I fratelli Karamazov
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I fratelli Karamazov

Con «Dostoevskij e il parricidio» di Sigmund Freud

Fëdor Dostoevskij, Agostino Villa

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Con «Dostoevskij e il parricidio» di Sigmund Freud

Fëdor Dostoevskij, Agostino Villa

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« I fratelli Karamazov sono il romanzo piú grandioso che mai sia stato scritto, l'episodio del Grande Inquisitore è uno dei vertici della letteratura universale, un capitolo di bellezza inestimabile... Non è certo un caso che tre capolavori di tutti i tempi trattino lo stesso tema, il parricidio: alludiamo all'Edipo re di Sofocle, all'Amleto di Shakespeare e ai Fratelli Karamazov di Dostoevskij. In tutte e tre le opere è messo a nudo anche il motivo del misfatto: la rivalità sessuale per il possesso della donna...» Sigmund Freud

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2014
ISBN
9788858411322
Subtopic
Classici

Parte quarta

Libro decimo

Ragazzi

I.

Kolja Krasotkin

Novembre agl’inizi: da noi, gelo d’undici gradi, e con esso, ghiaccio nudo. Sulla terra gelata è caduta, la notte, un pochino di neve asciutta, e il vento «secco e tagliente» la solleva e la rammulina per le tediose vie della nostra cittadina, soprattutto sulla piazza del mercato. Mattinata torbida, ma il nevischio è cessato. Poco lontano dalla piazza, nei paraggi del negozio dei Plotnikov, sorge, non grande ma ben rassettata all’esterno e all’interno, la casetta della vedova dell’impiegato Krasotkin. Lui, il segretario di governatorato Krasotkin, è morto già da gran tempo, saranno ormai quattordici anni; ma la vedova, una piccola e tuttora graziosa signora sulla trentina, è ben viva, e vive nella sua piccola e nitida casa «con le proprie rendite». Conduce vita onesta e ritirata; è di carattere sensitivo, ma piuttosto allegro. Rimase vedova a diciott’anni, dopo aver passato con il marito non piú d’un anno, e avergli di fresco partorito un figliuolo. Da allora, dalla morte di lui, s’è consacrata tutta all’educazione del suo cucco, Kolja: e benché nel corso di questi quattordici anni lo abbia amato sempre pazzamente, certo è che, tirando le somme, ha avuto a passare con lui senza confronto piú sofferenze, che non n’abbia ricavato gioie, con tutto quel continuo trepidare e stare in batticuore che non gli s’ammalasse, non prendesse il raffreddore, non facesse birichinate, non s’arrampicasse sulla sedia e ne facesse un capitombolo, ecc. ecc. Quando poi Kolja aveva cominciato a frequentar la scuola, e piú tardi il nostro ginnasio, allora la mamma s’era data a corpo morto a studiare con lui tutte le materie, in modo da poterlo aiutare e da ripetere insieme le lezioni; e s’era data anche ad annodar conoscenze coi professori e con le loro consorti, e perfino a vezzeggiare i compagni di Kolja, gli studentelli, e a far la complimentosa con loro, purché non infastidissero Kolja, non si beffassero di lui, non lo picchiassero. Aveva spinto le cose al punto, che i ragazzetti cominciarono effettivamente, per colpa sua, a beffarsi di lui, e a prenderlo in giro come un «mammone». Senonché, il ragazzo si sapeva difendere. Era un ragazzetto ardito, «d’una forza tremenda», secondo la fama che s’era diffusa, e in breve stabilita, in classe sua; svelto, puntiglioso di carattere, di spirito audace e intraprendente. Riusciva bene negli studi, e anzi correva la leggenda che, sia in aritmetica sia in storia universale, battesse perfino il maestro, Dardanelov. Ma il ragazzo, seppure guardava a tutti dall’alto in basso, arricciando il suo nasetto, era però un buon compagno e non faceva il superbo. La stima degli altri scolari la accettava come cosa debita, ma manteneva con loro maniere assai amichevoli. Soprattutto, aveva il senso della misura, sapeva all’occasione dominar se stesso, e nei rapporti coi superiori non oltrepassava mai quell’estremo, inviolabile limite, oltre il quale l’azione non può essere piú tollerata, e degenera in indisciplina, in rivolta e in prevaricazione. Eppure non era lieve davvero, tutt’altro, l’inclinazione che aveva a fare il birichino appena il caso se ne presentasse, fare il birichino come qualunque altro monello, e non tanto fare il birichino, quanto andare a scovare il pel nell’uovo, da far rimanere gli altri a bocca aperta o con un palmo di naso, e dar loro una buona «lezioncina», e insomma fare un po’ il bravaccio. Il fatto è che era assai orgoglioso. Perfino con la mamma aveva avuto l’abilità di porsela in un rapporto di soggezione, esercitando su lei un’influenza quasi dispotica. Ed essa gli s’era assoggettata, oh, già da gran tempo gli s’era assoggettata: e la sola cosa che non potesse tollerare era il pensiero che il suo ragazzo le «volesse poco bene». Aveva, incessantemente, l’impressione che Kolja fosse «insensibile» verso di lei; e c’eran dei momenti che, sciogliendosi in lacrime isteriche, si metteva a rimproverarlo di freddezza. Al ragazzo questo non piaceva: e quanto piú si esigevan da lui effusioni sentimentali, tanto piú, quasi a bella posta, lui si faceva recalcitrante. Ma era una reazione che in lui avveniva, non a bella posta, ma spontaneamente: tale era il suo carattere. La madre si sbagliava: alla sua mamma egli voleva gran bene, ma non gli piacevano, soltanto, le «tenerezze pecorine», come si esprimeva nel suo linguaggio studentesco. Del padre morto era rimasta in casa una libreria, in cui si conservava un certo numero di volumi: Kolja aveva passione per la lettura, e per proprio conto ne aveva già letti alcuni. La madre, di questo, non si dava pensiero: solo, a volte, restava meravigliata che questo ragazzo, invece di andar a giocare, si trattenesse là accanto a quello scaffale per ore e ore su uno di quei vecchi libri. E cosí Kolja aveva potuto leggere qualche cosa, che ancora non si sarebbe dovuto dargli a leggere alla sua età. Ma, a parte questo, negli ultimi tempi, sebbene al ragazzo non piacesse oltrepassare nei suoi tiri un certo limite, pure eran cominciati a venir fuori certi tiri, che avevano spaventato la madre seriamente: non già che fossero, non so, contrari alla morale, ma erano, in compenso, disperati, scapestrati. Appunto quest’estate, nel luglio, durante le vacanze, era avvenuto che mamma e figliuolo fossero andati a passare una settimana in un altro distretto, a settanta miglia di qui, ospiti d’una lontana parente, il marito della quale era impiegato in una stazione ferroviaria (quella stessa stazione – la piú prossima alla nostra città – di dove Ivan Fëdorovič Karamazov, un mese fa, era partito per Mosca). Là Kolja aveva cominciato con l’osservare la linea ferroviaria per filo e per segno, e a prender pratica delle varie manovre, comprendendo che con queste sue nuove cognizioni avrebbe potuto far colpo, tornando a casa, fra gli scolari del suo ginnasio. Senonché, si trovavano sul posto, proprio in quel periodo, parecchi altri ragazzi, coi quali egli strinse amicizia: alcuni di questi abitavano alla stazione, altri nelle vicinanze, tutta roba giovane, dai dodici ai quindici anni: eran venuti a trovarsi insieme in sei o sette e tra mezzo ce n’erano due anche della nostra città. I ragazzi giocavano insieme, ne facevano di tutti i colori, ed ecco che il quarto o quinto giorno da che Kolja soggiornava alla stazione, era sorta fra quegli scapati, veramente inaudita, una scommessa di due rubli: Kolja, che fra tutti si poteva dire il piú piccolo, e perciò era alquanto disprezzato dai piú anziani, fosse per orgoglio, o per un imperdonabile gusto del pericolo, aveva proposto che lui, di notte, quando sarebbe passato il treno delle undici, si sarebbe steso fra i binari a boccasotto, e cosí steso sarebbe rimasto senza muoversi di pezzo, finché il treno non gli fosse passato sopra a tutto vapore. È vero ch’era stato fatto una specie di sopraluogo, da cui era risultato che, effettivamente, non era impossibile coricarsi a quel modo e appiattirsi lunghi fra i binari, e che il treno, in fin dei conti, sarebbe passato oltre senza sfiorare il giacente: ma, in ogni modo, che momenti sarebbero stati, da passar coricati là sotto! Kolja garantiva senza esitazioni che ci si sarebbe coricato. Lí per lí lo derisero, chiamandolo spacciafrottole e fanfarone: ma con questo non fecero che aizzarlo di piú. C’era il fatto, soprattutto, che quelli di quindici anni si davano già fin troppe arie con lui, e sulle prime non avevano voluto neppure considerarlo un compagno loro, come troppo «piccoletto»: ciò che era davvero un’intollerabile offesa. Finí che decisero di recarsi, la sera, a un miglio dalla stazione, per modo che il treno, ripartendo dalla stazione, avesse avuto tempo di riprendere in pieno la sua velocità. I ragazzi convennero all’appuntamento. La notte era scesa illune, cupa, anzi quasi nera. Quando venne l’ora, Kolja si stese fra i binari. Gli altri cinque della scommessa, col cuore sospeso, sopraffatti ormai dalla paura e dal rimorso, aspettavano da piedi al terrapieno della ferrovia, fra i cespugli. Finalmente si sentí di lontano il tuono del treno, che aveva lasciato la stazione. Spuntarono fra il tenebrore le due rosse faville dei fanali, cresceva il rombo del mostro che s’avvicinava. – Scappa, scappa via dai binari! – gridarono a Kolja di fra i cespugli, mezzi morti dallo spavento, i monelli: ma era troppo tardi: il treno era già sopra, e come un fulmine passò oltre. I ragazzi si slanciarono dov’era Kolja: stava là steso, immobile. Si diedero a scuoterlo, fecero per sollevarlo. D’improvviso, lui si rizzò, e senza far parola scendeva giú dal terrapieno. Quando fu sceso di sotto, spiegò che aveva fatto apposta a restar allungato come fuor di sensi, per mettere spavento a loro: ma la verità era che realmente aveva perduto i sensi, come poi confessò lui stesso, dopo un buon tratto di tempo, alla mamma. Con quest’episodio la sua fama di «disperato» s’era consolidata per sempre. Aveva fatto ritorno alla stazione bianco come un panno lavato. L’indomani, era caduto malato d’una lieve febbretta nervosa, ma di spirito era straordinariamente allegro, felice e contento. Il fatto non s’era divulgato subito, ma una volta pervenuto in città, era filtrato in ginnasio ed era giunto fino in direzione. Ma a questo punto la mammina di Kolja s’era precipitata a supplicare i superiori che perdonassero al suo ragazzo, e aveva fatto tanto ch’era riuscita a salvarlo, facendo intercedere a suo favore lo stimato e influente professor Dardanelov, cosicché la faccenda era stata messa a tacere, come se non fosse neanche accaduta.
Codesto Dardanelov, uno scapolo tutt’altro che vecchio, nutriva uno strano e ormai antico amore per la signora Krasotkin, e già una volta, l’anno avanti, con la massima deferenza, e tutto tremante di terrore e di delicatezza, s’era arrischiato a chiedere la mano di lei: ma, recisamente, essa gliel’aveva ricusata, ritenendo che un assenso sarebbe equivalso a un tradimento verso il suo ragazzo, anche se Dardanelov, da qualche indizio segreto, sarebbe stato forse in diritto di credersi non proprio antipatico all’adorabile, ma troppo casta e sensitiva vedovella. La pazza impresa di Kolja, a quanto sembra, aveva spezzato il ghiaccio, e a Dardanelov, in compenso della sua intercessione, era stato dato qualche barlume di speranza: lontanissimo, sí, ma anche lui, Dardanelov, era un fenomeno di purezza e di delicatezza, e quindi, per lui, bastava questo, intanto, perché si sentisse pienamente felice. Per il ragazzo, egli aveva dell’affetto, ma gli sarebbe parso umiliante cercar d’entrare nelle sue grazie, e in iscuola aveva con lui un contegno severo ed esigente. Ma poi Kolja, dal canto suo, ci pensava lui a mantenerlo a rispettosa distanza: eseguiva i suoi compiti in modo inappuntabile, era il secondo della classe, usava con Dardanelov un tono asciutto, e la classe intera era fermamente convinta che, in istoria universale, Kolja fosse tanto forte, da «battere» Dardanelov in persona. E, realmente, Kolja gli s’era rivolto, un giorno, colla domanda: chi sono stati i fondatori di Troia?, e Dardanelov non aveva saputo rispondere che sulle generali, parlando dei popoli, dei loro movimenti e trasmigrazioni, della notte dei tempi, della mitologia; ma chi precisamente avesse fondato Troia, vale a dire proprio quali persone, non era stato capace di dirlo, e anzi aveva avuto le sue buone ragioni per giudicar la questione oziosa e insolubile. I ragazzi, però, eran rimasti con la convinzione che Dardanelov non sapeva chi avesse fondato Troia. Kolja era andato a leggersi, lui, il paragrafo sui fondatori di Troia nello Smaragdov, che c’era tra i volumi di quella tal libreria, lasciata dal padre. E finí che tutti, anche i ragazzi, s’appassionarono a quella questione, chi avesse precisamente fondato Troia: ma Krasotkin si guardò bene dal rivelare il suo segreto, e la fama di erudizione gli rimase acquisita incrollabilmente.
Dopo l’incidente della ferrovia, era avvenuto in Kolja, nei suoi rapporti con la madre, un certo mutamento. Quando Anna Fëdorovna (la vedova Krasotkin) era venuta a conoscenza dell’impresa del figliuolo, per poco non era impazzita dallo spavento. Era stata colta da attacchi isterici tremendi, che le si prolungavano, con qualche intervallo, parecchi giorni di seguito, tanto che, spaventato ormai seriamente, Kolja le aveva dato la sua parola d’onore che scapestrataggini di quel genere non le avrebbe fatte piú. Lo giurò in ginocchio dinanzi alle Immagini, e lo giurò sulla memoria del padre, come fu la signora Krasotkin a esigere: e in quest’occasione il «virile» Kolja era anche lui prorotto in lacrime, come un bambino di sei anni, a quelle «pateticherie»; e madre e figlio per tutto il giorno avevan continuato a slanciarsi l’uno fra le braccia dell’altra, e a piangere con gran singulti. Il giorno dopo, Kolja s’era svegliato «insensibile» come sempre: tuttavia, s’era fatto piú taciturno, piú riservato, piú severo, piú pensieroso. È vero che, di lí a una mesata e mezzo, di nuovo era caduto in una scapestrataggine, e il nome suo era venuto perfino a conoscenza del nostro giudice conciliatore: ma si trattava d’una scapestrataggine di tutt’altro genere, anzi d’una cosina da ridere, d’una grulleria: eppoi non ne era stato neppur lui l’autore, come venne a chiarirsi, e s’era soltanto trovato coinvolto in essa. Ma di questo si dirà qualche cosa appresso. La madre aveva continuato dunque a trepidare e ad affannarsi, e Dardanelov, proporzionatamente alle ansie di lei, aveva via via concepito sempre maggiori speranze. Bisogna notare qui che Kolja capiva benissimo, da questo lato, Dardanelov, e gli leggeva dentro da parte a parte, e quindi, come ben s’intende, lo disprezzava profondamente per le sue «pateticherie»: finora, anzi, aveva avuto addirittura la poca delicatezza di non tener nascosto questo suo disprezzo alla madre, lasciandole trasparire, con lontane allusioni, che gli era chiaro quale fosse la mira di Dardanelov. Ma dopo il fatto della ferrovia, anche per questo rispetto aveva mutato il suo modo di fare: di quelle allusioni non se n’era piú permesse, neppur lontanissime, e su Dardanelov, alla presenza della madre, aveva cominciato a esprimersi con piú deferenza – cosa che subito con immensa gratitudine aveva intuito la delicata Anna Fëdorovna, ma che d’altronde aveva avuto il risultato che al minimo cenno di qualunque sia pure trascurabile ospite circa Dardanelov, se Kolja si trovava lí presente, lei d’improvviso avvampava tutta di pudore, come una rosa. Kolja dal canto suo, in questi momenti, o guardava accigliato verso la finestra, o si osservava le punte delle scarpe, se alle volte avessero fame, o rabbiosamente chiamava «Perezvon», un cane villoso, piuttosto grosso e spelacchiato dalla tigna, che un mese prima s’era tutt’a un tratto procurato chissà dove, aveva rinchiuso in casa e, per qualche suo motivo, teneva là in gran segretezza, nelle stanze piú interne, senza mostrarlo a nessuno dei compagni. Ivi lo tiranneggiava tremendamente, insegnandogli ogni sorta di giochetti e di bravure, e aveva ridotto il povero cane al punto che guaiva quando lui era fuori, alla scuola, e quando poi tornava, ustolava dalla esultanza, saltava come impazzito, si teneva ritto sull’attenti, si rotolava a terra e faceva il morto, ecc. ecc.: insomma si esibiva in tutte le bravure che gli erano state insegnate, non perché gliele comandassero, ma unicamente per l’ardente impulso della sua esultanza e del suo cuore grato.
Ci scordavamo di dire, a proposito, che Kolja Krasotkin era appunto quel ragazzo, al quale un altro ragazzo già noto al lettore, il piccolo Iliuša, il figlio del capitano in congedo Snegirëv, aveva ficcato il temperino in un fianco, levandosi a difesa del padre, che gli scolari schernivano col nomignolo di «strofinaccio di stoppa».

II.

Marmaglia

Or dunque, in quella gelida e polare mattinata di novembre, il piccolo Kolja Krasotkin se ne stava in casa. Era domenica, e scuola non c’era. Ma già eran battute le undici, e lui aveva bisogno assoluto di uscire «per un affare di grande importanza»: e in casa, invece, era rimasto lui solo, e proprio in qualità di custode, giacché era accaduto che tutti gl’inquilini piú anziani, per una circostanza eccezionale e singolarissima, si fossero recati fuori. Nella casa della vedova Krasotkin, sull’andito dell’appartamento abitato da lei, rispondeva un altro piccolo appartamento, l’unico oltre quello, di due stanzette date in affitto, e lo occupava la moglie d’un dottore con due bambini in tenera età. Questa signora era coetanea d’Anna Fëdorovna e sua grande amica, mentre il dottore suo marito già da un anno se n’era andato lontano, prima a Orenburg, poi a Taškent, ed era ormai un mezz’anno che non faceva sapere di sé né bene né male, tantoché, se non fosse stata l’amicizia della signora Krasotkin, che un pochino le leniva il dolore dell’abbandono, la moglie si sarebbe letteralmente disciolta in lacrime. Ed ecco che, per colmar la misura di tutte le persecuzioni del destino, doveva accadere che appunto quella notte dal sabato alla domenica Katerina, l’unica serva della moglie del dottore, d’improvviso e del tutto inaspettatamente per la sua padrona, venisse a dichiarare a costei d’aver l’intenzione di partorire avanti giorno un figlioletto. Come potesse darsi che nessuno si fosse accorto fin qui della cosa, riuscí per tutti un mistero. Sgomenta, la moglie del dottore decise di trasportar Katerina, finché si era in tempo, in un ricovero istituito nella nostra cittadina, per casi simili, presso una levatrice. E siccome questa donna di servizio le era assai cara, senza indugio aveva mandato a effetto il suo disegno: l’aveva portata via di casa, e ...

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