La moda contemporanea
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La moda contemporanea

I. Arte e stile da Worth agli anni Cinquanta

Fabriano Fabbri

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I. Arte e stile da Worth agli anni Cinquanta

Fabriano Fabbri

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Questo libro racconta la storia della moda indagando al contempo sul senso stesso del vestire e sul significato della «firma», sul potere plasmante dell'abito e sulla sua densità artistica e culturale. Con stile elegante e vivace, l'autore ricostruisce l'universo frammentario della moda analizzando i protagonisti e le principali poetiche del firmamento vestimentario, senza limitarsi alle celebrità delle passerelle e recuperando anche le figure dimenticate dalla storia. Ricco di continui riferimenti all'arte contemporanea, alla letteratura e alla filosofia, che danno vita a un gioco d'insieme di forte suggestione, La moda contemporanea propone una chiave di lettura originale e innovativa, e costituisce uno strumento indispensabile per studenti, operatori e tutti gli appassionati della materia.

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2019
ISBN
9788858432419
Capitolo sesto

Informale ed Espressionismo astratto

Balenciaga e la carne del mondo.

L’ondata di couturier nati «attorno al 1900» si oppone alle raffinatezze passatiste e ironico-citazioniste della fase precedente con una collerica manifestazione di brutalismo anti-figurativo, sempre edulcorato da sagome eleganti di certo irrecusabili anche nel guardaroba degli anni Quaranta e Cinquanta, eppure visitate da una fluidificazione strutturale stavolta non piú riposta su forme precise e geometriche, ma su linee sussultorie, ondulate, quasi distruttive. Bisogna riconoscere in Cristóbal Balenciaga (1895)1 il padre della sartoria piú radicale, piú materica e a tratti tumultuosa, in arte omologa alle grida esplosive dell’Espressionismo astratto e dell’Informale, crudeli e spietati nello smembrare ogni residuo figurale, in moda già gravida del poverismo di Comme des Garçons, di Yamamoto, poi di Owens, di Poell, su su fino a Pugh, a Saberi, insomma alle avanguardie degli ultimissimi decenni, tanto l’anima dello spagnolo è presaga di sommosse e di sconvolgimenti. Fino ad allora nessuno era stato piú oltranzista di lui, nemmeno piú risoluto nel tracciare un muro di demarcazione tra un prima e un dopo; Balenciaga erige una linea di fuoco tra la sua cultura e una tendenza, quella immediatamente attigua che, secondo un vettore di stile inaugurato da Fortuny, appare densa di sapere, rapsodicamente infittita di riferimenti storici, perfino di sberleffi e irrisioni ai capolavori del passato in un revivalismo divenuto però ripetitivo e monotono, a lungo andare. Tutto quell’accumulo di richiami museali e di stravaganze surrealiste è durato fin troppo, l’«asfissiante cultura» cosí severamente attaccata da Jean Dubuffet, altro maestro di questa ondata generazionale e formidabile esponente dell’Informale, va cancellata, polverizzata in un colpo solo, travolta da un ciclone di primitivismo molto piú devastante dei sogni vestimentari di Schiaparelli o della classicità cinetica di Lelong. Contro lo stile di chi «sa troppe cose» meglio invocare un mondo di oblio anteriore alla conoscenza2, una natura deculturalizzata e incontenibile che divelle le vestigia del passato scatenando la furia degli elementi: il vento, il fuoco, l’acqua come Van de Velde a fine Ottocento, ma con una carica sterminatrice molto piú impetuosa nel troncare con la «maestà superlativa delle forme artificiali» incoronata dalla moda precedente.
Schivo, riservatissimo, parco di parole e geloso custode della sua privacy, Balenciaga rifiuta ogni accenno di spettacolarizzazione, si concede poco o nulla ai giornalisti e alle clienti, in una repulsa verso le pubbliche relazioni che anticipa il futuro ascetismo mediatico di Martin Margiela perfino null’uso del camice bianco, liturgico e laboratoriale. Il suo studio è disadorno, monacale, francescano. Per il couturier di Getaria conta solo l’instancabile dedizione al lavoro, da svolgere in un silenzio e in un’austerità diventati una specie di leggenda tra i racconti dei suoi collaboratori3: un silenzio, sia detto, che non ha nulla a che spartire con la disinfezione ospedaliera del credo minimalista. Chanel, peraltro amica di Balenciaga, aveva impostato una linea di ricerca basata sull’utilizzo di forme geometriche, espungendo dal suo campo di azione qualsiasi ingerenza energetica in una riformulazione pressoché totale dell’anatomia femminile e della sua valenza erotica, da sublimare, quest’ultima, in un funzionalismo corporale, professionale, austero nell’uso del nero e della monocromia. Al contrario, pur muovendo da una scala di colori concentrata sui toni del nero nei suoi esiti migliori4, o al massimo giocata sull’accostamento di poche varianti cromatiche, la vena di Balenciaga scaturisce da tutt’altra fonte, di chi avverte che, per rifondare il corpo da capo a piedi, non deve modularlo sulla freddezza spigolosa della ratio euclidea, deve semmai rifarlo con un balioso zampillare di forze e di ilomorfismi (da hyle, materia). Per invocare gli spasmi della realtà, lo stilista dispiega l’arsenale morfologico e la seconda pelle messi a punto da Vionnet5, sua amica del cuore, la quale, sull’onda di uno stile pulsatile e non di rado aggressivo, negli anni era arrivata a modellare una silhouette pervasa da sinuosità espanse, fino a scorticare il derma per mostrare a vivo muscoli e tendini. Il primo accelerante della furia di Balenciaga è quindi l’Espressionismo vionnetiano, che però, per limiti generazionali, si era arrestato un attimo prima del grande salto verso l’informe; ne aveva svelato gli umori, la forza oscura fendendo colpi e scuoiando le superfici, ma aveva lasciato intatto l’impianto della figura. Balenciaga no. Sedotto dall’organicismo di Vionnet fino a copiarne disegni e modelli nelle sue prime escursioni parigine, ne irrobustisce la potenza con un assalto plasmante senza eguali, perché oltre ai lupi dell’Espressionismo già assai feroci nell’azzannare le linee della tradizione e dell’accademia, nella rifondazione del profilo femminile Balenciaga sfrutta il principio attivo di altri additivi, stavolta ispirati al mondo dell’arte. Prima di lui, la haute couture aveva rimodernato l’armadio novecentesco con i funambolismi retromani della citazione, in una propensione dichiarata per le atmosfere terse del Trecento e del Quattrocento, e in particolare per l’arte di Botticelli. Un’arte trasognata, esangue, fredda e dura nella munificenza dei dettagli e nella ricchezza ornamentale, adatta agli abiti calcificati di Schiaparelli ma non certo a quelli di Balenciaga. Alle magie del Quattrocento il couturier preferisce di gran lunga il realismo incarnato del Seicento spagnolo, di Diego Velázquez, Francisco de Zurbarán, Bartolomé Esteban Murillo, maestri di un Barocco brumoso e oscuro, preceduti da un altro pittore presente a Balenciaga, El Greco, tanto policromo e fiammeggiante quanto crudele nelle deformazioni. Ma l’artista piú vicino alle visioni notturne dello stilista è Francisco Goya6, autore fra gli altri di incisioni come Il sonno della ragione genera mostri, titolo che, accanto alle ridde di streghe e ai demoni del repertorio goyesco, citando il solito Freud si presta molto bene a documentare le voci del sottosuolo e del mister Hyde celate in fondo alla psiche. Con Balenciaga e la sua generazione si compie finalmente il fatidico passaggio da una moda ancora vincolata al rispetto della buona forma e dell’equilibrio, benché incrinato a piú riprese dai predecessori, a una moda avida di celebrare le forze oscure e del rimosso con un’esibizione incontenibile di turgori tessili, di squisite escoriazioni vestimentarie, tutte invariabilmente accolte da un ampio pubblico di estimatrici che, nel recinto dolcificato della haute couture, di certo senza esserne consapevoli indossano i valori primari rappresentati sulla tela pittorica da Jackson Pollock, da Lucio Fontana, da Wols e via dicendo, in breve dagli adepti di una materia pullulante di fremiti e incandescenze. Non si spiegano i bozzi e le tumefazioni di Balenciaga senza rilevare l’entanglement che lo dispone sulla medesima linea di orizzonte dell’arte coeva e di altri campi del sapere, per esempio del pensiero di Maurice Merleau-Ponty, tra i protagonisti, assieme a Jean-Paul Sartre e a Martin Heidegger, dell’Esistenzialismo; teorico di una materia, di una «cosa»7 attraversata da solchi, da continue sovrapposizioni, anzi da «chiasmi»8, come li nomina lui stesso, tra uomo e realtà, Merleau-Ponty articola un sistema ben concretizzato dalle invenzioni di Balenciaga, per quanto possa apparire sconcertante l’accostamento cosí inaspettato tra la profondità di riflessione della filosofia e la supposta superficialità della moda. Ma come interpretare le espansioni, le strozzature, le tumescenze del couturier se non alla luce di un intreccio continuo tra il corpo e l’ambiente? Cosa potranno mai essere i suoi rigonfiamenti se non la versione tessile dei valori primari inseguiti dalla visione merleau-pontiana, mutevoli e uterini?
71. Cristóbal Balenciaga, cappotto, 1953.
71. Cristóbal Balenciaga, cappotto, 1953.
Tra le suggestive parole di Merleau-Ponty spicca la celebre espressione di «carne del mondo», che indica in termini concreti tutto il peso e la sostanza, l’esistenza grassa e palpabile dell’ambiente nella sua interezza, da afferrare, compenetrare, in osmosi costante tra il dentro e il fuori, con un corpo disceso tra le cose: stesso dicasi per le strutture di Balenciaga, progettate per abbellire la presenza femminile nell’atto stesso di mutarne radicalmente la forma. I tessuti dello stilista sono pervasi da incavi, da fessure, sconquassati da grinze ed ebollizioni, come se fossero sotto la pressione a volte lieve e a volte violenta di uno spazio che penetra le superfici e al contempo ne viene penetrato, in un rapporto di mutua intersecazione passibile di esercitarsi al meglio nei movimenti di una performance. È ben nota la fissazione di Balenciaga per le maniche, che dovevano essere perfette, impeccabili, comode e spettacolari nella libertà dei movimenti e delle articolazioni, a un tale livello di maniacalità da fargli gridare una specie di mantra, «La manga! La manga!» La manica, la manica, sempre la manica. Al centro di una reciprocità cosí inestricabile tra corpo e ambiente troneggia pertanto il senso del tatto, «quel tatto unico che governa complessivamente tutta la vita tattile del mio corpo»9, fraseggia Merleau-Ponty in tandem a distanza con lo stilista, con tutti i canali della percezione che confluiscono in una singola entità per il tuffo immersivo nella pasta del mondo; anche l’occhio, l’organo del distacco e dell’osservazione impassibile, beneficia di questo processo di tattilificazione: «Lo sguardo… avvolge, palpa, sposa le cose visibili»10. Come non pensare, ancora, alle stoffe di Balenciaga, ruvide o lisce, porose o arrotondate, comunque perentoriamente legate a un’azione aptica, cioè di tastazione e di accarezzamento? Le sue vesti non si guardano e basta, inducono alla tentazione dello struscio, dello strofinio, invitano a farsi sfiorare e serrare tra le mani, deprivate di ogni durezza e di ogni affilatura geometrica stimolano l’esecuzione di una gestualità prensile ed esploratoria. È una moda polisensoriale, completa e sinestetica.
72. Cristóbal Balenciaga, mantella da sera, 1950.
72. Cristóbal Balenciaga, mantella da sera, 1950.
Pur nel perimetro contemplativo di una langue promessa all’eleganza e al buon gusto, Balenciaga resta il grande iniziatore di un percorso di studio morfologico che come si vede capta le sollecitazioni generali del suo tempo, partecipando a pari titolo della letteratura, dell’arte e della filosofia all’edificazione di una visione della realtà bramosa di riscoprire il senso e l’importanza dei valori primari. Il «maestro di tutti noi», dichiarava Dior con rispettosa riconoscenza. La stessa affascinata gratitudine la confessava pure André Courrèges, l’allievo traditore, colui che negli anni Sessanta, sotto lo stupore comunque accondiscendente del maestro, passerà alla linea nemica del Minimalismo, ma che nella parentesi del suo apprendistato da Balenciaga si esprimeva cosí: «Ci trovavi Velázquez e Goya, Amore e Sangue. Ho sempre pensato che lavorasse, che cercasse la strada verso la Morte, come un torero alla corrida»11. Se quindi la convergenza tra lo stilista e la filosofia di Merleau-Ponty può sembrare audace e azzardata, le parole di Courrèges suggeriscono addirittura un’omologia apparentemente piú spericolata con le riflessioni di Heidegger. Non è proprio «l’essere-per-la-morte» uno dei punti centrali di Essere e tempo? Nel capolavoro del pensatore tedesco, l’imminenza e la consapevolezza della morte sono valori da vivere con estrema positività, poiché spingono alla ricerca di una vita sanamente basata su scelte autentiche, di appagante pienezza sensoriale. Su questo tema, poi, come non approntare l’aggancio con un altro coetaneo di Balenciaga, Ernest Hemingway? Nessuno piú del grande scrittore americano ha cantato le lodi della tauromachia e dell’«essere-per-la-morte», con la passione e con il sangue di chi si butta a capofitto in esperienze travolgenti per quanto estreme, pur di vivere un’esistenza al limite. Con una vis del tutto analoga, la moda del couturier, soprattutto quando riposta sui tratti ameboidi di un nero da tenebra, sodalizza con una visione di vita affamata di genuinità, promuove l’epifania, la vestizione performativa verso una realtà da sentire, da toccare, da vivere con percezione rinnovata, come il complesso plastico vivente additato a suo tempo nel manifes...

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