L'architettrice
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L'architettrice

Melania G. Mazzucco

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  1. 568 pages
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L'architettrice

Melania G. Mazzucco

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Nel maggio del 1624 un uomo accompagna la figlia sulla spiaggia di Santa Severa, dove si è arenata una creatura chimerica. Una balena. Esiste anche ciò che è al di là del nostro orizzonte, è questo che il padre insegna a Plautilla. Una visione che contribuirà a fare di quella bambina un'artista, misteriosa pittrice e architettrice nel torbido splendore della Roma barocca. Melania Mazzucco disegna un grande ritratto di donna tornando alle sue passioni di sempre, il mondo dell'arte e il romanzo storico. Giovanni Briccio è un genio plebeo, osteggiato dai letterati e ignorato dalla corte: materassaio, pittore di poca fama, musicista, popolare commediografo, attore e poeta. Bizzarro cane randagio in un'epoca in cui è necessario avere un padrone, Briccio educa la figlia alla pittura, e la lancia nel mondo dell'arte come fanciulla prodigio, imponendole il destino della verginità. Plautilla però, donna e di umili origini, fatica a emergere nell'ambiente degli artisti romani, dominato da Bernini e Pietro da Cortona. L'incontro con Elpidio Benedetti, aspirante scrittore prescelto dal cardinal Barberini come segretario di Mazzarino, finirà per cambiarle la vita. Con la complicità di questo insolito compagno di viaggio, diventerà molto piú di ciò che il padre aveva osato immaginare. Melania Mazzucco torna al romanzo storico, alla passione per l'arte e i suoi interpreti. Mentre racconta fasti, intrighi, violenze e miserie della Roma dei papi, e il fervore di un secolo insieme bigotto e libertino, ci regala il ritratto di una straordinaria donna del Seicento, abilissima a non far parlare di sé e a celare audacia e sogni per poter realizzare l'impresa in grado di riscattare una vita intera: la costruzione di una originale villa di delizie sul colle che domina Roma, disegnata, progettata ed eseguita da lei, Plautilla, la prima architettrice della storia moderna.

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2019
ISBN
9788858432853
Seconda parte

La zitella romana (1629-1640)

Intermezzo

«Les italiens ne se battent pas!»

(Roma, giugno 1849)
Lo squillo delle trombe lo sveglia di soprassalto nel cuore della notte del 3 giugno. Leone, che aveva avuto il sabato di riposo, dorme beatamente nella caserma Sora, a Monte Citorio. Il generale francese Oudinot ha fatto sapere che denuncia l’armistizio e che attaccherà lunedí 4 giugno. Dunque Leone si è spogliato con sollievo degli abiti che non ha ancora avuto il tempo di far pulire e che cominciano a emanare un odore selvatico, li ha piegati con cura, si è sdraiato sul saccone e ha spento la lampada convinto di approfittare dell’ultima notte di pace – e poi ha ronfato per ore, indifferente al solletico dei fili di paglia che spuntano dall’imbottitura logora, al crescente trambusto, al trapestio di passi, alle voci via via piú eccitate, perfino al rombo del cannone. Intontito dal sonno, fatica a capire quel che urla il fido Varesi, sconvolto. E poiché lui non reagisce lo scuote per un braccio, sbatacchiandolo come un pupazzo.
I francesi hanno attaccato a tradimento alle due di notte, prima della scadenza dell’ultimatum. Hanno attaccato con due colonne di diecimila uomini dove erano attesi, sugli avamposti della linea difensiva. A villa Pamphilj le sentinelle del battaglione Melara dormivano o non erano nemmeno al loro posto. Le hanno travolte e sopraffatte in pochi minuti. Villa Pamphilj, villa Valentini e il casino dei Quattro Venti sono caduti. L’ordine a tutti i soldati della legione Medici è di radunarsi al piú presto e salire a porta San Pancrazio per supportare la resistenza e andare al contrattacco. Ma bisogna fare in fretta, o tutto sarà perduto.
Leone salta nei calzoni, infila gli stivali, cerca di recuperare la cartuccera coi proiettili. Dove l’ha messa? Nemmeno per un istante gli viene la tentazione di disubbidire. Non ha il tempo di pensare, e non pensa. Capirà solo piú tardi che l’eroismo non è una scelta. Si agisce come si è. Solo mentre si calca in testa il berretto della divisa gli attraversa la mente un vago ricordo di suo padre. A differenza di quelli degli altri, non lo biasima perché si trova a Roma. Anche Giovanni Paladini ha combattuto contro la reazione in nome della libertà. Ha ricevuto da Napoleone la croce di ferro di Wagram. Poi ha sacrificato i suoi ideali in cambio dell’utile o della famiglia – il che in fondo è la stessa cosa –, è diventato un ligio impiegato della burocrazia austriaca. Non vorrebbe vedere il figlio prigioniero o sconfitto.
Ma gli altri sono piú lenti, o piú riluttanti. Ci vuole piú di mezz’ora prima che i soldati si mettano in marcia, e altrettanto finché riescono a trovare, nel dedalo dei vicoli di una città che non hanno ancora imparato a conoscere, la strada per ponte Sisto, e non di meno per risalire l’erta che conduce al Gianicolo, e sono già le quattro e mezzo del mattino, la notte è meno scura e il tuono del cannone è diventato assordante quando raggiungono porta San Pancrazio.
Li dispongono lungo le mura e li impegnano a sistemare sacchetti di sabbia nelle feritoie. Il fragore della battaglia che infuria al casino dei Quattro Venti lo sveglia definitivamente. Lo stupisce la sinfonia di schianti sibili urla e gemiti che risuonano nell’aria con un ritmo spezzato, come strumenti di un’orchestra senza direttore. Le orecchie fischiano, il cuore tempesta. La costruzione – sul punto piú alto della collina – sembra dipinta su un fondale di scena. E dalle mura si domina il campo di battaglia come il palcoscenico dal loggione della Scala. Grano, vigneti, ville, pini secolari crepitanti, in fiamme, da cui gocciano scintille di fuoco, turbini di fumo bianco e nuvole di polvere che a tratti nascondono ogni cosa, e poi si disperdono, rivelando il balenio metallico delle sciabole e un brulichio frenetico di uomini che corrono, puntano, cadono, si rialzano, giacciono. Ma non sono solo fanti appiedati. I nitriti e lo zoccolio di cavalli sbucati da chissà dove che si avventano sulla salita annunciano uno squadrone al galoppo. Lo guida, quasi prono sulla criniera del suo cavallo, il colonnello Masina. È la terza volta che prova a riconquistare il casino occupato dai francesi. Quell’assalto di cavalleria lo entusiasma come uno spettacolo di teatro. La guerra è ormai faccenda di balistica, calibri, un carnaio di artiglieria e bajonette: non credeva di poterne mai piú vedere uno.
La tentazione di assistere vince la volontà di rendersi utile. Leone si ritrova sugli spalti, stretto fra Varesi e una moltitudine di volontari, guardie nazionali e semplici cittadini romani accorsi sul Gianicolo dopo le prime cannonate. Ragazzini, nobili, borghesi, musicisti, perfino un pittore – con l’uniforme della guardia civica, ma forse straniero, a giudicare dalla carnagione lunare – che disegna imperturbabile quella inedita veduta. È solo un istante, ma Leone lo invidia. Poi riprende a incitare e al colonnello Masina grida Avanti, avanti!, come potesse sospingerlo.
Sbalordito, ammirato, osserva il temerario cavaliere azzurro col fez rosso in testa mentre sulla scalinata si difende a sciabolate dai francesi che lo hanno attorniato – finché non cade, col suo cavallo, fulminato dai proiettili. Ma non è l’opera, questa. Il sangue sciorina sui gradini un maestoso e tragico tappeto rosso. Dozzine di cadaveri giacciono scomposti tutto intorno, come marionette infrante. Il cuore di Leone si strugge per quel magnifico animale morente.
A mezzogiorno, la legione Medici – 1a, 2a, 3a compagnia e compagnia di polacchi – riceve l’ordine di uscire dalle mura e dare il cambio alle truppe esauste della Legione italiana che combattono dalle due di questa notte. Leone segue il comandante giú dal bastione e fino alla porta di San Pancrazio, barricata con coperte e materassi. Strappati ai letti dei conventi di monaci e suore, non sembrano poter offrire una protezione efficace contro le palle del cannone. Ma impediscono il rimbalzo delle pallottole.
Ammassati nel vano della porta, nel caldo soffocante, vedono sfilare in direzione contraria barelle, feriti che fortunosamente sono riusciti a percorrere a ritroso la stretta via di San Pancrazio, fiancheggiata dai muri delle ville circostanti e battuta dal fuoco dei fucili francesi. Le mani mozze grondanti di sangue, le ossa frantumate che sporgono bianchissime dalle divise squarciate, gli arti che solo brandelli di carne sfilacciata tengono attaccati ai corpi, i gemiti dei moribondi e le disperate invocazioni alla madre, all’Italia, alla patria che echeggiano nell’aria fetida, gli infondono insieme terrore ed esaltazione, rabbia e angoscia.
A due a due, assordati dal frastuono, oltrepassano la batteria – due fumanti pezzi d’artiglieria sistemati davanti alla porta e intenti a martellare il viale e la facciata del casino dei Quattro Venti. Una palla di cannone colpisce una ruota e l’esplosione uccide un artigliere. Si può morire senza saperlo, pensa. Ma spesso senza saperlo si vive. E non sa cosa è peggio. Il principe don Michelangelo Caetani, che aveva simpatizzato per le riforme, è venuto sugli spalti in abito di gala a godersi lo spettacolo della battaglia. Sussulta. La guerra non è affatto divertente, constata disgustato, e si dilegua. In quella macelleria, il suo bastone da passeggio appare incongruo come un fucile in un salotto.
C’è un uomo in divisa che inveisce e urla come un forsennato, tanto che i soldati sono costretti a saltargli addosso per tenerlo fermo e poi a rinchiuderlo finché si calma. La situazione deve essere perfino peggiore di come sembra, perché quello è Calandrelli, il comandante dell’artiglieria romana. I francesi ci insultano, bisbiglia a Leone un garibaldino, gli fanno perdere la ragione.
Voltano a destra, e attraverso una trincea sbucano su una piazzetta riparata dal muro di un giardino e da una casa. Là fuori, col cappello di feltro nero a punta ornato di piume di struzzo, col poncho bianco sulla giubba rossa che lo farebbe riconoscere a chiunque, c’è Garibaldi, in sella al suo cavallo. Bianco pure questo, quasi maestoso. Coraggio, figlioli, gli dice. È la prima volta che Leone vede il Generale a Roma.
Molti diranno che sembra piú il capo di una tribú indiana che un generale. Biasimano la mancanza di decoro della divisa sua e dei suoi uomini, lo scudiscio da gaucho, i modi da capobanda. E disapprovano che si faccia accompagnare ovunque da un gigante d’ebano nero, che in battaglia rotea il lazo e tira giú di sella i nemici accalappiandoli e trascinandoli nella polvere come bestie. Ma le vittorie che ha riportato il 30 aprile respingendo l’attacco dei francesi e a maggio nella campagna contro i napoletani, fermando i primi e costringendo i secondi a ritirarsi, combattendo contro eserciti molto meglio armati e assai piú numerosi, gli hanno conferito già l’aura mitica del salvatore. E nessuno possiede il suo carisma. Sa come motivare i suoi uomini. La voce calma e ipnotica rassicura i ragazzi sgomenti.
Leone segue il camminamento scavato nella trincea, e si ritrova nel giardino e poi al pianterreno della Villa del Vascello. Non ha neanche il tempo di stupirsi, che già ha ricevuto l’ordine di prendere posto. Le truppe cui vengono a dare il cambio si trascinano al riparo. Nei loro occhi, una vitrea assenza. Leone si dice che presto saprà se ha davvero coraggio. Disorientato, per un istante si chiede cosa ci fa lui, cosa ci fanno tutti loro, nel salone di quella villa. Si erano arruolati per combattere gli austriaci, non i francesi. Leone però non ha mai combattuto.
Nel 1848, in Tirolo, il suo contributo alla legione Thamberg è stato poco militare: magazziniere in seconda, si è limitato a distribuire pantaloni, camicie e scarpe offerte dai cittadini e a montare la guardia qualche volta, di notte. Tuttavia ha piú esperienza del mondo dei suoi compagni – studenti vissuti nel privilegio e nella ricchezza. Ha sopportato la fatica bovina di tenere i libri contabili in un ufficio, l’umiliazione di un tirocinio non pagato, e retribuito solo come premio dal padrone banchiere – che il primo giorno del secondo anno gli ha elargito l’elemosina di 40 zwanziger (34 franchi) –, si è guadagnato uno stipendio vero di 50 lire milanesi al mese annoiandosi a stipulare polizze e indennizzi per la compagnia di assicurazioni triestina, ha avuto il coraggio di abbandonare quella vita odiosa, si è arrangiato a campare da profugo, si è scelto un compagno per il viaggio nella vita. Ma non ha ancora compiuto le due azioni che fanno di un ragazzo un uomo. Non ha mai fatto l’amore. Non ha mai ucciso.
Medici cerca volontari per una incursione al casino dei Quattro Venti. Si toglie gli occhiali azzurri coi quali si protegge gli occhi infiammati dalla stessa malattia che gli gonfia i piedi, e li fissa uno a uno: tra le palpebre cispose le sue pupille sono due braci rosse. Leone sostiene quello sguardo di fuoco. Lo scopo della missione è incerto, né Medici lo spiega. La logica dice che riconquistare il casino dei Quattro Venti è impossibile. Forse bisogna solo capire dove sono annidati i francesi. O rendersi conto di ciò che è davvero successo. Cominciano a circolare voci allarmanti. Uno dei garibaldini che è riuscito a scamparla ha riferito che laggiú è stato un massacro: i francesi hanno fatto le barricate coi cadaveri, il cannone romano li ha fatti a pezzi, mucchi di membra umane sporgono dai detriti. A un cadavere la palla di cannone ha vuotato il petto e incastonato gli intestini sul muro: i calcinacci piovuti dal soffitto gli hanno imbottito il ventre. Bisognerà portarli via, quei cadaveri. Ma chi potrebbe farlo? Forse però in guerra la logica non conta, e non bisogna farsi troppe domande. Comunque sia, e qualunque cosa lo attenda, Leone alza la mano.
E quando Medici inforca di nuovo gli occhiali e sulle labbra gli si disegna un sorriso, lui si rende conto che tutto il primo plotone della 1a compagnia – il suo plotone – ha fatto lo stesso. Dovrebbe rallegrarsene ma non ci riesce. All’una di una magnifica giornata di giugno, segue il capitano Gorini verso la porticina che si apre sul fianco della Villa. Leone Paladini, alias Luigi Dini, volontario, esce sotto il fuoco.
È notte fonda quando si sdraia sul pavimento di un salottino del Vascello. Degli avvenimenti di quella domenica gli resterà un ricordo vivido, indelebile e insieme stranamente confuso. La successione dei fatti interrotta, le sequenze staccate l’una dall’altra e aggregate come a caso. Ha corso sotto gli spari, verso le canne dei fucili dei francesi che, nascosti fra i tralci di una vigna, hanno tirato su di loro come i cacciatori ai piccioni, colpendo per puro caso i compagni al suo fianco, e non lui. Ha rischiato di calpestare il Vigoni di Pavia: se lo è ritrovato quasi tra i piedi, fulminato al cuore. La prima pallottola, come misteriosamente aveva già presentito, era stata davvero per lui.
E Bonduri, trafitto al deretano, si è accasciato mugolando di dolore. Anche Malvisi e Cattaneo sono rimasti feriti, però li ha visti correre zoppicando, a perdifiato, per mettersi in salvo.
Ed eccolo senza ordini e senza sapere cosa fare, esposto a una tempesta di pallottole, senza riparo: non può andare avanti e non può tornare indietro; si è tuffato nel campo di grano insieme all’inseparabile Varesi, e i fusti delle piante e le spighe hanno deviato i proiettili e lo hanno salvato. È tornato al Vascello senza sapere come, è uscito di nuovo per un secondo inutile tentativo di riconquista, è tornato ancora al Vascello, si è appostato dietro una finestra, ha puntato il fucile verso il casino – avrebbe voluto essere un tiratore migliore; è uscito per la terza volta, con le gambe fiacche, le orecchie che ronzavano e le labbra screpolate dalla sete, e ha montato la guardia nella casetta del giardiniere dei Quattro Venti, che è stata occupata dai difensori, a ottanta passi dai francesi. Ha lottato col sonno che gli chiudeva le palpebre finché gli hanno permesso di lasciare la postazione e riposare il resto della notte. Il pavimento è duro, il boato della guerra assordante. Ma la stanchezza è tale che si addormenta di schianto.
Solo il 5 giugno, martedí, a mezzogiorno, lascia il Vascello ai bersaglieri lombardi di Manara e scende a Roma. Leone Paladini se l’è cavata. Ma il bilancio della battaglia è pesantissimo. Diciannove ufficiali sono morti, 32 ricoverati negli ospedali. Tra morti e feriti, 500 soldati sono fuori combattimento. Della sua compagnia sono rimasti vivi e abili in 95. Escludendo le perdite dovute alle fughe e all’abbandono, hanno avuto nove feriti e due morti. Bonduri purtroppo non ce l’ha fatta, la pallottola è penetrata nell’osso sacro, è spirato all’ospedale. Leone ha una contusione al polpaccio, dovuta al colpo di una palla – smorzato dal provvidenziale rimbalzo contro il cancello dei Quattro Venti.
Ma la ferita che ha ricevuto al Vascello non potrà rimarginarsi. I francesi hanno sparato su di loro – sui difensori della Repubblica. Lui ha sempre considerato i francesi i suoi fratelli. Non li odia, li considera i suoi maestri di libertà. Il papa e i preti, invece, li consideravano figli del diavolo: e adesso invece proprio dai francesi Pio IX spera di essere restaurato al potere. La disillusione, il disinganno e l’amarezza fanno piú male della contusione al polpaccio. Ieri notte, ben protetti dietro il muro del casino dei Quattro Venti, i francesi li hanno sbeffeggiati per ore. Gridavano Fottetevi, italiani porci.
Trascorre al Vascello tutto il mese di giugno. Ogni quattro o cinque giorni, scende a Roma per riposarsi qualche ora. Trova la città sotto assedio per nulla rassegnata, vitale e orgogliosamente indifferente alle cannonate che diroccano le case di Trastevere, sfondano le volte delle chiese, sbriciolano affreschi e pavimenti di porfido, e alle bombe che guizzano in cielo come meteore e poi scendono sempre piú veloci, fischiando e sibilando, e cadono qua e là sui palazzi e nelle strade. I monelli romani hanno scoperto che trascorrono dieci secondi, talvolta dodici, prima dello scoppio. E allora si precipitano sulla bomba e spengono le micce con gli stracci bagnati e l’argilla con cui si sono impiastricciati le mani. L’artiglieria – che ne ha bisogno per riutilizzarle – gli paga uno scudo ogni bomba. Ma non lo fanno per soldi. I piú sfrontati strappano le micce con le unghie, e se ne vantano, con la sbruffoneria ironica che pare la dote naturale degli indigeni. E che non dismettono nemmeno quando alcuni ci lasciano le falangi e la vita.
Le botteghe sono tutte aperte, al Caffè delle Arti non si trova un posto a sedere e deve leggere in piedi sul bancone i giornali stranieri, contendendoli agli altri volontari che come lui vi cercano qualche notizia veritiera per capire cosa stia davvero accadendo; tra piazza del Popolo e piazza Venezia s’ingorgano le carrozze, le bande suonano nei chioschi, le minenti sorridono ai soldati e la sera tutti i balconi sono illuminati. Nelle strade non si incontra neanche un prete: sembrano spariti tutti, anche se dovrebbero essere almeno cinquemila. Ma forse, proprio come i bacarozzi – cosí, con questo epiteto sgarbato li chiamano i romani –, si sono solo rintanati, e spunteranno fuori appena sarà finita la loro notte. Prima di risalire sul Gianicolo, Leone passa sempre a salutare Varesi, nel suo laboratorio dietro Monte Citorio.
Qualunque cosa accada, non saranno come Achille e Patroclo, come Eurialo e Niso. Il suo amico ha ricevuto dal comandante l’ordine di non tornare in prima linea, per restare a dirigere la selleria – e riparare scarpe, approntare cinture e bretelle per i fucili. Medici vuole inoltre farsi fabbricare dei sacchi di cuoio identici a quelli che aveva visto in Uruguay. Mentre sette o otto della compagnia si erano subito affrettati a offrirsi come volontari per quel lavoro sicuro nelle retrovie, Varesi aveva tentato di rifiutare. Il sellaio ha coraggio. E non deve dimostrarlo. Lo sanno tutti che nel 1848 è stato tra i piú attivi sulle barricate di Milano e ha contribuito alla presa di porta Tosa. Non è uno che si tira indietro. Medici però vuole preservare le capacità artigianali del Varesi. La sua filosofia è che ognuno deve dare il suo contributo: cioè faccia ciò che sa fare meglio. E la presenza di quell’operaio nobilita la sua compagnia. I papalini hanno raccontato agli stranieri che la Repubblica romana la difendono solo i socialisti e i comunisti di Mazzini, mestatori politici, utopisti, sognatori bislacchi di tutte le nazioni e giovani teste calde – studenti figli di papà, artisti e briganti di altri stati italiani e perciò da loro considerati stranieri. Non i romani né il popolo: questi vorrebbero il ritorno del papa. Varesi è la prova delle loro menzogne, e deve vivere per dimostrarlo.
Leone indugia fra le tavole del laboratorio, su cui s’ammucchiano suole, tomaie, cinghie e barattoli pieni di chiodi, respira l’odore amichevole del cuoio e della colla, osserva Varesi – magro ma vigoroso – mentre manovra con sorprendente gentilezza le forbici e rifila le cinghie. Gli piacerebbe saper usare le mani con l’abilità del suo amico....

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