arrivare al fosso anticarro raggiunsi la squadra di Pintossi. Camminavano curvi, silenziosi. Ogni tanto qualcuno imprecava ma era uno sfogo per la disperazione che gravava dentro. Dove si andrà ora? Si accorgeranno i russi che abbiamo abbandonato il caposaldo? E ci inseguiranno subito? Resteremo prigionieri? Mi fermavo ad ascoltare e guardavo indietro. Era tutto nero, era tutto silenzio.
Al fosso anticarro alcuni alpini della centotredici armi d’accompagnamento mettevano le mine. – Presto, – ci dissero, – siete gli ultimi. Dobbiamo distruggere la passerella.
Quando passai la passerella e fui di là mi pareva di essere in un altro mondo. Capivo che non sarei piú ritornato in quel villaggio sul Don; che stavo per staccarmi dalla Russia e dalla terra di «quel villaggio». Ora sarà ricostruito, i girasoli saranno ritornati a fiorire negli orti attorno alle isbe e il vecchio con la barba bianca come lo zio Jeroska, avrà ripreso a pescare nel suo fiume. Noi, scavando i camminamenti, trovavamo tra la neve e la terra patate e verze; ora avranno tutto livellato e vangando a primavera avranno trovato i bossoli vuoti delle armi italiane. I ragazzi giocheranno con quei bossoli, e io vorrei dir loro: «Vedete, anch’io fui qui, dormivo là sotto di giorno e di notte andavo per i vostri orti che non c’erano piú. Avete trovato l’àncora?»
Ad un certo punto dovevo incontrare la compagnia che mi aspettava; la trovai piú avanti; alle cucine. Quando il capitano sentí che arrivavo, venne verso di me imprecando e calpestando con ira la neve. Mi mise l’orologio sotto il naso dicendomi: – Guarda, cretino, abbiamo piú di un’ora di ritardo. Siamo gli ultimi. Non potevi sbrigarti prima? – Tentai di dire qualcosa per spiegarmi, ma mi impose di tacere. – Vai col tuo plotone, – disse.
Ritrovai il mio plotone mitraglieri. Eravamo contenti di ritrovarci, ma non c’eravamo tutti. Il tenente Sarpi non era piú con noi; qualche altro, ferito, era all’ospedale. Antonelli mi si avvicinò: – È finita questa volta, – disse, – è finita –. Ci incamminammo per la strada che avevamo percorso quando ai primi di dicembre eravamo venuti a dare il cambio al Valcismon della Julia. Un pezzo da 75 /13 sparò qualche colpo. Si andava con la testa bassa, uno dietro l’altro, muti come ombre. Era freddo, molto freddo, ma, sotto il peso dello zaino pieno di munizioni, si sudava. Ogni tanto qualcuno cadeva sulla neve e si rialzava a fatica. Si levò il vento. Dapprima quasi insensibile, poi forte sino a diventare tormenta. Veniva libero, immenso, dalla steppa senza limiti. Nel buio freddo trovava noi, povere piccole cose sperdute nella guerra, ci scuoteva, ci faceva barcollare. Bisognava tenere forte la coperta che ci riparava la testa e le spalle. Ma la neve entrava da sotto e pungeva il viso, il collo, i polsi come aghi di pino. Si camminava uno dietro l’altro con la testa bassa. Sotto la coperta e sotto il camice bianco si sudava ma bastava fermarsi un attimo per tremare dal freddo. Ed era molto freddo. Lo zaino pieno di munizioni a ogni passo aumentava di peso; pareva, da un momento all’altro, di dover schiantare come un abete giovane carico di neve. «Ora mi butto sulla neve e non mi alzo piú, è finita. Ancora cento passi e poi buttò via le munizioni. Ma non finisce mai questa notte e questa tormenta?» Ma si camminava. Un passo dietro l’altro, un passo dietro l’altro, un passo dietro l’altro. Pareva di dover sprofondare con la faccia dentro la neve e soffocare con due coltelli piantati sotto le ascelle. Ma quando finisce? Alpi, Albania, Russia. Quanti chilometri? Quanta neve? Quanto sonno? Quanta sete? È stato sempre cosí? Sarà sempre cosí? Chiudevo gli occhi ma camminavo. Un passo. Ancora un passo. Il capitano in testa alla compagnia perse il collegamento con gli altri reparti. Eravamo fuori dalla strada giusta. Ogni tanto accendeva la pila sotto la coperta e consultava la bussola. Qualche alpino si staccava lentamente dalla squadra, si sedeva sulla neve e alleggeriva lo zaino. Non potevo dire nulla, tranne che: – Nascondetele sotto la neve, tenetevi le bombe a mano –. Antonelli portava l’arma della pesante, non bestemmiava piú, non perché non volesse ma perché non poteva. Nel buio posai casualmente i piedi su cose oscure e solide: cassette portabombe per mortaio da 45. Erano della squadra di Moreschi, lo cercai e gli dissi: – Con la tua squadra devi aiutare le altre del plotone a portare le pesanti e le munizioni per le pesanti. Abbandona anche i mortai, – aggiunsi piú piano, – e le altre casse; cerca di fare in modo che non s’accorga il capitano –. In testa si fermarono, ci fermammo tutti. Nessuno parlava, sembravamo una colonna di ombre. Mi buttai sulla neve con la coperta sulla testa; aprii lo zaino e seppellii nella neve due pacchi di cartucce per mitragliatore. Si riprese a camminare, dopo un po’ mi feci dare da Antonelli la pesante e passai a lui le due canne di ricambio che avevo portato fino allora. Antonelli aprí la bocca, sospirò forte e bestemmiò tutto quello che poteva bestemmiare. Sembrava, tanto era divenuto leggero, che il vento lo dovesse portar via. E a me di sprofondare. – Sotto, – dissi, – dobbiamo restare uniti –. Dove abbiamo camminato quella notte? Su una cometa o sull’oceano? Niente finiva piú.
Abbandonato sulla neve, a ridosso d’una scarpata al lato della pista, stava un portaordini del comando di compagnia. Si era lasciato andare sulla neve e ci guardava passare. Non ci disse nulla. Era desolato, e noi come lui. Molto tempo dopo, in Italia (e c’era il sole, il lago, alberi verdi, vino, ragazze che passeggiavano), venne il padre di questo alpino a chiedere notizie di suo figlio a noi pochi che eravamo rimasti. Nessuno sapeva dire niente o non voleva dire niente. Ci guardava duramente: – Ditemi qualche cosa, anche se è morto, tutto quello che potete ricordarvi, qualsiasi cosa –. Parlava a scatti, gesticolando, e per essere il padre di un alpino era vestito bene. – È dura la verità, – dissi io allora, – ma giacché lo volete vi dirò quello che so.
Mi ascoltò senza parlare, senza chiedermi nulla. – Ecco, – finii, – è cosí –. Mi prese sotto il braccio e mi portò in un’osteria. – Un litro e due bicchieri. – Un altro litro.
Guardò il ritratto di Mussolini appeso alla parete e strinse i denti e i pugni. Non parlò e non pianse... Poi mi tese la mano e ritornò al suo paese.
Non finiva mai quella notte. Dovevamo arrivare in un paese delle retrovie dove c’erano magazzini e comandi. Ma noi non sapevamo nessun nome di paese delle retrovie. I telefonisti, gli scritturali e gli altri imboscati sapevano tutti i nomi. Noi non sapevamo nemmeno il nome del paese dove era il nostro caposaldo; ed è per questo che qui trovate soltanto nomi di alpini e di cose. Sapevamo solo che il fiume davanti al nostro caposaldo era il Don e che per arrivare a casa c’erano tanti e tanti chilometri e potevano essere mille o diecimila. E, quando era sereno, dove l’est e dove l’ovest. Di piú niente.
Dovevamo arrivare in uno di questi paesi dove, ci dicevano gli ufficiali, avremmo potuto riposare e mangiare. Ma dove era? In un altro mondo? Finalmente, lontano, si vide una luce tenue; s’ingrandiva sempre piú sino a diventare rossigna ed illuminare il cielo. Ma questa luce rossa era nel cielo o sulla terra? Poi avvicinandosi si poté distinguere che era un villaggio che bruciava. Ma la tormenta non smetteva e c’erano sempre i coltelli piantati sotto le ascelle e si era schiacciati dal peso dello zaino e delle armi. E altre luci rosse si videro in quel buio. La neve pungeva gli occhi ma si camminava. Arrivammo in un paese, intravvedemmo le isbe scure nella tormenta e sentimmo abbaiare i cani; si sentiva che sotto la neve c’era una strada. Ma non potevamo fermarci, bisognava camminare ancora. Altra gente camminava lí attorno. Forse russi. Ma è meglio morire. Uno mi si avvicina, mi tira per la coperta, mi guarda fisso: – Che reparto siete? – mi chiede. – 55 del Vestone, 6o Alpini, – rispondo. – Conosci il sergente maggiore Rigoni Mario? – dice l’ombra. – Sí, – rispondo. – È vivo? – chiede. – Sí, – dico, – è vivo. Ma chi sei? – Sono un suo cugino, – dice. – Ma dov’è? – Sono io Rigoni, – dico, – ma tu chi sei? – Adriano –. E mi prende per le spalle e mi chiama per nome e mi scuote. – Come va parente? – dice Adriano. Ma io non riesco a dirgli niente. Adriano avvicina i suoi occhi al mio viso e ripete: – Come va parente? – Male, – dico, – va male. Ho sonno, ho fame, non ne posso piú. Ho tutto quello che si può avere di peggio –. Adriano, me lo raccontò poi al paese, si stupí quella notte a sentirmi parlare cosí. – Io, – diceva al paese, – quando lo incontravo lo vedevo sempre sereno e allegro. Ma quella notte. Quella notte!
Adriano levò dallo zaino una scatola di marmellata e un pezzo di parmigiano di un paio di chili. – L’ho presa in un magazzino questa roba, – disse, – mangia –. Con la baionetta cercai di rompere il formaggio per staccarne un pezzo e restituirgli l’altro. Ma dopo essermi levato i guanti sentii un dolore impensabile straziarmi le mani e non fui capace di tagliarlo. Le mani non seguivano il cervello e le guardavo come cose non mie e mi venne da piangere per queste povere mani che non volevano piú essere mie. Mi misi a sbatterle forte una contro l’altra, sulle ginocchia, sulla neve; e non sentivo la carne e non le ossa; erano come pezzi di corteccia d’un albero, come suole di scarpe; finché me le sentii come se tanti aghi le perforassero, e me le sentii a poco a poco tornare mie queste mani che adesso scrivono. Quante cose può ricordarmi il mio corpo.
Riprendemmo a camminare nella notte. – E i paesani, Adriano? – chiesi. – Sono tutti sani, – rispose. – Ma io ora devo ritornare al mio reparto, ci rivedremo ancora. Stai in gamba parente. – Arrivederci, – dico, – in gamba sempre.
Sotto, sotto, dobbiamo restare uniti. Non ho il coraggio di parlare ai miei compagni di case di vino di primavera. A che gioverebbe? A buttarsi sulla neve e dormire e sognare queste cose e poi svanire nel nulla, nel niente, e sperdersi, sciogliersi con la neve a primavera nell’umore della terra. Era tutto buio ed in lontananza, nel cielo, riflessi rossi dei villaggi che bruciavano. Ancora un passo, ancora un altro; la neve passava la coperta e pungeva il viso, il collo, i polsi. Il vento ci toglieva il respiro e voleva strapparci la coperta. Mangiai un po’ del formaggio che mi aveva dato Adriano. Era duro a spezzarsi con i denti, a masticarlo era come sabbia, e sentivo che assieme al boccone mandavo giú sangue che mi usciva dalle gengive e dalle labbra. Il fiato mi si gelava sulla barba e sui baffi e con la neve portata dal vento vi formava dei ghiaccioli. Con la lingua mi tiravo quei ghiaccioli in bocca e succhiavo. E venne l’alba. E la tormenta aumentò. E il freddo aumentò. Ma ora mi domando: se non vi fosse stata la tormenta saremmo sfuggiti ai russi?
In quella notte il tenente Cenci era di retroguardia con il suo plotone. A un certo punto si erano fermati in un’isba isolata per riposare ma se due donne non li avessero svegliati in tempo per riprendere in fretta il cammino sarebbero stati sorpresi dai russi che già erano in vista dell’isba. E l’alba era grigia e il sole non veniva mai e c’era solo la neve e il vento e noi nella neve e nel vento. Nessuno voleva piú portare le pesanti e le casse di munizioni; e quando uno si prendeva sopra lo zaino una di queste cose non c’era piú nessuno che voleva dargli il cambio. Cercavo di convincerli che bisognava tenerle con noi. Le Breda della mia squadra erano le armi migliori della compagnia e sapevo che cosa significasse per i fucilieri sentire le pesanti in caso di attacco. Bisognava portarcele con noi a costo di qualsiasi sacrificio. Ma quando, in quella mattina, dopo una tale notte, bisognava prendere sopra lo zaino il treppiede o una cassa di munizioni i coltelli sotto le ascelle pareva raggiungessero il cuore e i polmoni rimanevano senz’aria. Alleggerendo un compagno di una di queste cose, pareva che costui si alzasse in volo: sospirava, bestemmiava e poi diceva mentalmente un’avemaria.
Si camminava su una strada e la neve era ammucchiata ai lati; ma quella vecchia, non quella portata dalla tormenta. A destra c’era una rada fila di isbe. Si camminava a gruppetti e con lunghe code, era difficile tenere unito il plotone. Tra uno spazio e l’altro passava libero il vento e sibilava la tormenta. Eravamo tutti grigi e si vedeva poco.
Qui, una volta, vi dovevano essere magazzini o conducenti, perché tra la neve, si vedevano dei fili di paglia. Pensate: paglia che una volta era un campo di grano. Vi erano anche delle casse di galletta. Come vedono le casse gli alpini vi si gettano sopra, sono vuote, ma pure qualche cosa ci deve essere nel fondo perché a spintoni e a pugni cercano di farsi largo e di affondarvi le mani. Quelli che sono presi sotto gridano; poi lentamente si allontanano tutti. Uno rimane, gira ancora attorno alle casse, poi le rovescia e fruga nella neve.
Il capitano in testa a tutti si ferma e guarda la bussola. Ma dove siamo? A un lato della strada vedo una massa oscura e immobile. Un camion? o una carretta? o un carro armato? È una macchina rotta e abbandonata.
Un senso di apprensione m’invade e mi pare che carri armati russi debbano uscire dalla tormenta. – Andiamo, – dice il capitano, – state sotto, dobbiamo camminare in fretta. Avanti –. Finalmente arriviamo in un grosso paese dove erano comandi e magazzini. La tormenta è cessata, però tutto è grigio: la neve, le isbe, noi, i muli, il cielo, il fumo che esce dai camini, gli occhi dei muli e i nostri. Tutto di uno stesso colore. E gli occhi non vogliono piú stare aperti, la gola è piena di sassi che vi ballano dentro. Siamo senza gambe, senza braccia, senza testa, siamo solo stanchezza e sonno, e gola piena di sassi.
Vediamo il maggiore comandante il battaglione uscire da un’isba. – Andate nelle isbe al caldo e riposatevi, – ci dice. – Sono già diverse ore che sono qui le altre compagnie. Dove siete andati? Chissà dove siete andati voi questa notte. Entrate nelle isbe, – dice il maggiore. Forse pensa di parlare con delle ombre perché stiamo lí come i muli che fumano dalla pelle. – Andate al caldo e riposate, – dice il capitano, – tra poche ore si riparte. Sistemate i plotoni nelle isbe, – dice agli ufficiali e a me, – e fate pulire le armi.
Quando siamo partiti dal caposaldo, eravamo con le squadre al completo; ora, guardando cosí, mi accorgo che mancano parecchi uomini: forse spersi nella tormenta, forse fermatisi in qualche isba, forse entrati nelle case appena arrivati qui. Ma nessuno s’interessa a controllare chi manca. Quelli che sono rimasti si allontanano a gruppetti in cerca di un’isba libera dove entrare. Io solo rimango fuori e giro da una strada all’altra senza sapere dove andare. Perché non sono andato con i miei compagni di plotone? anzi con i miei uomini? Non lo so perché. Rimango solo, fuori sulla neve; e non so dove andare. Infine vado a bussare a qualche porta. Ma, o mi rispondono male o non mi aprono. La maggior parte delle case è occupata da gente dell’auto-reparto, della sussistenza, dei magazzini, della sanità. Voglio dormire un po’ al caldo, perché non mi lasciano entrare? Non sono anch’io un uomo come voi? E no, non sono come loro, io. Sono solo in mezzo alla strada e mi guardo attorno. Mi si avvicina un vecchio e mi indica, dietro una fila di isbe, in un orto, un cumulo di terra. Dalla terra sporge un comignolo, e dal comignolo esce del fumo. Mi fa cenno di andare là e scendere giú. È un rifugio antiaereo. All’altezza del terreno vi sono due piccole finestre con vetri, scendo per una scaletta, scavata nel terreno e busso alla porta. Provo a spingere ma è chiusa dall’interno. Qualcuno viene ad aprire, è un soldato italiano. – Siamo già in tre qui, – dice, – e una famiglia russa –. E richiude la porta. Batto: – Lasciatemi entrare, – dico, – mi fermerò poco, voglio solo dormire un po’, non mi fermerò tanto –. Ma la porta resta chiusa. Busso, la porta torna ad aprirsi, si affaccia una donna russa e mi fa cenno di entrare. È caldo qui dentro, è come nella mia tana al caposaldo, o nelle stalle, con la differenza che qui vi è questa donna russa con tre bambini e tre imboscati italiani. Ma ora ve n’è uno solo perché gli altri due sono fuori. Quello che è rimasto mi guarda male. La donna mi aiuta a levarmi il cappotto. Devo avere una faccia proprio conciata male se mi guarda con quegli occhi pieni di compassione che quasi piangono. Ma io non so piú commuovermi, ora. L’imboscato che da un angolo mi guarda, come vede che sulla manica ho due straccetti di gradi e sopra il taschino qualche nastrino, vuole attaccare discorso. Porca naia! E se fossi un conducente qualsiasi? un fuciliere? un mulo? una formica? Non rispondo alle sue domande e mi levo anche l’elmetto e il passamontagna. Mi pare di essere nudo. E svuoto le tasche dalle bombe e le metto nell’elmetto e mi levo le giberne che mi pesano sul ventre. Cavo da una tasca della giubba una manciata di caffè misto a neve e nel coperchio della gavetta lo pesto con il manico della baionetta. La donna ride, l’imboscato sta zitto e mi guarda. La donna mette a bollire l’acqua e fa alzare i ragazzini che mi guardano sdraiati su dei cuscini. Prende i cuscini e li mette su una specie di palco, vi butta sopra anche una coperta; la mia la mette ad asciugare vicino al fuoco. Mi fa cenno di salire sul palco a dormire. Mi siedo con le gambe ciondoloni e finalmente dico: – Spaziba –. La donna mi sorride e anche i bambini. L’imboscato mi guarda sempre zitto. Levo dallo zaino la marmellata che mi aveva dato Adriano, non ho altro, e mangio. Voglio offrirne anche ai bambini ma la donna non vuole: – Cusciai, – mi dice, – cusciai, – mi dice sottovoce sorridendo. Quando l’acqua bolle mi fa il caffè e, finalmente, dopo tanti giorni, mando dentro qualche cosa di caldo. Mi aggiusto il posto per dormire, mi metto vicino il moschetto e l’elmetto con le bombe a mano. – Stamattina c’erano qui i carri armati russi, – mi dice l’imboscato. – Ma tu cosa fai qui? – domando. – Che cosa aspetti? Non vai con il tuo reparto? – Non risponde. Fuori fa freddo, c’è la steppa, il vento, la neve, tanto vuoto attorno, i carri armati russi e lui sta qui al caldo con i suoi due compagni e la donna russa. – Se senti sparare, svegliami, – dico. Su di un’asse, contro la parete di terra gialla, c’è una vecchia sveglia e faccio cenno alla donna di svegliarmi quando la lancetta piccola sarà arrivata al numero due. A quell’ora devo trovarmi con la compagnia. Sono le undici, ora, dormirò tre ore. E mi butto giú sui cuscini, vestito e con le scarpe addosso. Ma perché non sono capace di dormire? Perché penso ai miei uomini che sono nelle isbe al caldo? Perché sto con le orecchie tese a sentire se sparano? Perché non viene il sonno? Da tanti giorni non dormo. Ritornano i due imboscati che erano fuori e sento che parlano fra di loro; sento un bambino che piange e sto con gli occhi aperti a guardare la parete di terra gialla. Il caposaldo, i chilometri, i miei compagni, i russi morti nel fiume, la Katiuscia, i miei paesani, il tenente Moscioni, le bombe a mano, la donna russa, i muli, i pidocchi, il moschetto. Ma esiste ancora l’erba verde? Esiste il verde? E poi dormo; dormo, dormo. Senza sognare nulla. Come una pietra sotto l’acqua.
Quando la donna russa mi sveglia è tardi, mi ha lasciato dormire mezz’ora di piú. In fretta lego la coperta allo zaino, rimetto in tasca le bombe a mano e in testa l’elmetto. Quando sono pronto per uscire la donna mi porge una tazza di latte caldo. Latte come quello che si beve nelle malghe all’estate; o che si mangia con la polenta nelle sere di gennaio. Non gallette e scatolette, non brodo gelato, non pagnotte ghiacciate, non vino vetroso per il freddo. Latte. E questa non è piú naia in Russia, ma vacche odorose di latte, pascoli in fiore tra boschi d’abete, cucine calde nelle sere di gennaio quando le donne fanno la calza e i vecchi fumano la pipa e raccontano. La tazza di latte fuma nelle mie mani, il vapore sale per il naso e va nel sangue. Bevo. Restituisco la tazza vuota alla donna dicendo: – Spaziba.
Mi rivolgo, poi, ai tre imboscati: – Non venite? – Ma dove vuoi andare? – mi risponde uno: – Siamo circondati dai russi e qui siamo al caldo. – Lo vedo, – dico; – io vado. Vi saluto e auguri –. E ritorno fuori.
Il paese era tutto un brulicare, come quando nel bosco si introduce un bastone in un formicaio. Ragazzi, donne, bambini, vecchi entravano nelle isbe con fagotti e sacchi mezzi pieni e subito ritornavano fuori con i sacchi vuoti sotto il braccio. Andavano nei magazzini che bruciavano e prendevano tutto quello che riuscivano a salvare da...

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