La Salita dei Saponari
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La Salita dei Saponari

Cristina Cassar Scalia

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  1. 312 pages
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La Salita dei Saponari

Cristina Cassar Scalia

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Esteban Torres, cubano-americano con cittadinanza italiana e residenza in Svizzera, viene trovato morto nel parcheggio dell'aeroporto di Catania; qualcuno gli ha sparato al cuore. L'uomo ha un passato oscuro, e girano voci che avesse amicizie pericolose, interessi in attività poco pulite. Eppure le indagini sono completamente arenate: nessun indizio che riesca a sbloccarle. Questo finché a Taormina, dentro un pozzo nel giardino di un albergo, si scopre il cadavere di Roberta Geraci, detta «Bubi». Torres e Bubi si conoscevano. Molto bene. Con l'aiuto della sua squadra e dell'immancabile Biagio Patanè, commissario in pensione che non ha perso il fiuto, Vanina riporterà alla luce segreti che hanno origine in luoghi lontani. Ma non potrà dimenticare gli incubi che la seguono fin da quando viveva a Palermo. Questioni irrisolte che, ancora una volta, minacciano di metterla in pericolo. «Manco il tempo di arrivare e Vanina era già in movimento. Di corsa, per giunta, come piaceva a lei. Aveva ragione Adriano: per entusiasmarla veramente, per sentirselo suo, un caso doveva avere un indice di "rognosità" tale da occuparle la mente per giorni, fino alla sua totale risoluzione. L'omicidio di Esteban Torres, a occhio e croce, prometteva bene».

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2020
ISBN
9788858434048

1.

Lella Canton staccò il naso dal finestrino e controllò le foto appena scattate sul telefono. Ce n’erano un paio che su Instagram avrebbero fatto schiattare d’invidia tutte le sue colleghe. Cielo terso, nessuna nuvola, orizzonte perfetto. Negli ultimi dieci minuti sotto i suoi occhi erano passati prima le isole Eolie, poi lo stretto di Sicilia, infine lo scenario piú fantastico che le fosse mai capitato davanti. La montagna maestosa, la roccia nera spruzzata di neve e il pennacchio di fumo sulla sommità. Metteva quasi soggezione.
L’aereo era decollato da Milano Malpensa alle sei e trenta, e ora volteggiava intorno al vulcano, sballottato dalle raffiche di vento che stavano rallentando la sua discesa verso l’aeroporto di Catania Fontanarossa. A ogni virata la visuale dal finestrino cambiava: mare, montagna, di nuovo mare, ancora montagna.
Il pilota avvertí che entro pochi minuti sarebbero atterrati, il tempo era sereno e la temperatura di 6 gradi centigradi.
Lella soppesò il cappottino leggero che aveva portato come unico soprabito per quella prima trasferta, scartando con decisione tutte le alternative piú pesanti – tanto in Sicilia è sempre primavera! –, e si diede dell’idiota.
Attese che l’aereo toccasse terra e si fiondò sull’applicazione del meteo sperando in notizie piú confortanti, quasi certa che durante il giorno la temperatura si sarebbe alzata. E invece: minima 4, massima 9. Con aggiunta di nubi in avvicinamento e possibili piovaschi.
L’azienda farmaceutica per cui lavorava da dieci anni come informatrice scientifica nella sua regione, cioè il Veneto, l’aveva appena promossa capo area e le aveva assegnato l’unica zona in quel momento disponibile: Sud e isole. Un cambiamento pressoché radicale, che Lella aveva accettato obtorto collo ma senza nessuna esitazione. In tempi di vacche magre, rifiutare una promozione con tanto di aumento di stipendio solo perché implicava un cambio di zona le sembrava quasi immorale.
Antonino Falsaperla, l’informatore scientifico siciliano con cui aveva viaggiato, si svegliò per lo scossone dell’atterraggio.
Si sganciò la cintura fulmineo. – Eccoci qua! Vado a recuperare i bagagli, – disse, alzandosi subito per fregare sul tempo i vicini e accedere per primo alla cappelliera.
Lella guardò fuori. Erano parcheggiati di fianco a un altro aereo e una navetta era lí già pronta. Lella non capiva il motivo di tanta fretta.
– Dovremo aspettare comunque, – osservò. – Non credo che quel bus partirà con solo noi a bordo.
– Almeno saliamo sul primo autobus –. Antonino controllò l’orologio con disappunto. Erano in ritardo di mezz’ora sulla tabella di marcia. – Se s’annacano ad aprire le porte, forse riusciamo a fare pure colazione.
Lella si soffermò sul termine annacarsi e dedusse che doveva significare piú o meno sbrigarsi.
Antonino tirò giú i due trolley e s’infilò il giubbotto: un parka superimbottito dotato di pelliccia sul cappuccio, lo stesso con cui per tre giorni aveva affrontato il profondo Nord. Le cedette il passo verso l’uscita.
Il vento era talmente teso da far ballare la scaletta sotto di loro, e cosí freddo e umido che bastarono pochi passi perché Lella iniziasse a sentirsi gelare la testa. Invano frugò nella borsa in cerca del berretto di lana che di solito teneva lí per ogni evenienza, sperando di non averlo eliminato quando aveva riorganizzato il bagaglio in modalità Sud. Ma il suo lavoro era stato rigoroso.
D’altronde l’unica versione della Sicilia che Lella Canton avesse mai conosciuto era quella estiva. Sette giorni di mare in zona Trapani, con relativa gita alle Egadi. Trentacinque gradi fissi e un sole che spaccava le pietre. Novembre a rigor di logica doveva essere una sorta di mezza stagione.
– Comunque ’sto freddo non è normale, – si scusò Antonino, quasi costernato. Quando si dice la sfiga: arrivava la nuova capa e la sua città come l’accoglieva? Un gelo che manco a gennaio. Peggio che in Brianza.
Il bus navetta, stipato all’inverosimile, partí con un sobbalzo e in pochi minuti scaricò metà dei passeggeri di quel volo davanti al varco degli arrivi nazionali.
Lella allungò il passo dietro Antonino, che zigzagava lungo il corridoio. Gigantografie di monumenti barocchi e di baie meravigliose si alternavano lungo le pareti a display pubblicitari. In fondo, un cartellone con foto di Pirandello e immancabile citazione.
Fuori dall’area sbarchi, nonostante fossero appena le otto del mattino, c’era già un delirio. Decine di autisti muniti di cartelli e tour operator se ne stavano a destra, sotto la scala mobile che portava alle partenze, mentre davanti alle vetrate si estendeva uno schieramento di parenti in trepida attesa. Famiglie intere, bambini e anziani compresi. Un senso di calore umano che, suo malgrado, nemmeno la riservata dottoressa Lella Canton poté fare a meno di percepire.
Il Falsaperla trangugiò due brioche e due caffè in cinque minuti, il tempo che la sua capa impiegò a sorseggiare una spremuta d’arancia. Poi fece strada verso l’uscita in direzione del posteggio in cui aveva lasciato l’auto tre giorni prima.
Una folata di vento freddo schiaffeggiò Lella, che cercò di avvolgersi meglio l’unica sciarpa che aveva con sé.
– È molto lontano? – chiese, mentre trottavano lungo un marciapiede largo costeggiato da una parete piena di gigantografie che in confronto quelle dentro l’aerostazione sembravano poster. Ragusa, Noto, Taormina…
– No, siamo quasi arrivati, – rispose Antonino, indicando un parcheggio a due piani.
Pagò e precedette la capa verso un varco con una sbarra. Si fermò e si guardò intorno.
– Fammi ricordare dove l’ho messa… Mizzica, col fatto che nell’ultimo periodo sono stato in aeroporto un giorno sí e l’altro pure, ogni volta che devo andare a recuperare la macchina mi confondo! Però mi pare di qua.
Lella lo guardò male. Lei iniziava a battere i denti dal freddo e quello perdeva tempo. Del resto, per com’era bardato, avrebbe potuto tranquillamente affrontare il polo Nord. Meno male che erano al coperto. Infilarono un corridoio e lo percorsero fino in fondo per raggiungere una Renault Scénic grigia.
Mentre Antonino esultava per aver ritrovato l’auto al primo colpo e sistemava i bagagli nel baule posteriore, l’attenzione di Lella fu catturata da una grossa berlina scura con le luci accese, piazzata di sbieco davanti a loro.
– Ma guarda un po’ questi come hanno parcheggiato, – borbottò. Roba che solo al Sud.
Si avvicinò incuriosita al lato del passeggero, abbagliata dai fari, e sbirciò all’interno.
L’urlo che cacciò si sentí fino alla sommità dell’Etna.

2.

Salvatore Fratta, detto Bazzuca, se l’era data a gambe. Quando gli uomini della sezione Catturandi della Mobile di Palermo avevano fatto irruzione nel covo in cui il latitante s’era nascosto negli ultimi tempi, di lui non c’era piú traccia.
Il vicequestore aggiunto Giovanna Guarrasi, detta Vanina, di regola non avrebbe dovuto prendere parte a quell’azione. Da quasi quattro anni ormai, e per sua libera scelta, quello di Palermo non era piú il suo territorio di competenza. Cosí come, sempre per sua libera scelta, non lo era piú nemmeno la sezione Criminalità organizzata.
Adesso Vanina dirigeva la sezione Reati contro la persona – ovvero quella che una volta si chiamava «Omicidi» – alla squadra Mobile di Catania. Il giorno del blitz, avvertita per tempo dal suo ex braccio destro Angelo Manzo, s’era presentata nel suo vecchio ufficio e aveva chiesto di partecipare all’operazione, provocando le ire di mezza questura palermitana. Alla fine, però, c’era riuscita.
E ora era lí, distaccata da due settimane alla sezione Catturandi della Mobile di Palermo, su formale richiesta del questore e con una motivazione piú che legittima: quella di aver dedicato sei anni della sua vita alla ricerca e alla cattura di Salvatore Fratta detto Bazzuca e di tutta la sua cricca. Finché la morte inscenata da quest’ultimo, cui lei sola aveva continuato sempre e contro ogni evidenza a non credere, aveva messo fine alle indagini. Gli ultimi sviluppi, però, le avevano dato ragione. Il bagaglio d’informazioni che Vanina Guarrasi possedeva, impresso a fuoco nella sua mente, era tale da renderla indispensabile ai suoi colleghi che si trovavano a dover riannodare i fili e organizzare nuovamente la caccia al latitante.
Le due settimane di Vanina alla Catturandi scadevano quel giorno. Se lei avesse voluto, il questore di Palermo – che di cattura dei latitanti se ne intendeva, e pure assai – avrebbe prolungato il periodo di distaccamento della Guarrasi che anche il dirigente Corrado Ortès caldeggiava.
Ma Vanina non sembrava intenzionata a restare.
La riunione era iniziata nell’ufficio di Ortès, una stanza con vista su piazza della Vittoria e sull’adiacente Villa Bonanno, le cui pareti erano tappezzate di cimeli rappresentativi dei latitanti arrestati negli anni. Una teca conteneva un bastone, un’altra una maglia, un’altra ancora un fucile. Su una libreria, in alto, un casco da moto. Reperti dei quali chi era stato impegnato in quelle operazioni andava fiero. Poco dopo, il gruppo s’era trasferito al piano inferiore, nella stanza del capo della Mobile.
La squadra che si occupava di stanare Bazzuca era formata da cinque elementi, piú ovviamente il dirigente. Tra loro, oltre a due agenti scelti e due ispettori uno dei quali donna, c’era anche Angelo Manzo, l’ex collaboratore di Vanina che le era rimasto sempre affezionato, fresco di promozione a viceispettore.
Vanina assisteva a quella riunione consapevole che probabilmente sarebbe stata la sua ultima lí. Nelle due settimane precedenti aveva ripreso in mano fascicoli che non avrebbe mai immaginato di dover rileggere. Sei anni di indagini e numerosi arresti, tre dei quali per lei avevano rappresentato una gigantesca rivalsa personale, anche se si sarebbe fatta staccare un braccio piuttosto che ammetterlo.
– Quindi, – ricapitolò il capo della Mobile, – è confermato che Fratta fosse in quella casa.
– Sí, capo. Il grosso era stato ripulito e oggetti personali non ne abbiamo trovati, ma la collega della Scientifica è riuscita a estrarre il Dna da un cracker rimasto incastrato tra i cuscini di una poltrona. Corrisponde con quello di Fratta che era stato archiviato durante le indagini precedenti alla sua presunta morte. Questo prova che Bazzuca è stato lí. Sul materasso c’era anche un capello lungo. Hanno estratto il Dna anche di quello, ed è femminile.
– E ovviamente non sappiamo a chi appartenga.
– Purtroppo no.
– Però la casa è stata abitata fino a poche ore prima della nostra irruzione, – concluse il capo.
Ortès confermò.
La villetta che un collaboratore di giustizia aveva indicato come il covo in cui Bazzuca ...

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