Enea, lo straniero
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Enea, lo straniero

Le origini di Roma

Giulio Guidorizzi

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Enea, lo straniero

Le origini di Roma

Giulio Guidorizzi

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Enea in questi tempi lo definiremmo un migrante, un profugo. Come molti che oggi raggiungono le coste europee scappa da una guerra, quella di Troia; costretto a lasciarsi alle spalle la propria casa e la donna che ama, portandosi in spalle il vecchio padre Anchise e tenendo per mano il figlio Ascanio. Insieme ad altri uomini e donne, che come lui hanno perso quasi tutto, si mette in mare senza una meta, senza un porto sicuro a cui approdare; con la sola certezza di dover fuggire per sopravvivere. Da quel momento per lui inizia un'esistenza da straniero. Accolto a Cartagine dalla regina Didone, malgrado il sentimento che li unisce è costretto ad abbandonarla per seguire il suo destino. Giulio Guidorizzi si immerge nei versi di Virgilio e interpretandoli, con lo sguardo attento del classicista, li trasforma in un grande saggio dal respiro narrativo rinnovandone la forza senza tempo.I Romani sapevano di discendere da un advena, uno che viene da fuori, accompagnato da fuggiaschi che avevano attraversato il mare rischiando mille volte di morire e scomparire nelle acque. «L'impero romano, - scrisse Seneca, - ha come fondatore un esule, un profugo che aveva perso la patria e si portava dietro un pugno di superstiti alla ricerca di una terra lontana… Farai fatica a trovare ancora una terra abitata dagli indigeni: tutto è il risultato di commistioni e di innesti». I Greci al contrario pensavano di essere nati dalla terra, come un albero. Gli Ateniesi si vantavano di essere autoctoni: il loro primo re, Cecrope, era sbucato dal suolo come un serpente e per questo aveva la parte inferiore del corpo coperta di scaglie. «Noi siamo stati sempre qui, - dicevano, - la nostra gente è nata da questa terra; possiamo accogliere i supplici e gli stranieri, anzi è la nostra legge a imporlo, ma i veri Ateniesi saremo sempre noi, i figli del serpente ». I Romani non pensavano cosí. Il loro eroe fondatore veniva da una terra lontana, ma arrivando non trovò il deserto: solo uomini selvatici e primitivi. Eppure non li volle come schiavi ma come compagni.

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2020
ISBN
9788858434536
Fatum

Un amore

La sentivo nell’aria: dopo tanti anni di mare riconosci quando sta per arrivare un guaio. I gabbiani volano molto piú in alto del solito, il vento diventa piú cattivo e gira a folate. Le nubi arrivano dopo e la bufera si scatena in pochissimo tempo; se sei vicino alla costa forse hai tempo di rifugiarti in qualche baia. Ma quando sei in mezzo e non si vede nient’altro che il mare, allora puoi solo confidare nella buona sorte e sperare che il legno tenga e le sartie reggano. Un bravo timoniere come sono io è capace di affrontare le ondate, almeno per un po’: devi fare in modo che la nave non si traversi mai, ma con la gente terrorizzata a bordo che corre di qua e di là e qualche carico che si sposta, malgrado sia stato assicurato per bene, non sempre si riesce. La rotta la perdi di sicuro, non ti resta che seguire il vento e le onde e sperare che l’albero non si spezzi, con quel poco di tela che riesci a tendere; i remi non li puoi mettere giú. E nemmeno raccogliere qualcuno che cade fuori bordo o soccorrere una nave in difficoltà. Io cerco di prendere le onde di prua, prima stringendo un po’ e poi allargando in modo che la chiglia si appoggi sul fianco dell’onda e non vada a sbattere nel cavo. È cosí per ore, e hai sempre paura che si spezzi qualche trave, perché il mare ha una forza infinita. Tempeste ne ho viste tante, sin da quando ero un ragazzo e mio padre mi ha preso con sé per insegnarmi; e porto sempre con me un anello di rame consacrato ai Grandi Dèi di Samotracia, contro l’annegamento.
Ma ora di stringere verso costa non c’è verso, dobbiamo per forza seguire il largo. Il monte Erice è scomparso da un po’ dietro la nuvolaglia: Anchise ormai è fuori dai pericoli, nella sua pace, beato lui! Noi no, invece, siamo nel mezzo. Voglio portarla in salvo questa nave, per Enea. Lui è avvolto nel suo mantello, sotto gli scrosci di pioggia, e mi guarda. Quando ha capito che le cose si mettevano male, mi ha detto che ora toccava a me e che gli dèi e i nostri Penati ci avrebbero protetto, come ci avevano soccorso in momenti peggiori.
Gli dèi ci aiuteranno, sarà pur vero, ma intanto io provo ad aiutarmi da solo. Si tratta di resistere per qualche ora. Ecco un altro maroso, enorme… e anche questo ce lo siamo messi alle spalle; ogni volta la nave si scuote tutta e poi ne arriva un altro. Tempeste ne ho attraversate tante. Ma questa è davvero mostruosa. Purché il timone non si spezzi: devo usare la mia forza e quella di due altri uomini per tenerlo in linea. Non si vedono piú il mare né il cielo, niente. Pioggia, foschia. Distinguo solo a tratti la cima dell’albero di qualche nave che compare e scompare tra le ondate. Siamo soli, ogni nave fa da sé, come può. Se potessi permettermi di avere paura, avrei paura. Anzi sarei terrorizzato.
Con le vele stracciate e le tavole sconnesse due navi gettarono l’ancora davanti a una spiaggia di sabbia, appena arcuata; un vento caldo faceva frusciare le foglie dei palmizi lungo la riva. Le altre navi si erano perse chissà dove; una era certamente affondata. Enea aveva visto con raccapriccio un’onda alta come una montagna battere sulla fiancata con un rimbombo terribile, e la nave, semplicemente, si era spaccata in due. Alcune teste qua e là erano emerse tra il ribollire delle spume, ma nessuno poteva soccorrere quella gente. Forse qualcuno era riuscito ad afferrare un rottame ed era sopravvissuto, per morire piú tardi, di sete e spossatezza, portato alla deriva dalle correnti.
I profughi sbarcarono, quasi barcollando, e tirarono le gomene verso riva, legandole al tronco di una palma. Il fondale era basso, si poteva scendere tranquillamente; le poppe dondolavano leggere nell’acqua limpida dove si distinguevano uno per uno i ciottoli sul fondo.
Enea prese per mano il piccolo Ascanio. Il bambino era stato molto coraggioso nella tempesta, non aveva gridato neppure una volta. Alcuni esploratori si addentrarono tra i cespugli della riva sino a una collinetta brulla, subito dopo il lido, e tornarono gridando di gioia: avevano scorto in lontananza una macchia bianca, le mura di una città, senza dubbio.
Bisognava arrivarci; risalirono sulle navi, gli uomini si misero ai remi. Non soffiava piú un alito di vento. Lentamente sfilarono lungo la costa. Dopo un promontorio, ecco una nave che si dirigeva verso di loro: era fenicia, lo si capiva dalla forma dello scafo. Ne avevano viste molte simili, nei porti della Troade. I Fenici li conoscevano bene: gente che naviga, trasporta merci preziose; a volte depredano, come pirati. Ma senza essere sanguinari. Abili commercianti, sí, padroni di tutte le lingue: era impossibile non trovarli in ogni porto. Anche questa nave non sembrava avere intenzioni cattive; si avvicinò, a gesti l’equipaggio fece cenno di seguirli. Gli uomini armati a bordo non avevano un atteggiamento ostile. Capivano che davanti a loro c’era gente pacifica, sballottata dalla tempesta, e che certo doveva aver visto le muraglie d’acqua che ruggivano contro la riva, nei giorni passati. – Qart Hadasht, – gridavano e gesticolavano. Qart Hadasht, Città Nuova, Carthago.
Lentamente, seguendoli, le navi troiane entrarono nel porto. La città sorgeva su un promontorio, sui lati c’era acqua. Nuova lo era davvero: cantieri ovunque, larghi spazi vuoti, giardini, un giro di fortificazioni non ancora finite, una rocca in alto, tutta bianca; stradine strette, formicolanti di gente dagli abiti variopinti.
Doppiando un molo, una sorpresa li fece gridare di gioia: danneggiate, malconce, erano ormeggiate le navi della flottiglia! Ne mancavano due, ma le altre erano lí. Tutti si accalcarono attorno a Enea. – Ci speravamo, – dicevano, – sapevamo che non eri morto, tu hai Afrodite che ti protegge! – A un tratto si fece largo un uomo alto e bruno, Aceste, l’indovino, il consigliere piú fidato di Enea.
– Ci hanno accolto da amici, – disse, – ci hanno offerto cibo, acqua, baracche in cui ricoverarci.
– Chi è il re di questa città? – chiese Enea.
– Ci hanno fatti salire sulla rocca; c’è un grande palazzo con colonne in legno di cedro. Ci hanno portati lassú. A regnare qui è una donna, giovane, bellissima; sedeva su un trono d’argento. Ho sentito dire che presso i Fenici e altri popoli delle isole a volte sono le donne a regnare. Mi ha guardato e ho visto la pietà nei suoi occhi. «Il dolore, – mi da detto, nella nostra lingua, – l’ho conosciuto anch’io: per questo amo soccorrere gli infelici». Io le ho raccontato di te e della tempesta, e che eravamo angosciati per la tua scomparsa. «Enea, – ha risposto, – è un nome glorioso, lo conoscono tutti in ogni luogo sulle rive di questo mare. So che è un uomo coraggioso, caro agli dèi. Se Tanit vuole, ed è ancora vivo, saprà trovare il modo di giungere a Cartagine. Tutti gli stranieri arrivano qui: fuori da queste mura ci sono solo bestie e uomini feroci».
Si chiama Didone, quella regina.
Belo, re di Tiro, aveva avuto tre figli: Didone, Anna e Pigmalione, l’erede al trono. Quando venne il tempo, Didone fu data in sposa a un giovane chiamato Sicheo, figlio di uno dei mercanti piú ricchi di Tiro. Da generazioni la famiglia di Sicheo sedeva tra quelle nobili della città. Le nozze erano state combinate tra i padri, certo, ma la stessa Didone, che conosceva Sicheo sin da bambino, pensava che non avrebbe potuto sposare nessun altro.
Le giornate passavano serene per lei a Tiro; piú tardi avrebbe scoperto che la felicità si vive ogni giorno senza saperlo e ci si accorge di essere stati felici solo quando è svanita, solo quando il dolore arriva.
Sicheo era figlio unico; le navi di famiglia correvano il mare e a quanto pare Tanit e Melqart, i due grandi dèi fenici, erano loro propizi. Mai un carico andava perduto: gli uomini di Sicheo trasportavano genti e merci; erano fedeli e abili, sapevano che ci sarebbe stato un premio anche per loro. A volte lo stesso Sicheo partiva, con la sua nave piú grande, diretto verso Cipro o l’Egitto o Creta; in quei luoghi tanti uomini importanti intrattenevano scambi con la sua famiglia. Era ospitato con ogni onore, e da quei viaggi tornava ogni volta con doni bellissimi per Didone: ambra, profumi, gioielli che andavano a riempire i suoi forzieri. Era un giovane sottile, dagli occhi scuri, vivaci, sempre pronto a sorridere, una persona cara a tutti. Non lo si vedeva mai ubriaco o sguaiato. E le notti con la sua sposa, in mezzo ai profumi e agli ori del palazzo, erano dolcissime. Didone amava sentirlo respirare al suo fianco; spesso stava a osservarlo fino all’alba, dormiente, desiderando di avere un figlio da lui. No, fino a quel momento Didone non sapeva che cosa fosse la sofferenza. Cosí trascorsero tre anni, e lei ne aveva venti, quando accadde quello che le mutò la vita.
Tutto avvenne in fretta, troppo in fretta, come in un attimo guizza un fulmine dal cielo o un terremoto distrugge la casa piú bella e seppellisce tutto sotto le rovine.
Belo morí e Pigmalione divenne re. Non si erano mai troppo amati, lui e la sorella. Pigmalione era un uomo infido e crudele; con uno sguardo obliquo, torvo, e gli occhi piccoli e cattivi. Dalla morte del padre Didone andava al palazzo reale il meno possibile e solo per i banchetti piú importanti. Voleva vivere in pace la sua felicità, come ai tempi in cui Belo era vivo; non capiva ancora che non si può mai fermare il flusso degli eventi che trascina gli esseri umani, indifferente alla loro personale felicità.
In certi momenti Didone pensava che Pigmalione non fosse del tutto sano di mente: a volte scoppiava in ire violentissime, durante le quali condannava al supplizio persone per semplici sospetti; a volte cadeva in un tetro mutismo per giorni interi, da cui nessuno, né giocolieri né danzatrici, riuscivano a sollevarlo.
Didone però non aveva letto bene nel cuore di suo fratello: non era folle, solo tremendamente invidioso, di tutto e di tutti, sebbene fosse re. L’invidia la si capisce soltanto dopo, perché la dissimulazione è indispensabile all’invidia, e a cadere nella sua rete sono soprattutto i migliori, che non la conoscono.
Pigmalione invidiava la felicità di sua sorella e di quel Sicheo, a cui sembrava tutto andasse bene. Era invidioso anche perché percepiva istintivamente che le altre persone amavano Didone e Sicheo piú di lui; e sapeva di essere circondato solo da adulatori o gente impaurita. Era sospettoso di tutto: riempiva la città di spie, e ne aveva qualcuna anche nel palazzo della sorella. Didone era felice, Sicheo le era fedele. I due erano innamorati, di sicuro, e sembrava che a loro bastasse questo. Quel pensiero tormentava Pigmalione in modo oscuro, ossessivo: non riusciva ad accettare senza fastidio che Didone fosse felice, mentre lui, malgrado le sue concubine e il suo potere, avesse un animale che gli rodeva l’anima. No, quella felicità doveva sparire, per lui era come cancellare una macchia.
Un giorno Sicheo partí per uno dei suoi viaggi: Didone in seguito avrebbe ricordato quasi ogni notte il bacio che si diedero, quando lo accompagnò al porto. Passarono i giorni, e Sicheo non tornava; Didone era inquieta; ogni mattina scrutava dalla terrazza in direzione del mare, sperando di vedere la sua nave. Nulla, mai.
Una notte le comparve un sogno. Vide Sicheo con un’espressione disperata sul viso; si lanciò su di lui per abbracciarlo, ma per quanto tentasse non riusciva a farlo. – Didone, amore, – le disse l’ombra, – ascoltami, non tornerò piú a trovarti: Pigmalione mi ha ucciso a tradimento, appena sono tornato, e ha fatto uccidere anche i miei marinai. Si è impadronito delle ricchezze che avevo sulla nave. Fuggi presto, perché di sicuro tra poco ucciderà anche te –. Poi l’ombra le rivelò il luogo dove era stato sepolto il suo corpo e si dissolse come fumo nel vento.
Didone si svegliò. Fu subito sicura che il sogno fosse vero. Fece cercare di nascosto là dove l’ombra aveva detto, e il corpo di Sicheo fu trovato. In quel momento scoprí un aspetto che ancora non conosceva di se stessa: era capace di tenere tutto dentro, di non lasciar trasparire il suo dolore e il suo odio, come una fortezza dai portoni sbarrati. Non pianse, non si disperò, non disse nulla a nessuno se non a sua sorella Anna e a pochissimi amici fidati. Fece cremare in segreto il corpo di Sicheo e ripose le ceneri in un’urna d’oro.
Preparò il suo piano con astuzia. Pigmalione, dopo la morte del marito, andava a trovarla piú spesso del solito, circondato dalle sue guardie, e si muoveva nel palazzo come ne fosse già il padrone: di Sicheo disse che gli aveva fatto avere notizie da un porto lontano, e sarebbe tornato in poche settimane. Didone aspettava il momento di piantargli un pugnale nel cuore; ne teneva uno con l’impugnatura d’oro, affilatissimo, il pugnale della vendetta, nascosto tra le pieghe della sua veste di porpora. Pregustava il momento in cui gli avrebbe trapassato il petto. Ma quel momento non venne, perché Pigmalione non si avvicinò mai troppo a lei.
Nel frattempo, in segreto, preparava la fuga; seppe scegliere bene i compagni, tutta gente amica di Sicheo. E seppe sviare le spie. Raccolse le sue ricchezze in una stanza, con il pretesto di custodirle meglio, e di ciò Pigmalione fu contento: tutto sarebbe stato già pronto per lui. Didone intuí che si preparava a ucciderla entro pochi giorni. Probabilmente, l’avrebbe fatta strangolare e poi avrebbe detto a tutti che si era impiccata per la scomparsa dello sposo. Pensava che fosse una donna fragile e ingenua, una canna facile da spezzare, poco piú che una giovinetta viziata, abituata al lusso; sciocco, non aveva capito quanto lei fosse diversa da tutte le donne che aveva conosciuto. Non si sarebbe mai fatta prendere. Teneva un veleno con sé, per il caso estremo.
Una notte Didone ordinò che fossero eliminate le spie che aveva individuato, perché faceva sorvegliare in segreto le porte del palazzo di Pigmalione e sapeva quali dei suoi servi entravano e uscivano da lí per portare notizie. Si sentivano sicuri, perciò non prendevano precauzioni. Essere sottovalutati dai nemici, che grande fortuna!
I suoi fidi erano scesi al porto alla spicciolata. Anche Didone, come un giorno Enea aveva fatto a Troia, s’immerse nell’oscurità assieme alla sorella, alle ancelle e alle sue guardie, portando tutto ciò che aveva. Giunta sul molo, trovò radunato anche un gruppo di gente del popolo. Avevano saputo, non si sa come, e volevano seguirla.
S’imbarcò sulla nave di Pigmalione, la piú grande e veloce. Le ricchezze furono caricate, gli uomini di Sicheo si misero alle manovre. Assieme a lei salparono due altre navi, scivolando in silenzio fuori dal porto. Il mare era calmo, il vento propizio. Sarebbero passate molte ore prima che Pigmalione potesse gettarsi al suo inseguimento. Se ne avesse avuto cuore, s’intende, e se non si fosse accontentato di mettere le mani su ciò che restava dei suoi beni.
Le navi fecero rotta verso Cipro, dove erano molti gli amici di Sicheo. Lí Didone fu accolta con onore; quando poi seppero quello che era accaduto, si sdegnarono contro l’infamia del fratello e giurarono che l’avrebbero difesa. Ma Pigmalione non osò mai inseguirla: era troppo vile per infilarsi una corazza e iniziare una guerra difficile e incerta. I suoi nemici nei giorni seguenti lasciarono Tiro per unirsi a Didone: sapevano che anche la loro vita era in pericolo.
Cosí si radunò una piccola flotta. Quando tutto fu pronto, Didone ordinò di fare vela verso occidente. Sarebbe andata lontana dal fratello, sola con il suo dolore e l’urna di suo marito. Già da molto tempo i Fenici navigavano i mari occidentali e avevano aperto empori sulle coste dell’Africa. In quella terra Didone voleva ricominciare la sua vita, fondare una città che le facesse dimenticare Tiro, una città senza tiranni né ingiustizie: Qart Hadasht, la Città Nuova, Carthago. Ma aveva giurato dal piú profondo di se stessa che nel suo cuore non ci sarebbe stato piú un altro uomo. Lei e Sicheo, per sempre.
– Anna, sorella, che strana emozione ho provato quando quell’uomo è entrato nella sala della reggia! Come se d’un tratto i colori attorno a me diventassero piú luminosi. L’ho accolto onorevolmente, hai visto, e gli ho offerto una veste di porpora. Era con suo figlio, un bambino bellissimo. Sí, quasi mi sono commossa vedendo Enea con suo figlio al fianco. È bello anche lui; ho notato che un piccolo segno gli riga la guancia destra, di certo un colpo che ha ricevuto in battaglia. Ma il suo modo di camminare non assomiglia a quello di un guerriero, non ha nessuna spavalderia sul viso. Mi hanno colpito gli occhi, quando li ha rialzati dopo avermi reso omaggio; belli, allungati, verdi come il mare. E non hanno niente di feroce, sembra invece che nascondano delle pene.
Ha iniziato a salutarmi nella mia lingua, ma stentava un po’ e allora l’ho interrotto: io conosco il linguaggio del suo popolo. Imparerà meglio l’idioma dei Fenici stando qui da noi, perché certo non vorrà partire subito. E non lo voglio neppure io: prima devo ascoltare le sue sventure.
Tacque un istante. – E raccontargli le mie.
Anna capí che Didone stava entrando in uno dei suoi momenti, quando sprofondava dentro se stessa e nessuno comprendeva che cosa le oscurasse la mente. Si rannuvolava, taceva, sembrava che non vedesse e non sentisse. Anna sapeva che bisognava trovare qualche parola per farla uscire dal p...

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