Il mio nome è rosso
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Il mio nome è rosso

Orhan Pamuk, Semsa Gezgin, Marta Bertolini

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Il mio nome è rosso

Orhan Pamuk, Semsa Gezgin, Marta Bertolini

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Istanbul, 1591. In una città scossa da antiche inquietudini e nuovissime tentazioni, tra i miniaturisti del Sultano si nasconde un feroce assassino. Per smascherarlo, Nero è disposto a tutto, anche a rischiare la vita. Perché se fallisce, per lui non ci sarà futuro con la bella Seküre, non ci sarà l'amore che ha sognato per dodici anni.
Libro corale, ricco di passione e di suspense, questo straordinario romanzo di Orhan Pamuk restituisce la ricchezza e la malinconia di un mondo al tramonto. Nel contrasto tra i due vecchi miniaturisti, Zio Effendi e Maestro Osman, Pamuk riassume una discussione che continua ancora oggi nel mondo islamico, diviso tra modernità e tradizione.

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2013
ISBN
9788858407271
Capitolo cinquantottesimo

Di me diranno che sono un assassino

Mi avete dimenticato, vero? Ormai non ho piú motivo di nascondervi che esisto. Perché parlare con questa voce che man mano cresce dentro di me è diventato un bisogno irresistibile. A volte cerco di controllarmi, ma temo che la tensione palpabile nella voce mi tradisca. A volte mi lascio andare e allora mi escono di bocca parole che rivelano l’altra mia personalità, forse ve ne siete accorti: mi tremano le mani, mi suda la fronte e capisco subito che questi sono segni rivelatori. Eppure come sono felice qui! Mentre, seduti insieme con i miei fratelli miniaturisti ci consoliamo a vicenda e rivanghiamo venticinque anni di ricordi, non ci vengono in mente le inimicizie, ma la bellezza e il piacere di disegnare. Nel modo in cui restiamo seduti, convinti che la fine del mondo sia ormai imminente, ricordando i bei giorni passati e accarezzandoci a vicenda con le lacrime agli occhi, c’è qualcosa delle donne dell’harem.
Ho preso questa similitudine da Ebu Said di Kirman che, scrivendo le vicende dei figli di Tamerlano, tramandò le storie degli antichi maestri di Herat e di Shiraz. Centocinquant’anni fa, Cihan Scià, sovrano del Montone Nero, sconfisse i piccoli eserciti dei khan e degli scià della stirpe di Tamerlano in guerra tra loro, ne distrusse i paesi, attraversò tutta la Persia con i suoi vittoriosi eserciti turkmeni per poi giungere in Oriente, e da ultimo, a Esterabad sconfisse anche Ibrahim, nipote di Scià Ruh figlio di Tamerlano, infine prese Gurgan e mandò i suoi eserciti verso la fortezza di Herat. Secondo lo storico di Kirman, questo grande colpo inferto all’invincibile forza della stirpe di Tamerlano che per mezzo secolo aveva dominato la Persia e metà del mondo, dall’India a Bisanzio, aveva generato un clima di catastrofe e rovina tali che nella fortezza di Herat assediata nacque una confusione colossale. Lo storico Ebu Said che, stranamente, amava ricordare ai suoi lettori che Cihan Scià, sovrano del Montone Nero, nelle fortezze conquistate uccideva senza pietà tutti coloro che appartenevano alla stirpe di Tamerlano, portava nel suo harem le donne scelte dall’harem di scià e principi, separava i miniaturisti e, senza pietà, ne affidava un gran numero di loro come apprendisti ai suoi maestri, a questo punto, dalla storia dello scià e dei suoi soldati che cercavano di respingere il nemico dai bastioni della fortezza, era passato alla storia dei miniaturisti che attendevano nel laboratorio, tra penne e colori, la terribile e già chiara fine dell’assedio. Aveva scritto che i famosi e indimenticabili miniaturisti oggi ormai dimenticati, che nominava uno a uno, non erano riusciti a fare altro che abbracciarsi e piangere ricordando i bei tempi, proprio come le donne dell’harem dello scià.
Anche noi, come le tristi donne dell’harem, ricordammo che una volta il sultano ci mostrava un affetto piú sincero e durante le feste ci regalava caftani foderati di pelliccia, borse piene di monete, ce li dava dopo aver accettato le scatole multicolori e decorate, gli specchi e i piatti, le uova di struzzo dipinte, i lavori di carta ritagliata, i disegni di una sola pagina, i collage divertenti, le carte da gioco e i libri che gli offrivamo noi. Dov’erano adesso i laboriosi miniaturisti anziani che resistevano alle sofferenze e si accontentavano di poco? Non si chiudevano in casa preoccupati di non mostrare agli altri come disegnavano e non avevano l’ansia che venissero scoperti i lavori fatti all’esterno e ogni giorno si presentavano al laboratorio. Dov’erano gli anziani miniaturisti che, con modestia, avevano dedicato tutta la vita a disegnare le fini decorazioni dei muri dei palazzi, le foglie dei cipressi che, se le guardavi a lungo, capivi che erano tutte diverse l’una dall’altra, e l’erba a sette foglie della steppa, che riempiva i vuoti della pagina? Dov’erano i modesti maestri che accettavano che ci fosse una saggezza e una giustizia nel fatto che Allah ad alcuni concedeva solo talento e abilità, e ad altri pazienza e rassegnazione, e non erano mai gelosi? Ricordando questi anziani maestri, alcuni gobbi e sempre sorridenti, altri sognatori e ubriachi, altri ancora che cercavano di sistemarci con le loro figlie zitelle, parlammo di episodi dimenticati del laboratorio di quando eravamo apprendisti e poi dei nostri inizi come maestri.
C’era un tipo lievemente strabico, specializzato in contorni, che quando tracciava le righe appoggiava la lingua alla guancia – se la riga andava verso destra la appoggiava alla guancia sinistra, se andava verso sinistra alla guancia destra. C’era un miniaturista minuto e sottile che quando faceva traboccare il colore diceva «pazienza, pazienza, pazienza», e rideva da solo. C’era un maestro doratore che chiacchierava per ore con gli apprendisti di rilegatura del piano di sotto e affermava che l’inchiostro rosso, se messo sulla fronte, arrestava il processo di invecchiamento. C’era un maestro nervoso che quando le unghie gli si riempivano dei colori che vi stendeva per vederne la densità, fermava un apprendista a caso, anzi, chiunque gli capitasse, e stendeva il colore sulle unghie di questo. C’era un miniaturista grasso che si accarezzava la barba con le pelose zampe di coniglio che si usavano per raccogliere la polvere d’oro avanzata dalla doratura e ci faceva davvero ridere. Dov’erano? Dov’erano adesso gli strumenti per lucidare i fogli che diventavano quasi una parte del corpo degli apprendisti, venivano usati per anni per poi essere gettati via in un angolo, le lunghe forbici per tagliare la carta che gli apprendisti rovinavano giocandoci come fossero spade, le assi da scrittura su cui erano incisi i nomi dei grandi maestri perché non venissero confusi, il profumo di muschio dell’inchiostro di china, il ticchettio delle brocche di caffè che si udiva nel silenzio, la nostra gatta soriana che ogni estate figliava e noi che facevamo pennelli con i peli delle orecchie e della collottola dei micetti, gli strati e strati di fogli indiani che ci venivano forniti in abbondanza perché non rimanessimo mai fermi e potessimo sempre scarabocchiare qualcosa come i calligrafi, il temperino per cancellare gli errori con il manico d’acciaio che si usava solo con il permesso del capo miniaturista perché fosse da esempio a tutto il laboratorio quando si grattavano via gli errori piú evidenti.
Parlammo dell’errore commesso dal Nostro Sultano facendo lavorare i miniaturisti a casa. Parlammo della squisita helva calda che arrivava dalla cucina di Palazzo in inverno, quando il buio calava presto, quando avevamo lavorato fino a farci dolere gli occhi alla luce di lampade e candele. Ricordammo ridendo fino alle lacrime l’anziano maestro di doratura rimbambito che aveva il tremore e non riusciva a prendere in mano carta e penna e che veniva a fare visita al laboratorio una volta al mese portando il dolce di pasta fritta che la figlia cuoceva per noi apprendisti. Parlammo delle meravigliose pagine di Memi il Nero, il predecessore di Maestro Osman, trovate dopo il suo funerale, quando venne perquisita la sua cella rimasta vuota per giorni, tra i fogli infilati nella cartella sotto il materasso che stendeva a terra per fare il pisolino di mezzogiorno.
Ci raccontammo quali erano le pagine di cui andavamo orgogliosi e che, se fossero state copiate, di tanto in tanto tireremmo fuori per guardarle, proprio come Maestro Memi il Nero, le elencammo e ne parlammo. Ricordammo di quando il cielo, nella parte alta del disegno del Palazzo fatto per l’Hunername, era stato colorato con acqua d’oro, e tra le cupole, le torri e i cipressi era venuto fuori un panorama da fine del mondo, non per l’oro ma per il colore, un colore da disegno elegante.
Raccontarono della strana sensazione e del solletico provati dal Nostro Profeta mentre, dalla cima del minareto, saliva in cielo sottobraccio a due angeli; era stato disegnato con colori cosí seri che anche i bambini che vedevano questo sacro panorama in un primo momento ne avevano veramente paura, e poi ridevano con aria rispettosa come se anche loro soffrissero il solletico. Raccontai di come avevo delicatamente e rispettosamente messo in fila le teste tagliate dal nostro ex Gran Visir mentre domava i ribelli saliti sulle montagne e avevo tracciato le sopracciglia corrugate dalla morte e sui colli tagliati avevo messo il rosso, avevo disegnato le labbra tristi che si chiedevano il senso dell’esistenza, i nasi che tiravano un ultimo disperato respiro, gli occhi chiusi alla vita, uno a uno, minuziosamente e, come farebbe un ritrattista europeo, avevo disegnato tutti con piacere, non come ordinarie teste di morto, ma ognuno con un volto diverso, conferendo una misteriosa atmosfera di mistero. E poi parlammo con nostalgia delle rappresentazioni di amore e di guerra che amavamo di piú, le meravigliose bellezze e le raffinatezze che ci facevano venire le lacrime agli occhi, erano i nostri indimenticabili e irraggiungibili ricordi. Ci passarono davanti agli occhi giardini deserti e misteriosi dove nelle notti stellate s’incontrano gli innamorati, alberi primaverili, uccelli leggendari, il tempo che si ferma… Immaginammo guerre sanguinose, vicine e spaventose come i nostri incubi, guerrieri fatti a pezzi, cavalli insanguinati, bellezze che si pugnalano a vicenda, tristi donne dalla bocca piccola, dalle mani piccole, dagli occhi a mandorla che osservano quel che accade dalla finestra socchiusa… Ricordammo i bei ragazzi, orgogliosi e felici, scià e khan avvenenti, i loro regni e i palazzi demoliti da tempo. Come le donne che piangono nell’harem di quegli scià, ormai sapevamo di essere passati dalla vita al ricordo, ma, come loro, saremmo passati dalla storia alla leggenda? Perché l’ombra della paura di essere dimenticati, piú terribile della paura della morte, non ci trascinasse nel terrore, ci chiedemmo quali fossero le rappresentazioni di morte che piú amavamo.
E subito ricordammo Dehhak che, ingannato da Satana, uccide suo padre. Ai tempi di quella leggenda, narrata all’inizio del Libro dei Re, il mondo era stato appena creato, e tutto era cosí semplice che non c’era bisogno di spiegare nulla. Volevi del latte, mungevi la capra e ne bevevi; volevi un cavallo, ci montavi sopra e te ne andavi; volevi la cattiveria, arrivava Satana e ti convinceva a uccidere tuo padre. L’uccisione da parte di Dehhak di suo padre Merdas, un nobile arabo, era bella perché senza motivo e perché aveva avuto luogo a mezzanotte nel giardino di un meraviglioso palazzo mentre le stelle d’oro illuminavano appena i cipressi e i multicolori fiori di primavera.
Poi ricordammo come, dopo tre giorni di combattimenti, il leggendario Rüstem aveva ucciso suo figlio Suhrab che comandava gli eserciti nemici, senza sapere che fosse suo figlio. Nella disperazione e nel pianto di Rüstem che, dopo avergli squassato il petto a colpi di spada, capisce che Suhrab è suo figlio dalle polsiere che gli aveva dato la madre molti anni prima, c’era qualcosa che aveva colpito profondamente tutti noi.
Ma cosa?
Mentre la pioggia ticchettava tristemente sul tetto del convento, io camminavo su e giú, e all’improvviso dissi:
«O sarà nostro padre, il nostro Maestro Osman, a tradirci e farci uccidere, o saremo noi a tradire e far uccidere lui».
Fu il terrore, e non perché ciò che avevo detto fosse sbagliato, ma proprio perché era giusto e tacemmo. Mentre camminavo su e giú, con l’ansia di mettere tutto a posto, dicevo tra me: adesso racconto di come Siyavuş uccise Afrasyab, cosí cambiamo discorso. Ma è un tradimento che non mi spaventa. Racconta l’uccisione di Cosroe. Va bene, ma come la racconta Firdusi nel Libro dei Re, o come Nizami nel Cosroe e Şirin? La cosa che nel Libro dei Re infonde tristezza è che Cosroe capisce con le lacrime agli occhi chi è l’assassino appena entra nella stanza! Come ultimo rimedio, manda il ragazzo che ha accanto a prendere dell’acqua, un abito pulito, una spugna, il suo tappeto, dicendo che vuole pregare, e il ragazzo ingenuo non capisce che il suo signore lo manda a chiamare aiuto e va veramente a prendere ciò che gli è stato chiesto. Una volta rimasto solo nella stanza, l’assassino per prima cosa chiude a chiave la porta. In questa rappresentazione, che si trova alla fine del Libro dei Re, Firdusi descrive schifato l’assassino trovato dagli organizzatori del complotto: un tipo puzzolente, peloso e con la pancia.
Continuando a camminare su e giú avevo la testa piena di parole ma, come in un sogno, non mi usciva la voce.
Come in un sogno, sentii che gli altri bisbigliavano tra loro e parlavano male di me.
All’improvviso, mi saltarono addosso tutti e tre. Mentre venivano verso di me, mi fecero perdere l’equilibrio in maniera cosí violenta che, tutti e quattro, rotolammo a terra. Ci spingemmo, lottammo sul pavimento, ma non durò molto. Io rimasi sotto, sdraiato di schiena, e loro mi montarono sopra.
Uno si sedette sulle mie ginocchia. L’altro sul mio braccio destro.
Nero appoggiò le ginocchia all’attaccatura delle mie braccia e, sistemando con forza il suo didietro tra il mio petto e il mio stomaco, si sedette sopra di me. In questa situazione non riuscivo assolutamente a muovermi. Tutti meravigliati, riprendemmo fiato. Ricordai questo: la buonanima di mio zio aveva un figlio schifoso, era piú grande di me di due anni, spero che sia stato catturato mentre assaliva una carovana e gli abbiano tagliato la testa. Quest’invidioso, sentendo che ne sapevo piú di lui, ero piú intelligente e raffinato di lui, trovava sempre una scusa per provocare dei litigi, e se non li provocava, proponeva di fare la lotta, mi metteva subito sotto, con le ginocchia sulle spalle e mi guardava negli occhi proprio come faceva adesso Nero; poi faceva dondolare tra le labbra uno sputo e, mentre lo sputo man mano aumentava di volume e scendeva lento verso i miei occhi, io, schifato, pensavo che prima o poi sarebbe caduto, cercavo di muovere la testa a destra e a sinistra, e lui si divertiva molto.
Nero mi disse di non nascondergli nulla. Dov’è l’ultimo disegno? Confessa!
Provavo una tristezza e una rabbia soffocanti per due motivi: perché non mi ero accorto che si erano messi d’accordo tra loro e avevo parlato inutilmente; perché non avevo immaginato che la gelosia potesse arrivare fino a questo punto e non ero scappato prima.
Nero disse che se non avessi tirato fuori l’ultimo disegno mi avrebbero tagliato la gola.
Una cosa ridicola. Avevo serrato le labbra, come se, aprendo la bocca, potesse uscire la verità. D’altra parte pensavo che non ci fosse nulla da fare. Se si fossero messi d’accordo e avessero detto al Tesoriere che l’assassino ero io, avrebbero risolto il problema. La mia unica speranza era che Maestro Osman indicasse un altro, tirasse fuori altri indizi, ma era vero ciò che diceva Nero su di lui? Potevano uccidermi qui, e poi consegnarmi?
Mi appoggiarono il pugnale alla gola. Vidi subito che Nero provava un piacere che non riusciva a nascondere. Mi diedero uno schiaffo in faccia. La lama tagliava? Mi diedero un altro schiaffo.
Riuscii comunque a ragionare. Se non dico nulla, non succede nulla! Questo mi diede forza. Ormai non nascondevano la gelosia che provavano nei miei confronti fin da quando erano apprendisti, erano gelosi di me che per tutta la vita avevo palesemente colorato meglio di chiunque altro, avevo tracciato le righe piú belle, avevo fatto le miniature migliori. Li amavo perché erano cosí gelosi di me. Sorrisi ai miei cari fratelli.
Uno di loro – non voglio che sappiate chi ha fatto questa cosa vergognosa – mi baciò focosamente come se baciasse la sua amata di cui sentiva la mancanza da tempo. Gli altri ci guardavano alla luce della lampada che avevano avvicinato. Risposi al bacio del mio caro fratello. Se arriviamo alla fine di tutto, sappiate che sono io che faccio le miniature migliori. Trovate le mie pagine e guardatele.
Come se aver risposto al suo bacio l’avesse fatto davvero arrabbiare, cominciò a picchiarmi con rabbia. Ma gli altri lo trattennero. Ebbero un attimo di indecisione. Il fatto che si fossero spintonati fece arrabbiare Nero. Sembrava che non provassero rabbia nei miei confronti, ma nei confronti della direzione in cui andava la loro vita, e che volessero vendicarsi di tutto il mondo e di tutti.
Nero tirò fuori un oggetto dalla sua cintura, un lungo ago dalla punta molto acuminata. All’improvviso lo avvicinò al mio occhio e fece il gesto di infilarmelo dentro.
«Il grande Behzat, il Maestro dei maestri, ottant’anni fa, mentre Herat cadeva, capí che tutto era finito e, perché nessuno lo costringesse a disegnare in un altro modo, si accecò con onore, – disse. – Dopo essersi lentamente infilato e sfilato dagli occhi questo spillone da turbante, il magnifico buio di Allah lentamente scese sulla sua cara creatura, sul miniaturista dalle mani miracolose. Questo spillone passò da Herat a Tabriz insieme a Behzat ormai cieco e ubriaco, per poi venire mandato in dono da Scià Tahmasp al padre del Nostro Sultano, insieme a quel leggendar...

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