Teoria estetica
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Teoria estetica

Theodor W. Adorno, Fabrizio Desideri, Giovanni Matteucci

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Teoria estetica

Theodor W. Adorno, Fabrizio Desideri, Giovanni Matteucci

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Teoria estetica, che qui si presenta in una nuova traduzione attenta a restituirne le peculiarità stilistico-espressive, è l'ultima opera a cui ha lavorato Adorno. Rimasto allo stato di grande frammento per l'improvvisa morte dell'autore (1969), questo testo rappresenta l'estremo punto di approdo della riflessione adorniana, che si volge alla realtà dell'arte rimeditando esperienze che hanno segnato il Novecento (da Valéry a Beckett, da Schönberg a Celan, da Klee a Brecht), per tentare però di cogliere le dinamiche costitutive dell'opera d'arte in generale e documenta un pensiero all'atto del suo stesso istituirsi nel confronto con ciò che maggiormente sfugge alla discorsività razionale, appunto la dimensione concreta dell'arte. L'estetico viene inteso da Adorno come il luogo di massima negatività per la ragione, ma non nel senso di qualcosa da esiliare nell'irrazionale, bensí nel senso di ciò che, in quanto costitutivamente altro, muove dall'interno e sollecita il pensiero dialettico nell'epoca della piena affermatività. La presa di distanza da facili schemi ideologici che riducono la creazione artistica a veicolo di messaggi, la demistificazione dell'edonismo che impera nella concezione dell'esperienza estetica propria del senso comune borghese, la sottile analisi delle implicazioni sottese ai rapporti dialettici tra arte, natura e mito, e non da ultimo la lucida enucleazione delle difficoltà in cui è invischiata la stessa tradizione della filosofia moderna dell'arte, fanno di Teoria estetica di Adorno uno dei massimi testi del Novecento filosofico ed estetico, in grado di dialogare con l'orizzonte culturale dell'odierna contemporaneità.

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2013
ISBN
9788858410004

TEORIA ESTETICA

Arte, società, estetica.
La perduta ovvietà dell’arte. È diventato un’ovvietà il fatto che nulla di quello che concerne l’arte sia piú ovvio, né in essa né nel suo rapporto con l’intero, nemmeno il suo diritto a esistere. La perdita di cose da fare senza riflettere o in modo non problematico non è compensata da quella sconfinata infinità di ciò che è diventato possibile di fronte alla quale si vede posta la riflessione. L’ampliamento si dimostra in molte dimensioni una contrazione. Il mare dell’insospettato, sul quale si sono avventurati i movimenti artistici rivoluzionari intorno al 1910, non ha avuto la fantastica fortuna auspicata. Anzi, il processo allora messo in moto ha corroso le categorie nel cui nome era cominciato. Sempre piú cose sono state afferrate nel vortice di nuovi tabú; dappertutto gli artisti, piú che rallegrarsi del regno della libertà appena conquistato, si sono rimessi subito alla ricerca di un preteso ordine ben presto incapace di reggere. Infatti la libertà assoluta dell’arte, ossia pur sempre di qualcosa di particolare, finisce in contraddizione con il perenne stato di illibertà vigente nell’intero. In quest’ultimo il posto dell’arte è diventato incerto. L’autonomia che essa ha raggiunto dopo essersi sbarazzata della propria funzione cultuale e delle relative imitazioni si nutriva dell’ideale di umanità. Essa è stata tanto piú sconvolta quanto meno umana è diventata la società. Nell’arte, in forza della sua peculiare legge di movimento, hanno perso vigore gli elementi costitutivi di cui l’ideale di umanità l’aveva arricchita. È vero che la sua autonomia resta irrevocabile. Tutti i tentativi di risarcire l’arte attribuendole una funzione sociale, cosa di cui essa dubita e afferma di dubitare, sono falliti. Ma la sua autonomia comincia a rivelare un momento di cecità. L’arte ne è sempre stata affetta; ma nell’epoca della sua emancipazione tale momento ne mette in ombra ogni altro, nonostante o forse proprio causa lo smaliziamento a cui l’arte, come già pensava Hegel, non può piú sottrarsi. Ciò si unisce poi con un’ingenuità al quadrato, con l’incertezza sul fine estetico. È incerto se l’arte in generale sia ancora possibile; se essa, a seguito della propria completa emancipazione, non abbia da sé messo in pericolo e perduto i propri presupposti. Sorge la questione di che cosa essa fosse una volta. Le opere d’arte vengono fuori dal mondo empirico e ne producono uno che ha un’essenza peculiare che gli si contrappone, come se anche questo fosse qualcosa di essente. Perciò, per quanto facciano le tragiche, esse tendono a priori all’affermazione. I cliché del conciliante lucore che dall’arte si spanderebbe sulla realtà sono ripugnanti non solo perché, con il loro armamentario borghese, fanno la parodia del concetto enfatico di arte inserendola tra gli spettacoli consolatori della domenica. Essi rimestano nella piaga dell’arte stessa. Per il suo inevitabile distacco dalla teologia, dalla pretesa integrale alla verità della redenzione, secolarizzazione senza la quale l’arte non si sarebbe sviluppata, quest’ultima si condanna a offrire all’essente e al vigente una consolazione che, priva della speranza in qualcosa d’altro, rafforza la signoria di ciò da cui vorrebbe affrancarsi l’autonomia dell’arte. Di tale consolazione è sospettato lo stesso principio di autonomia: dal momento che esso pretende di porre da sé la totalità, qualcosa a tutto tondo, in sé conchiuso, questa immagine si trasmette al mondo in cui l’arte si trova e che la genera. Rinunciando all’empiria – cosa che non è un semplice escape ma è insita nel suo concetto, è una legge che le è immanente – essa ne sanziona il predominio. In un saggio Helmut Kuhn ha riconosciuto all’arte, come suo titolo di merito, il fatto che ognuna delle sue opere ne sarebbe una glorificazione1. La sua tesi sarebbe vera se fosse critica. A guardare ciò che è diventata la realtà, si è resa insopportabile l’essenza affermativa dell’arte, per essa inevitabile. L’arte deve volgersi contro ciò che costituisce il suo proprio concetto, e pertanto diventa incerta fin nella piú intima fibra. E tuttavia non la si può liquidare negandola astrattamente. Dal momento che aggredisce quella che per l’intera tradizione si è garantito che fosse la sua concezione di base, essa muta qualitativamente, diventa a sua volta qualcosa di altro. Riesce a farlo perché nel corso dei tempi, con la propria forma, tanto si è volta contro il meramente esistente, il vigente, quanto dando forma agli elementi del vigente è venuta in soccorso a quest’ultimo. Come non va ricondotta alla formula generale della consolazione, cosí neanche a quella del suo opposto.
Contro la questione dell’origine. L’arte ha il proprio concetto in questa costellazione di momenti che muta storicamente; esso è refrattario alla definizione. Neppure l’essenza dell’arte è deducibile dalla sua origine, come se quanto è venuto per primo fosse uno strato fondamentale su cui tutto ciò che segue poggiasse, crollando appena quello fosse scosso. Credere che le prime opere d’arte siano le piú elevate e le piú pure è romanticismo quanto mai tardivo; con non minor diritto si potrebbe sostenere che le primissime creazioni di carattere artistico, non separate da pratiche magiche, documentazione storica, scopi pragmatici come quello di farsi sentire a grande distanza con grida o suoni musicali, fossero confuse e impure; la concezione classicistica si è spesso servita di tali argomenti. Dal punto di vista seccamente storico i dati si smarriscono nel vago2. Il tentativo di sussumere ontologicamente sotto un motivo supremo la genesi storica dell’arte si disperderebbe necessariamente in qualcosa di cosí disparato che alla teoria non resterebbe in mano nient’altro che la scoperta, indubbiamente rilevante, che non è possibile ordinare le arti in base a un’identità continua dell’arte3. Nelle considerazioni dedicate alle ἀρχαί estetiche proliferano selvaggiamente fianco a fianco le raccolte positivistiche di materiali e la speculazione altrimenti detestata dalla scienza; l’esempio maggiore è forse Bachofen. Se d’altro canto, secondo un costume filosofico, si volesse distinguere categoricamente la cosiddetta questione dell’origine, in quanto questione dell’essenza, da quella genetica relativa alla preistoria, allora ci si dimostrerebbe colpevoli di arbitrio, perché cosí facendo si impiegherebbe il concetto di origine contro il suo significato letterale, che va in direzione opposta. La definizione di che cos’è l’arte è sempre prefigurata da ciò che essa un tempo è stata, ma si legittima solo in riferimento a ciò che essa è diventata, aperta verso ciò che essa vuole diventare e forse può diventare. Pur dovendo tener ferma la propria differenza dalla mera empiria, l’arte muta in se stessa qualitativamente; molte cose, ad esempio prodotti cultuali, nel corso della storia si trasformano nell’arte che non sono state; molte cose che erano arte non lo sono piú. La questione posta dall’alto, se un fenomeno come il film sia o meno anch’esso arte, non porta da nessuna parte. L’essere-divenuta dell’arte rimanda il suo concetto a ciò che essa non racchiude. La tensione tra ciò da cui l’arte ha ricevuto impulso e il passato di essa delimita le cosiddette questioni estetiche costitutive. L’arte si può chiarire solo facendo riferimento alla sua legge di movimento, non ricorrendo a invarianti. Si determina in rapporto a ciò che non è. Quel che in essa è specificamente artistico va dedotto dal suo altro: contenutisticamente; solo questo potrebbe soddisfare in qualche modo l’esigenza di un’estetica materialistico-dialettica. L’arte si specifica in relazione a ciò per cui si separa da ciò a partire da cui è divenuta; la sua legge di movimento è la sua propria legge formale. Essa sussiste solo nel rapporto con il proprio altro, è il processo che chiama in causa quest’ultimo. Per un’estetica orientata in modo diverso è assiomatico quel che il tardo Nietzsche è giunto a conoscere opponendosi alla filosofia tradizionale, ossia che anche il divenuto può essere vero. La concezione tradizionale che egli ha demolito andrebbe capovolta: la verità sussiste unicamente come divenuto. Ciò che nell’opera d’arte si presenta come sua propria legalità è tardo prodotto dell’evoluzione interna alla tecnica cosí come del collocarsi dell’arte all’interno di una secolarizzazione progressiva; è però indiscutibile che le opere d’arte sono diventate opere d’arte solo negando la propria origine. Non bisogna nemmeno rimproverargli come peccato originale la vergogna della loro antica dipendenza dall’incanto, dal servaggio e dal divertissement, dal momento che esse finalmente con effetto retroattivo hanno annientato ciò da cui sono nate. La musica conviviale non è destino ineludibile di quella liberata, cosí come non è stata un servizio rispettabile reso all’uomo a cui l’arte autonoma si sottrarrebbe peccando. Il suo spregevole strepitio non diventa migliore per il fatto che la parte di gran lunga prevalente di tutto quello che oggi arriva agli uomini come arte aumenta l’eco di tale fracasso.
Contenuto di verità e vita delle opere. La previsione di Hegel di un possibile perire dell’arte è conforme all’essere-divenuta di questa. Che egli la pensasse come transitoria, e nondimeno l’assegnasse allo spirito assoluto, è in armonia con il carattere ancipite del suo sistema, ma induce a una conseguenza che egli non avrebbe mai tratto: il contenuto dell’arte, il suo assoluto stando alla concezione hegeliana, non è assorbito nella dimensione del vivere e morire di essa. Essa potrebbe avere il proprio contenuto nella sua propria transitorietà. È concepibile, e non è una possibilità meramente astratta, che la grande musica – qualcosa di tardo – sia stata possibile solo in un periodo circoscritto dell’umanità. La rivolta dell’arte contro il mondo storico, teleologicamente implicata dalla sua “posizione nei confronti dell’obiettività”, è diventata la sua rivolta contro l’arte; ozioso profetizzare se essa sopravviverà. Ciò riguardo a cui una volta il pessimismo culturale reazionario strepitava, la critica della cultura non deve reprimere: ossia che, come pensava Hegel centocinquant’anni fa, l’arte potrebbe essere entrata nell’epoca del proprio tramonto. Come la colossale parola di Rimbaud cento anni fa ha compiuto in se stessa la storia della nuova arte anticipandola e portandola all’estremo, cosí il suo tacere, il suo rientrare nei ranghi da impiegato, ha anticipato la tendenza. L’estetica oggi non può decidere se diventare o meno necrologio dell’arte; neppure però può recitare la parte dell’oratore funebre; non può constatare genericamente la fine, ristorarsi con il passato e, non importa a quale titolo, passare dalla parte della barbarie, non migliore della cultura che si è meritata la barbarie come ritorsione per la propria barbarica insostanzialità. Il contenuto dell’arte passata, a prescindere dal fatto che l’arte venga soppressa, si sopprima, muoia o prosegua disperata, non deve però svanire necessariamente anch’esso. Potrebbe sopravvivere all’arte in una società che fosse diventata libera dalla barbarie della propria cultura. Non solo forme, ma innumerevoli materie sono ormai morte: la letteratura sull’adulterio, che riempie la parte vittoriana del XIX e degli inizi del XX secolo, non si può piú riproporre in forma diretta dopo la dissoluzione del nucleo familiare alto-borghese e l’allentamento della monogamia; sopravvive a stento e capovolta solo nella letteratura volgare dei rotocalchi. Egualmente, però, ciò che è autentico di Madame Bovary, un tempo immerso nel suo contenuto oggettivo, già da molto tempo ha superato quest’ultimo e la sua decadenza. Ciò non deve peraltro indurre all’ottimismo in cui incorre la filosofia della storia quando crede nello spirito invincibile. Il contenuto materiale può anche, in piú, trascinare nella propria caduta. Ma arte e opere d’arte, non solo in quanto eteronomamente dipendenti ma anche una volta avviata la costituzione della loro autonomia che ratifica l’assetto sociale di uno spirito basato sulla divisione del lavoro e scisso, sono caduche perché oltre a essere arte sono anche qualcosa di estraneo, contrapposto a quest’ultima. Al loro proprio concetto è mescolato il fermento che lo dissolve.
Sul rapporto di arte e società. Indispensabile resta per la rottura estetica ciò che viene rotto; per l’immaginazione ciò che essa rappresenta. Questo vale anzitutto per l’immanente conformità a scopi. In rapporto alla realtà empirica l’arte sublima il principio là vigente del sese conservare a ideale dell’esser-sé dei propri prodotti; come diceva Schönberg, si dipinge un’immagine, non quel che essa raffigura. Di per sé ogni opera d’arte vuole quell’identità con se stessa che nella realtà empirica viene imposta con violenza, senza perciò ottenerla, a tutti gli oggetti in quanto identità con il soggetto. L’identità estetica deve soccorrere il non-identico oppresso dalla coercizione identitaria all’interno della realtà. Solo in virtú della separazione dalla realtà empirica, che permette all’arte di modellare il rapporto tra intero e parti secondo la propria esigenza, l’opera d’arte diventa essere alla seconda potenza. Le opere d’arte sono copie del vivente empirico nella misura in cui concedono a quest’ultimo ciò che a loro fuori viene rifiutato, e pertanto lo liberano da ciò a cui le riduce la loro esperienza cosale-esteriore. Benché la linea di demarcazione tra l’arte e l’empiria non possa essere cancellata, meno che mai attraverso l’eroizzazione dell’artista, le opere d’arte hanno comunque vita sui generis. Non è semplicemente il loro destino esteriore. Quelle di rilievo mostrano sempre nuovi strati, invecchiano, si spengono, muoiono. Il fatto che in quanto artefatti, produzioni umane, non vivano in maniera diretta come esseri umani, è una tautologia. Ma l’accento sul momento dell’artefatto nell’arte riguarda meno il suo esser-prodotta che il suo peculiare esser-cosí, a prescindere da come essa si sia realizzata. Esse sono viventi in quanto parlano, in una maniera che è negata agli oggetti naturali e ai soggetti che le hanno fatte. Parlano in virtú della comunicazione di tutto ciò che è singolo al loro interno. Entrano perciò in contrasto con la frammentarietà del meramente essente. Ma proprio in quanto artefatti, prodotti di lavoro sociale, comunicano anche con l’empiria che revocano, e da essa traggono il proprio contenuto. L’arte nega le determinazioni apposte categorialmente all’empiria e tuttavia serba nella propria sostanza l’empiricamente essente. Poiché si oppone all’empiria mediante il momento della forma – e la mediazione di forma e contenuto non si può capire senza la loro distinzione –, la mediazione va in generale cercata, in un qualche modo, nel fatto che la forma estetica sarebbe contenuto sedimentato. Le forme all’apparenza piú pure, quelle musicali della tradizione, risalgono fino in ogni dettaglio idiomatico a qualcosa di contenutistico come la danza. Gli ornamenti spesso sono stati in altri tempi simboli cultuali. Riferire all’indietro forme estetiche a contenuti, come ha fatto la scuola dell’Istituto Warburg per quel che riguarda l’oggetto specifico della sopravvivenza dell’antichità, sarebbe un’operazione da compiere in maniera piú estesa. La comunicazione delle opere d’arte con l’esteriore, con il mondo davanti a cui esse si chiudono felicemente o infelicemente, avviene però mediante non-comunicazione; proprio in ciò esse si dimostrano fratte. Si potrebbe facilmente pensare che il loro regno autonomo non ha piú niente in comune con il mondo esteriore, se non elementi presi a prestito che entrano in un contesto completamente mutato. È tuttavia incontestabile la banalità storico-spirituale secondo cui lo sviluppo dei procedimenti artistici, sussunto per lo piú sotto il concetto dello stile, corrisponde a quello sociale. Anche l’opera d’arte piú sublime assume una posizione determinata nei confronti della realtà empirica uscendo dalla sua signoria, non una volta per tutte, ma sempre di nuovo concretamente, in polemica inconsapevole contro il modo in cui tale signoria si pone rispetto al momento storico. Che le opere d’arte in quanto monadi senza finestre “rappresentino” quel che esse non sono, non si può capire altrimenti che grazie al fatto che la loro dinamica peculiare, la loro immanente storicità in quanto dialettica di natura e di dominazione della natura, non solo è della stessa essenza di quella esteriore, bensí in sé le assomiglia senza imitarla. La forza produttiva estetica è identica a quella del lavoro utile e ha in sé la medesima teleologia; e ciò che si può chiamare rapporto di produzione estetico, tutto ciò in cui la forza produttiva si trova inserita e di cui si occupa, è costituito da sedimenti o calchi di quella sociale. Il carattere ancipite dell’arte, in quanto autonoma e in quanto fait social, si comunica incessantemente alla regione della sua autonomia. In tale relazione con l’empiria le opere d’arte, neutralizzate, traggono in salvo ciò di cui un tempo gli uomini hanno fatto esperienza letteralmente e integralmente per quel che attiene all’esistenza, e ciò che lo spirito ha cacciato da essa. Partecipano all’illuminismo perché non mentono: non simulano la letteralità di ciò che parla da esse. Sono però reali come risposte alla forma interrogativa di ciò che viene loro incontro dall’esterno. La loro propria tensione assume validità in rapporto a quella esterna. Gli strati di base dell’esperienza che motivano l’arte sono apparentati al mondo oggettuale davanti al quale si ritraggono. Gli antagonismi irrisolti della realtà si ripresentano nelle opere d’arte come i problemi immanenti della loro forma. Questo, non la trama di momenti oggettuali, determina il rapporto dell’arte con la società. I rapporti di tensione nelle opere d’arte si cristallizzano puramente in queste e, grazie alla loro emancipazione dalla facciata fattuale dell’esteriore, attingono l’essenza reale. L’arte, χωρίς dall’empiricamente esistente, si pone nei confronti di ciò in modo conforme all’argomento di Hegel contro Kant: appena si pone una barriera, con questa posizione la si supera già e si accoglie in sé ciò contro cui la si era eretta. Solo in questo, non nel moralizzare, consiste la critica al principio dell’art pour l’art che sulla base di una negazione astratta fa del χωρισµός l’uno-tutto dell’arte. La libertà delle opere d’arte, di cui la loro autocoscienza si fa vanto e senza di cui esse non sarebbero, è l’astuzia della loro propria ragione. Tutti i loro elementi le incatenano a ciò il cui superamento costituisce la loro fortuna e in cui, però, minacciano in ogni momento di sprofondare. In rapporto alla realtà empirica esse ricordano il teologumeno per il quale nello stato di redenzione tutto sarebbe come è e nondimeno tutto sarebbe completamente diverso. È evidente l’analogia con la tendenza del mondo profano a secolarizzare l’ambito sacrale fino a che questo si conserva, ma solo secolarizzato; l’ambito sacrale viene per cosí dire oggettualizzato, circondato da una palizzata, perché il suo proprio momento di non-verità attende la secolarizzazione tanto quanto se ne difende esorcizzandola. Pertanto il puro concetto di arte non rappresenterebbe l’estensione di un ambito garantito una volta per tutte, ma si produrrebbe di volta in volta, in un equilibrio temporaneo e fragile piú che semplicemente paragonabile a quello psicologico di Io ed Es. Il processo del respingersi deve continuamente rinnovarsi. Ogni opera d’arte è un attimo; ogni opera d’arte riuscita è una parità, un momentaneo arrestarsi del processo che essa mostra di essere all’occhio che indugia. Essendo risposte alla loro propria domanda, le opere d’arte diventano in tal modo esse stesse a maggior ragione domande. La propensione a percepire l’arte in maniera extraestetica o preestetica, finora non pregiudicata dalla cultura peraltro a sua volta fallita, non è solo un residuo barbarico o un bisogno della coscienza di chi regredisce. Qualcosa nell’arte la favorisce. Se viene percepita in maniera prettamente estetica, essa non viene percepita in maniera correttamente estetica. Solamente dove l’altro dell’arte viene sentito insieme, come uno dei primi strati dell’esperienza di essa, si può sublimare l’arte, si può dissolvere il vincolo materiale, senza che l’essere-per-sé dell’arte diventi qualcosa di insignificante. Essa è per sé e non lo è, perde la propria autonomia in assenza di ciò che le è eterogeneo. I grandi componimenti epici, che hanno sopportato anche il proprio oblio, ai loro tempi erano mescolati con notizie storiche e geografiche; l’artista Valéry ha messo a fuoco quanto nei poemi omerici, come in quelli pagani germanici e in quelli ...

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