L'arte di correre
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L'arte di correre

Murakami Haruki, Antonietta Pastore

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L'arte di correre

Murakami Haruki, Antonietta Pastore

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Murakami Haruki in uniform edition Super ET, con le copertine di Noma Bar. *** Una riflessione sul talento, sulla creatività e piú in generale sulla condizione umana; l'autoritratto di uno scrittore-maratoneta, di un uomo di straordinaria determinazione, di profonda consapevolezza - dei propri limiti come delle proprie capacità -, di maniacale disciplina nel sottoporre il proprio fisico al duro esercizio della corsa; e non da ultimo la sorpresa di scoprire che un autore celebrato per la potenza della sua fantasia sia in realtà una natura estremamente metodica, ordinata, agli antipodi dello stereotipo dell'artista tutto «genio e sregolatezza».

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2012
ISBN
9788858407233
Capitolo terzo

1º settembre 2005, isola di Kauai, arcipelago delle Hawaii

La prima volta che corro per quarantadue chilometri, ad Atene in piena estate
Ieri era l’ultimo giorno di agosto. I chilometri che ho corso in questo mese (trentuno giorni) in tutto sono trecentocinquanta.
Giugno: 260 chilometri (60 alla settimana)
Luglio: 310 chilometri (70 alla settimana)
Agosto: 350 chilometri (80 alla settimana)
Il mio obiettivo è la maratona di New York City, che si tiene il 6 novembre. La mia preparazione fisica procede piuttosto bene, ho iniziato ad allenarmi sistematicamente cinque mesi prima della gara, come avevo programmato, e poco per volta sono riuscito a coprire distanze sempre maggiori.
Con il tempo ho avuto davvero fortuna, non ho dovuto correre sotto la pioggia nemmeno un giorno. Ogni tanto veniva giù qualche goccia, ma erano pioggerelle gentili, giusto quel che ci voleva per rinfrescare un po’ il mio corpo riarso dal sole. In estate sulla costa nord di Kauai il tempo è relativamente buono, ma è raro che il cielo si mantenga tanto a lungo sereno. Grazie alle ottime condizioni meteorologiche ho potuto sfogarmi a correre quanto volevo. La mia forma fisica non presenta problemi. Nonostante abbia gradualmente aumentato la distanza ogni giorno, il mio corpo non ha emesso grida di dolore. Dopo aver corso a un ritmo tanto intenso per tre mesi, non ho ferite, non accuso sofferenza, non mi sento troppo affaticato.
Non ho nemmeno avvertito quel genere di spossatezza che coglie le persone in estate. Comunque non prendo precauzioni alimentari per evitare che mi succeda, al massimo cerco di non bere bevande fredde. E mi sforzo di mangiare molta frutta e molta verdura. Per quanto riguarda la mia dieta estiva, le Hawaii sono il paese ideale, perché la frutta fresca – mango, papaia, avocado – costa poco o niente (alla lettera, basta stendere la mano e coglierla sull’albero). Se ne mangio tanta però, non è per prevenire la spossatezza, ma perché il mio fisico ne ha bisogno, mi chiede di dargliene in abbondanza. Quando si fa esercizio quotidiano si riesce a sentire in modo molto chiaro la voce implorante del proprio corpo.
Un’altra abitudine salutare è fare un pisolino pomeridiano. Io dormo benissimo dopo pranzo. Quando mi viene sonno mi sdraio sul divano e mi addormento seduta stante. Dopo una mezz’oretta mi sveglio, il torpore è sparito, la mia mente è lucidissima. Nel Sud dell’Europa questo si chiama «fare la siesta». Mi pare di ricordare di aver preso quest’abitudine quando abitavo in Italia, ma può darsi che non sia così, che per natura fare un pisolino mi sia sempre piaciuto. Ad ogni modo se ho sonno, dovunque mi trovi, mi addormento subito come un sasso, una capacità di cui posso davvero rallegrarmi dal momento che mi aiuta a conservarmi in buona salute. Peccato che mi succeda anche quando dovrei stare sveglio, il che a volte mi crea qualche problema.
Il mio peso è dunque sceso a un livello ottimale, e anche la mia faccia ha assunto un’espressione più serena. È bello vedere che il mio corpo sta subendo delle trasformazioni, ma devo riconoscere che per compiere questa metamorfosi impiego più tempo di una volta. Un’impresa che da giovane mi riusciva in un mese e mezzo adesso ne richiede tre. Anche l’efficacia dell’allenamento cala, e la quantità delle cose che riesco a portare a termine nella giornata diminuisce a vista d’occhio. Non ci posso fare niente, devo rassegnarmi e accontentarmi di ciò che riesco a ottenere. Perché è un principio fondamentale della vita umana, non un criterio con cui valutare se il nostro modo di vivere sia giusto o meno. A proposito, nella palestra che frequento a Tōkyō è esposta una scritta che dice: «I muscoli è difficile metterli su, ma è facile perderli, il grasso superfluo è facile metterlo su, ma è difficile perderlo». È una verità scomoda, ma è pur sempre la verità.
Agosto se n’è andato così, salutando con la mano (mi ha dato proprio quest’impressione), ora siamo entrati in settembre e il mio allenamento cambierà stile. Nei tre mesi passati il mio solo obiettivo era di fare quanti più chilometri potevo, senza preoccuparmi di nient’altro; ogni giorno correvo con tutte le mie forze accelerando il ritmo. Ho sviluppato resistenza alla fatica, potenziato ogni singolo muscolo, mi sono scaldato e rafforzato sia fisicamente che spiritualmente. L’essenziale in questa fase era trasmettere al mio corpo il messaggio che correre tanto a lungo era una cosa del tutto normale. «Trasmettere» in senso figurato, naturalmente, perché, per quanto gli parli, non è che obbedisca con tanta docilità. Il corpo è un organismo molto, molto cocciuto. Ha cominciato a comprendere e recepire il mio messaggio soltanto dopo che l’ho sottoposto a lunga e ininterrotta fatica. Il risultato è che alla fine era lui a cercare – ma forse mi illudo – un allenamento molto intenso. A quel punto ho gradualmente aumentato la dose. Poco per volta, poco per volta. In misura ben calcolata, in modo che lui non cedesse all’improvviso.
Ora, a inizio settembre, a due mesi dalla maratona di New York, l’allenamento entra in fase di raffinazione. Inserendo alcune modulazioni – lungo e corto, duro e leggero – dalla «quantità» si passa alla «qualità». La fatica deve raggiungere il massimo livello un mese prima della gara. È una fase cruciale. Occorre procedere scambiando informazioni continue, accurate, con il proprio corpo.
In agosto mi sono fermato per tutto il mese nell’isola di Kauai, dedicandomi solo all’allenamento, ma per tutto il mese di settembre starò in Giappone. Avrò molte cose da sistemare, perché trasferirmi in una città lontana come Boston non è una faccenda da poco. Quindi d’ora in poi non potrò correre quanto adesso, e dovrò compensare con un programma adeguato i chilometri che percorrerò in meno.
Mi spiace dirlo, preferirei passare l’episodio sotto silenzio, nasconderlo in fondo a un armadio, ma il risultato dell’ultima maratona che ho corso non è stato certo lusinghiero. Dopo aver partecipato a tante gare, era la prima volta che ne terminavo una in maniera tanto disastrosa. La maratona si svolgeva da qualche parte nella provincia di Chiba.
Fino al trentesimo chilometro ero riuscito a mantenere un ritmo abbastanza buono. Al punto che mi dicevo che, continuando di quel passo, forse avrei fatto un tempo discreto. Sentivo di avere ancora sufficiente capacità di resistere alla fatica, di poter percorrere senza difficoltà la distanza che mancava al traguardo. Peccato che a partire da quel momento le gambe tutt’a un tratto mi abbiano tradito. Cominciai ad avere degli spasmi che divennero sempre più violenti, finché fui obbligato a fermarmi. Per quanto cercassi di fare stretching, la parte posteriore delle cosce mi tremava convulsamente e aveva preso una forma strana, non rispondeva più ai miei ordini. Non riuscivo nemmeno a stare in piedi. Allora mi accovacciai sulla strada. Mi era già successo in altre gare di venire colto da spasmi, ma facendo un po’ di stretching i muscoli erano sempre tornati alla condizione normale, e avevo potuto riprendere a correre. Ora però la cosa era molto più grave. Potevo riposare quanto volevo, gli spasmi non passavano. E quando mi sembrava di stare un po’ meglio, appena mi rimettevo in moto tornavano. Ho percorso gli ultimi cinque chilometri camminando a fatica. Era la prima volta in vita mia che in gara facevo una cosa del genere. Fino ad allora era stato per me un punto d’onore non camminare, per quanto sforzo mi costasse. La maratona è una competizione in cui si corre, non si cammina. È una questione di principio. Quella volta però alla fine mi dovetti rassegnare. Il pensiero di rinunciare e salire sull’autobus che ci accompagnava mi attraversò diverse volte la mente. Visto che avrei fatto un tempo disastroso, tanto valeva smettere. Ma volevo per lo meno evitare di ritirarmi. Ero determinato ad arrivare al traguardo, anche a costo di strisciare.
Avanzavo trascinando le gambe, la faccia contratta, e intanto venivo superato da tutti i concorrenti che sopraggiungevano alle mie spalle, uno dopo l’altro. Le cifre sul mio orologio digitale continuavano a scandire il tempo senza pietà. Dal mare soffiava il vento, il sudore mi si era raffreddato sulla pelle e stavo gelando. Per forza, era una gara invernale. Camminando per la strada in canottiera e short, esposto agli elementi, era naturale che cominciassi a battere i denti. Mentre correvo mi ero riscaldato al punto di non avvertire più la temperatura esterna, ma appena smisi patii il freddo in misura inimmaginabile. Tuttavia, molto più che il freddo, quello che mi faceva soffrire era la ferita al mio amor proprio, lo spettacolo vergognoso di me stesso che camminavo a stento in una maratona. Quando fui a circa due chilometri dal traguardo gli spasmi finalmente si calmarono, e potei rimettermi a correre. Dapprima a velocità moderata, poi gradualmente ritrovai il mio ritmo abituale, e alla fine, usando le mie ultime forze, riuscii persino a lanciarmi in un ultimo sprint. Comunque feci un tempo pietoso.
Il motivo del mio smacco mi era chiarissimo. Non mi ero allenato abbastanza, non mi ero allenato abbastanza, non mi ero allenato abbastanza. Tutto qui. Non avevo corso a sufficienza, non avevo perso sufficiente peso. Nella mia presunzione, mi ero inconsapevolmente fatto l’idea che allenandomi «più o meno», in qualche modo sarei riuscito a correre per quarantadue chilometri. La barriera tra una sana fiducia in se stessi e un malsano orgoglio è molto sottile. Da giovane, forse sarei riuscito a partecipare a una maratona anche allenandomi «più o meno», solo con le forze che avevo accumulato in precedenza, senza esercitarmi al di là dei miei limiti. Magari sarei pure riuscito a fare un tempo decente. Purtroppo però la giovinezza era lontana. Dovevo pagare il prezzo dovuto, ero arrivato a un’età in cui non si ricevono più regali.
Quella volta mi dissi seriamente che non volevo mai più ridurmi in condizioni simili. Mai più sentire tanto freddo e provare tanta costernazione, no grazie. Dovevo mettercela tutta e ricominciare da zero. Allenarmi scrupolosamente e ricostruire le mie facoltà fisiche. Stringere bene le viti a una a una. Che risultato avrei ottenuto in quel modo, be’, si sarebbe visto. Sono questi i pensieri che avevo in testa mentre trascinavo le gambe scosse da spasmi, camminando nel vento gelido, con gli altri corridori che mi superavano uno dopo l’altro.
L’ho già detto all’inizio, io non sono uno che rifiuta di perdere. In una certa misura, penso che la sconfitta non si possa evitare. L’essere umano, qualunque essere umano, non può continuare a vincere in eterno. Nell’autostrada della vita, non si può sempre stare sulla corsia di sorpasso. Questo lo accetto. Ma ripetere lo stesso sbaglio, no. Da un insuccesso voglio imparare qualcosa che mi torni utile la volta successiva. Per lo meno finché mi è concessa la facoltà di farlo.
Per questa ragione, pur continuando ad allenarmi per la prossima maratona, quella di New York, mi sono seduto alla scrivania e sto scrivendo queste pagine. Ripesco a una a una nella mia memoria le cose che sono successe più di vent’anni fa, quando ero un corridore agli inizi, seguo il filo dei ricordi, rileggo il breve diario che tenevo all’epoca (non sono il tipo capace di tenere sistematicamente un diario, ma riguardo alla corsa l’ho fatto con una certa cura) e metto ordine nel tutto. Lo faccio sia per ritrovare le orme della strada percorsa finora, sia per rivivere il sentimento che provavo all’epoca. Tanto per ammonirmi quanto per incoraggiarmi. E anche per rimettere in moto quell’impulso che a partire da un certo momento si è addormentato. Si può dire che stia scrivendo per dare uno sviluppo coerente ai miei pensieri. Alla fine – le cose trovano la loro forma sempre alla fine – ne nascerà una raccolta di memorie incentrate sull’azione di correre.
Ad ogni modo, ciò che ora mi tiene in ansia non è tanto scrivere «le mie memorie», quanto risolvere un problema pratico: in che modo posso riuscire a fare un tempo anche solo decente alla maratona di New York che avrà luogo fra due mesi? Come posso preparare il mio corpo a questo scopo? È questa al momento la mia principale preoccupazione.
Il 25 agosto è stata realizzata una sequenza fotografica per la rivista americana «Runners’ World». Dalla California è venuto un fotografo che per tutta la giornata mi ha scattato fotografie. Era un giovane pieno di entusiasmo che si chiamava Greg. Ha portato in aereo fino all’isola di Kauai un armamentario che avrebbe potuto riempire un furgoncino. Poco prima ero stato intervistato da un giornalista, e le foto scattate da Greg erano destinate ad accompagnare l’articolo. Ritratti, istantanee di me che corro. Ho sentito che non sono molti gli scrittori che partecipano regolarmente alle maratone (non è che manchino del tutto, ma sono davvero pochi), e il mio modo di vivere in quanto «scrittore che corre» pare presenti qualche interesse. «Runners’ World» è una rivista molto diffusa negli Stati Uniti fra le persone che praticano la corsa a piedi, quindi è probabile che a New York molti concorrenti mi riconoscano e mi salutino. A questo pensiero mi sento un po’ teso, non potrò permettermi di fare figuracce il giorno della gara.
Torniamo al 1983. All’epoca i Duran Duran e gli Hall & Oates erano sulla cresta dell’onda. Sembra che sia passata un’eternità.
Nel luglio di quell’anno andai in Grecia e percorsi da solo, correndo, la strada che porta da Atene a Maratona. Insomma feci all’incontrario il percorso originario. Perché decisi di procedere in quel modo? Per trovare meno traffico: se partivo dal centro il mattino presto e uscivo dalla periferia prima che cominciasse l’ora di punta – e quindi prima che l’aria fosse troppo inquinata – mi sarebbe stato più facile correre. Perché ovviamente nessuno avrebbe bloccato il traffico per me, visto che non era il giorno della gara e agivo di mia iniziativa.
Il motivo che mi aveva indotto ad andare fino ad Atene per compiere quell’exploit: la redazione di una rivista mi aveva chiesto se volevo partecipare a un viaggio in Grecia e scriverne il resoconto. Era un viaggio organizzato ufficialmente e pubblicizzato dai media, lo sponsor era l’Agenzia per il Turismo del governo greco, che aveva coinvolto diverse riviste. Il programma includeva la visita ad antiche rovine e una crociera nell’Egeo; al termine però il volo di ritorno era aperto, potevo restare lì quanto volevo e fare quel che mi pareva. Io non avevo il minimo interesse per quel genere di viaggi organizzati, ma ero attirato dalla possibilità di disporre liberamente del mio tempo alla fine. Perché, dopo tutto, la Grecia era la terra originaria della maratona. E volevo vederne il tracciato con i miei occhi. Con ogni probabilità avrei potuto farne un tratto con le mie gambe. Per me che ero appena diventato un corridore, sarebbe stata di sicuro un’esperienza emozionante.
A quel punto mi dissi: «Fermo un momento! Perché soltanto un tratto? Mentre ci sono, perché non provo a coprire tutto il percorso?»
Appena lanciai quell’idea, i redattori della rivista in questione si dichiararono d’accordo: «Sì, sembra interessante», mi dissero. E così per la prima volta in vita mia feci da solo, in silenzio, una maratona intera. Senza spettatori, senza striscioni al traguardo, senza gente che lanciasse fiori o grida di incoraggiamento. Comunque era il percorso originario. Cosa potevo desiderare di più?
In realtà da Atene fino a Maratona non ci sono i 42,195 chilometri regolamentari. Mancano quasi due chilometri. Me ne resi conto diversi anni dopo, quando partecipai sul serio alla maratona di Atene – questa volta nel verso giusto. Chi ha guardato la gara alla televisione durante le Olimpiadi del 2004 lo ricorderà, i concorrenti a un certo punto hanno svoltato a sinistra, hanno fatto un lungo giro su una via laterale e poi sono tornati sulla strada principale. Questo per compensare la distanza mancante. A quel tempo però io questo non lo sapevo e andai direttamente dal centro di Atene a Maratona, convinto di aver percorso quarantadue chilometri. Invece erano solo una quarantina. Però nella città avevo svoltato diverse volte, e il contachilometri della macchina che mi accompagnava ne segnava quarantadue e rotti, quindi può darsi che in fin dei conti abbia portato a termine una maratona regolamentare. Comunque adesso non me ne importa più nulla.
L’evento ebbe luogo in piena estate. In estate ad Atene – come saprà bene chi ci è stato – fa un caldo al di là di ogni immaginazione. La gente del posto non esce di casa se non ne ha davvero bisogno. Se ne sta tranquilla all’ombra, al fresco, a fare la siesta e risparmiare energie. Solo al calar della sera tutti finalmente escono per dedicarsi a varie attività. In estate, in Grecia, a girare per le strade il pomeriggio probabilmente sono soltanto i turisti. Persino i cani restano sdraiati all’ombra senza fare il più piccolo movimento. Si può restare a guardarli a lungo senza capire se siano vivi o morti. A tal punto fa caldo. Bisogna essere pazzi per fare quarantadue chilometri di corsa in pieno luglio.
Quando dicevo che intendevo correre da solo da Atene a Maratona, i Greci, tutti senza eccezione, mi rispondevano: «Lasci perdere, è una sciocchezza. Una persona sensata non farebbe mai una cosa del genere». Io, che non sapevo nulla riguardo all’estate ateniese, finché non mi trovai sul posto non me ne curai. Determinato a portare a termine l’impresa, mi preoccupavo soltanto della distanza, la temperatura non entrava nei miei calcoli. Ma quando arrivai ad Atene, il caldo era tale che ne restai stupefatto. Cominciai a pensare che forse avevano ragione a dirmi che era più sensato lasciar perdere. Peccato che avessi dichiarato di voler fare con le mie gambe tutto il percorso della maratona originaria e scriverci su un articolo, e a quello scopo fossi venuto fin lì. Ormai non potevo più tirarmi indietro. Dopo essermi consultato con diverse persone, giunsi alla conclusione che, per non rischiare il collasso da calore eccessivo, l’unica possibilità era partire da Atene il mattino presto, quando faceva ancora buio, e arrivare alla meta prima che il sole fosse alto nel cielo. Più tempo avessi impiegato, più in fretta la temperatura sarebbe salita. Era, alla lettera, una corsa contro...

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