Underland
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Underland

Un viaggio nel tempo profondo

Robert Macfarlane, Duccio Sacchi

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Un viaggio nel tempo profondo

Robert Macfarlane, Duccio Sacchi

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«Scoprire» è togliere ciò che serve a nascondere alla vista, riscattare dalle profondità ciò a cui era negata la luce. Partire dall'oscurità, allora, per comprendere piú chiaramente: è questo che si propone Robert Macfarlane quando decide di intraprendere i suoi viaggi di esplorazione nel sottosuolo. Girando il mondo alla ricerca dei luoghi piú nascosti, inaccessibili, straordinari, l'autore si è affidato a scienziati e guide locali per scendere nel ventre della Terra, e alla pagina scritta per riemergerne con nuove consapevolezze. Perché qui, sotto i nostri piedi, la mappa delle relazioni tra gli esseri umani e la natura si fa complessa, ma anche piú nitida e affascinante. E luoghi insospettabili si rivelano custodi di arcani segreti. Come le Mendip Hills - non troppo lontane da casa per Macfarlane - che sovrastano tumuli funerari dell'Età del bronzo, o Boulby, nello Yorkshire, dove in un laboratorio a quasi un chilometro sotto la superficie si registrano segnali della materia oscura dallo spazio. O la romantica Parigi che si sdoppia nell'inquietante città invisibile delle catacombe - in cui lo scrittore si cala sfidando coraggiosamente la claustrofobia -, oggi considerata meta di pellegrinaggio da chi pratica l' urban exploration. O l'altopiano del Carso, attraversato da fiumi sotterranei scavati nel calcare. O le remote isole Lofoten, animate da misteriosi danzatori rossi dipinti nelle grotte marine, o la Groenlandia, dove si può ascoltare il blu dei ghiacci sofferenti per i cambiamenti climatici. O ancora Olkiluoto, in Finlandia, dove i rifiuti nucleari vengono sepolti in un nascondiglio che potrebbe trasformarsi in un devastante vaso di Pandora per i posteri. Ogni avventura sotterranea di Macfarlane diventa un racconto speciale, affollato di personaggi autentici e appassionati e percorso dalle parole di poeti, scrittori, artisti, studiosi che hanno corteggiato le profondità della Terra prima di lui. E tra le stratificazioni del passato e del presente, Macfarlane scorge anche una speranza per il futuro: perché solo attraverso la conoscenza di ciò che è stato sarà possibile orientarsi negli abissi ignoti di ciò che verrà. E correggere la rotta prima che sia troppo tardi.«Macfarlane ci invita a esplorare mondi affascinanti di cui non sospettavamo l'esistenza: Underland è un viaggio che, piú di ogni altra cosa, ci regala gioia».
«NPR»

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2020
ISBN
9788858434567
Parte terza

Infestare

(Il Nord)
Capitolo ottavo

I danzatori rossi

(isole Lofoten, Norvegia)
Guardo la costa del nord di là dalla baia – e là, accanto alle betulle lucenti, c’è una figura scura, in piedi sulla costa che sale, dove non ci dovrebbe essere nessuno.
Due beccacce di mare passano sull’acqua che ci separa con rapide strida di allarme, e il loro volo mi cattura lo sguardo.
Torno a guardare la costa del nord di là dalla baia, ma adesso non c’è niente accanto alle betulle, nessuno, assolutamente.
Qualche giorno prima. Navigo nel Vestfjorden con il tempo che volge al brutto, con l’idea di approdare a Moskenes un’ora prima del tramonto. La luce del sole si raccoglie a sud, prima di essere assorbita dal buio. Piccole raffiche di neve colgono la barca di sorpresa e spariscono alla vista. Nell’aria ronzano burrascosi i fiocchi di neve.
Isole impossibili appaiono a ovest, sempre piú grandi. Noto una lunga striscia nera e bianca; dirupi e nevai tra il grigio delle nubi basse e il grigio dell’alto mare. Bagliori di luce sulla neve, nelle gole e nelle pareti poco profonde. Molta piú neve di quanta mi aspettassi di trovare – e anche le vette sono piú ripide e aguzze di quanto prevedessi. La lunga fascia di terra si allarga via via che ci avviciniamo.
Le montagne prendono lentamente forma ai miei occhi, sviluppandosi dalle raffiche di neve come fotografie. Una manciata di casette con i muri rossi e il tetto nero. Appesi per la gola squarciata, migliaia di merluzzi congelati pendono da telai di legno fatti ad A, sbattendo al vento. Le raffiche sempre piú serrate si fondono in una bufera da est e la mia pancia emette un borbottio di preoccupazione.
Successivamente ricorderò i giorni che seguirono come fossero metalli. L’argento del passo. Il ferro della baia e delle sue nuvole. Il raro oro del cielo. Lo zinco della furia della tempesta. Il bronzo e il rame del mare a sud mentre mi metto in salvo.
– Cercale, – mi dice Hein a Oslo. – Là ce ne sono di piú, senza dubbio, su quella riva si trovano piú figure.
Pausa.
– Ma prima devi superare il Muro senza farti male. Io ci sono sempre andato in barca, facendo il giro lungo, d’estate. Tu invece ci arriverai a piedi, e d’inverno.
Sorriso.
– Hai mai pensato di cominciare a fumare? Non è mai troppo tardi per imparare!
Pausa. E sorriso.
– Fumare può essere una buona tecnica di sopravvivenza in un posto cosí.
La maggior parte delle pitture rupestri preistoriche si trova nelle sale e nei luoghi riparati del sud-ovest della Francia e del nord della Spagna. Da quella zona, piú si sale verso nord piú la quantità di reperti diminuisce e piú diminuisce anche la loro età. Sopra i sessanta gradi di latitudine nord c’è relativamente poco.
La principale ragione di questa penuria di arte pittorica alle latitudini piú alte risiede nel fatto che questi territori rimasero sepolti sotto i ghiacciai fino alla fine dell’ultima era glaciale. Ventimila anni fa, mentre nella Sala dei Tori di Lascaux, nell’attuale Dordogna, veniva dipinto l’uro rosso di cinque metri, l’intera Scandinavia e la maggior parte della Gran Bretagna e dell’Irlanda erano ancora ghiacciate. Mentre lentamente si ritirava, il ghiaccio si lasciava dietro un paesaggio sconvolto, spogliato di vita. Verso nord l’uomo colonizzò questa terra brulla solo lentamente.
Anche la geologia ha la sua parte nella rarità delle pitture rupestri sopravvissute nelle latitudini settentrionali. Le sale delle grotte costituiscono gli spazi espositivi piú sicuri per questo genere di arte, ed è nel calcare che questo tipo di sala o di camera si forma nel modo piú naturale: Lascaux, Chauvet, Altamira… tutte le opere d’arte piú celebri della preistoria furono create nel calcare e sulla sua superficie. Il calcare possiede l’ulteriore facoltà curativa di emettere spesso sulle pitture parietali una pellicola trasparente di carbonato di calcio che si coagula e agisce come una vernice protettiva, rallentando la degradazione dei pigmenti. L’Europa settentrionale, tuttavia, è piú povera di calcare rispetto alla Francia e alla Spagna, mentre è piú ricca di rocce ignee e metamorfiche. In una geologia di questo genere, le grotte e le sporgenze rocciose sono create dalle forze erosive del ghiaccio o dell’acqua di mare e saranno quindi meno profonde e piú ruvide. Al loro interno mancheranno quelle invitanti tele calcaree, levigate dall’acqua. Un antro di scabro granito non offre al pittore le stesse opportunità di una camera calcarea adorna di stalattiti. Certo, in Europa, alle latitudini artiche, le incisioni rupestri sono ben rappresentate, ad esempio dalla stupefacente concentrazione di opere rinvenute ad Alta, nell’estremo nord della Norvegia. Qui, tra i settemila e i duemila anni fa, furono scolpite sulle rocce spianate dai ghiacciai piú di 6000 immagini – in gran parte petroglifi – raffiguranti renne, orsi, esseri umani, scene di caccia e aurore boreali. Invece le pitture rupestri – molto piú esposte ai danni e alle intemperie rispetto alle immagini incise – sono rare.
Alcuni degli esempi piú sorprendenti di arte pittorica rupestre provenienti da questi paesaggi nordici si trovano nelle grotte marine decorate della costa occidentale della Norvegia. Fino a oggi reperti pittorici di questo tipo sono stati scoperti in dodici grotte marine, disperse su un raggio di 800 chilometri tra Nærøy, a sud, e l’arcipelago delle Lofoten a nord. Le grotte si trovano tutte in zone sperdute, spesso in dirupate coste selvagge a picco sull’oceano. E tutte sono state scavate nelle scogliere o nei dirupi dalla forza martellante del moto ondoso nel corso dei millenni. Al tempo in cui furono realizzati i dipinti, alcune di queste grotte potevano essere raggiunte solo in barca, dopo una perigliosa navigazione lungo le coste esposte di isole e penisole.
Complessivamente queste «grotte dipinte» contengono circa 170 semplici figure stilizzate, a braccia e gambe aperte come se danzassero o saltassero: figure umane per la maggior parte, ma ogni tanto anche di ibridi umano-animali, e in un caso di una mano da sola. Sono state tutte dipinte con un pigmento rosso di ossido di ferro applicato con le dita o con un pennello. La datazione è problematica, ma la creazione delle figure sarebbe da collocare tra duemila e tremila anni fa secondo le stime piú sicure. Queste si basano in parte sulla datazione al radiocarbonio di manufatti rinvenuti nelle grotte, tra cui una punta di freccia di ardesia levigata, un osso di zampa di gabbiano con un foro, usato probabilmente come flauto, e un amuleto a forma di alca impenne.
Le figure dipinte, quindi, sono opere d’arte periartiche dell’Età del bronzo eseguite in una delle regioni piú inospitali del mondo da popolazioni di cacciatori-raccoglitori-pescatori che si spostavano lungo una costa isolata, sopravvivendo solo grazie al tepore regalato dalla corrente del Golfo. Dovevano condurre vite brevi e difficili, e sembrerebbe ragionevole pensare che un’esistenza cosí lasciasse poco spazio alla creazione artistica.
Eppure quelle rosse figure danzanti esistono.
Una tra le piú remote di queste grotte decorate si trova vicino alla punta occidentale dell’arcipelago delle Lofoten, una catena di isole che si estende per quasi 160 chilometri nel mar di Norvegia a una latitudine intorno ai 68 gradi nord. Il nome attuale della grotta è Kollhellaren, traducibile piú o meno con «Buco dell’Inferno», un antro che si apre quasi all’estremità dell’isola di Moskenes, sulla disabitata sponda nord-occidentale.
Ci sono due modi per raggiungere Kollhellaren. Il primo è a piedi, superando quello che viene chiamato il Lofotveggen, il Muro delle Lofoten: la ripidissima catena di vette che taglia il centro dell’arcipelago, e che in inverno può essere attraversata solo passando da un ristretto numero di valichi. Il secondo è in barca, doppiando la punta dell’arcipelago e attraversando il famigerato Mosktraumen, uno dei piú potenti sistemi di vortici al mondo, protagonista di Una discesa nel Maelström, racconto scritto nel 1841 da Edgar Allan Poe: qui il gorgo è descritto come la soglia di un tunnel che porta al centro della Terra. In antico norreno la parola per maelstrom era molto pragmatica: havs-velg, letteralmente «buco dell’oceano», ovvero una depressione marina in cui si riversava ogni cosa.
Ecco che abbiamo allora due punti di accesso al mondo di sotto a breve distanza uno dall’altro: una bocca di roccia e una bocca di acqua, cinte da monti e mari selvaggi.
Le persone che piú di 2500 anni or sono hanno creato l’arte di Kollhellaren affrontavano considerevoli rischi soltanto per raggiungere il sito di produzione. Ancora prima di entrare nell’antro, dovevano varcare poderose soglie imposte dalla natura.
Quando raggiungo le Lofoten, mi accorgo che l’inverno mi ha preceduto. Per quattro giorni, la settimana scorsa, una tempesta polare ha soffiato da ovest, spazzando via la neve rada dai pendii sopravvento e depositandola in compatti lastroni nelle calanche del Muro rivolte a est. Il rischio valanghe è salito da basso a moderato e si prevede che continui a salire. «Possibili valanghe a lastroni sulle pareti esposte a est e sud-est, probabilmente provocate da ulteriori forti nevicate sopra i 300 metri». Non è il bollettino valanghe che speravo di sentire per il mio progetto di raggiungere a piedi Kollhellaren e le sue figure rosse.
D’inverno vicino a Kollhellaren è possibile attraversare il Muro soltanto in due punti. In queste condizioni meteo entrambi presentano delle difficoltà. Uno è una gola che taglia la montagna sotto una cima a forma di ascia chiamata Mannen. L’altro è la spalla squadrata di un monte. Li confronto su una cartina. La gola è molto piú ripida, ma probabilmente c’è meno neve. La spalla ha una pendenza piú dolce, ma probabilmente è piú a rischio valanghe. Opto per la gola. Le gole mi piacciono. Ti abbracciano. Ti danno l’impressione che puoi cadere meno lontano. Sono piú confortevoli dei crinali o delle cime, anche quando sono piú pericolose.
La notte prima di partire per Kollhellaren nevica abbondantemente fin dal tramonto. Sono in un paesino minuscolo chiamato Å, esattamente al fondo della strada che serpeggia per l’arcipelago in tutta la sua lunghezza. Dopo Å ci sono soltanto laghi, vette e mare. Alloggio a casa di un pescatore in pensione di nome Roy. Sei anni fa, dopo trentotto anni di lavoro in mare, Roy si è rotto il bacino e una gamba nel porto di Å, cadendo dal molo sopra un argano. Ha accettato il prepensionamento finanziato dallo Stato e ora fa fotografie.
– Non dovresti andare sul Muro, – mi dice Roy quella sera. – Non è la stagione adatta. Il versante ovest è completamente deserto. Niente case, niente persone, niente campo per il cellulare. Solo scogli e mare. E neve. E poi che ci vai a fare a Kollhellaren?
Penso a come spiegarglielo, a come dirgli che quelle figure mi hanno affascinato fin dalla prima volta che ne ho sentito parlare, anni fa; e che sto cercando di capire che cosa avesse attirato gli autori di quelle immagini in quel luogo formidabile e ostile, perché fossero andati fin lí a lasciare la loro impronta. Ma l’argomentazione mi sembra troppo debole per rischiare di esporla, specialmente ora che ho bisogno di proteggere al massimo la mia autostima.
– Voglio solo vedere la grotta e le figure, e passare un po’ di tempo sul versante occidentale, – rispondo.
Roy si stringe nelle spalle. – Gli inglesi hanno sempre fatto questo genere di cose, fin dai tempi di Slingby, – commenta.
Parliamo invece delle sue vacanze in Indonesia, e della storia che ha avuto laggiú con una donna indonesiana, una relazione iniziata molto bene e finita molto male. Mi fa vedere un video del piccolo palazzo in marmo nero e stucco rosa che lui le aveva costruito perché ci facesse il suo centro estetico per la manicure. Guardiamo delle fotografie: Roy in sella a un motorino davanti al palazzo con classiche corna di bufalo color pastello e tetto spiovente di ardesia; Roy con la sua compagna in un ristorante, mentre mangia a torso nudo, sorridente.
La notte non riesco a dormire. Apro le tende e resto alla finestra a guardare i fiocchi di neve che, come scintille infuocate, attraversano il cono di luce dell’ultimo lampione dell’arcipelago. È una scena stranamente serena, ma so bene cosa significa: la neve sulle cime e nelle gole si sta accumulando e il rischio di valanghe aumenta.
Il mattino dopo, di buon’ora, mentre mi preparo a partire, Roy fruga nel feezer e tira fuori un sacchetto di plastica.
– Sono sei crocchette di pesce, fatte con lo skrei che ho pescato due giorni fa dalle parti di Helle, non lontano da dove stai andando tu.
Lo zaino è già troppo pesante, ma le infilo nel tascone esterno.
Quando ripenso a posteriori, e dall’altra parte del Muro, alla traversata – anche se non è stato l’unico momento pericoloso di quell’avventura e tanto meno l’unica meraviglia – la ricordo principalmente come un vortice bianco, come una combinazione disarmonica di processi decisionali precisi al millimetro e di caotica foschia.
Poco dopo l’alba mi lascio alle spalle la casa di Roy e Å lungo una strada senza sbocchi. Sotto gli scarponi scricchiola la neve fresca. È caduta piano piano per tutta la notte e ha formato uno strato di quindici centimetri. I rumori sono ovattati. Il paese è ancora addormentato. A parte le mie, non ci sono altre orme sulla strada.
La gola inizia da un lungo lago dalle sponde basse chiamato Ågvatnet, che da Å si estende verso ovest, in mezzo a una corona di monti che lo circondano a nord, a ovest e a sud. La marcia lungo la sponda del lago si fa difficile fin da subito: neve che cade e rocce scivolose sotto i piedi. L’acqua del lago, ghiacciata e color dell’acciaio quasi ovunque, è limpida soltanto allo sbocco, dove la corrente la mantiene in movimento. I venti recenti hanno ammucchiato sulle rive della baia cataste di lastre di ghiaccio. Appollaiata sul dirupo sottovento di un isolotto roccioso in mezzo al lago, c’è una colonia di gabbiani. Gli strepiti e gli schiamazzi mi sono di conforto nell’austerità della valle: è il rumore conviviale della vita sociale. Davanti a me, in lontananza, una nube nera nasconde i monti fin quasi alla base. La situazione mi preoccupa. Sarà difficile individuare la gola giusta.
Oltrepasso lentamente i massi coperti di neve e le rocce scivolose. Salto, scivolo, cado, mi rialzo a fatica con lo zaino. Quattro volte trovo piccoli dirupi da scalare,...

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