Il pomeriggio d'un fauno
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Il pomeriggio d'un fauno

Stéphane Mallarmé, Paolo Manetti, Paolo Manetti

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  1. 80 pages
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Il pomeriggio d'un fauno

Stéphane Mallarmé, Paolo Manetti, Paolo Manetti

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Nell' Aprés-midi d'un faune (1873-76) Mallarmé (1842-92), con intuizione davvero fulminante, trasferisce la nuova visione della realtà, ottenuta con la tecnica della dilatazione dei confini formali in vibrazioni di luce e d'ombre luminose, sotto forma d'approfondimento psicologico e di maturazione di coscienza nella personalità primigenia delle ninfe e del fauno.

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2016
ISBN
9788858423141
Subtopic
Poesia

La parabola del fauno

1.
Incerte le fonti da assegnare alla sfera dell’occasionale (forse alcuni versi del Rolla di Musset dove appaiono ninfe e fiori d’acqua1, o l’atto scenico del Banville la Diane au bois; perfino, secondo A. Thibaudet, un quadro del Boucher2 alla National Gallery di Londra), piú sottile e penetrante appare per questo interrogativo il suggerimento di Luigi de Nardis (L’ironia di Mallarmé, Sciascia, Caltanissetta 1962).
«Il Monologue d’un faune – egli afferma – pone per la prima volta Mallarmé di fronte a nuovi problemi, gli stessi che nell’estate del ’65, in curiosa concordanza di date, cominciavano a porsi Monet, Renoir e Bazille drizzando i loro cavalletti nel bel mezzo della foresta di Fontainebleau: la figura immersa nella luce naturale, all’aria aperta, il fogliame, le acque».
Novità d’ambientazione e, di conseguenza, stilistiche certo presenti nel poeta di Tournon, ma che saranno ben piú ricche di risultati quando, negli anni fra il ’73 e il ’76, gli giungerà a completo chiarimento e maturazione l’importanza delle scoperte dell’impressionismo a contatto e quasi in reazione fisica con la poetica del simbolismo; quel «suggerimento» degli oggetti che aiuta il sogno, la percezione vibrante di luce e di colori che offre il dato reale e insieme l’astrazione da quello.
Ma il problema della nascita del fauno, che appare cosí lontano dalle strutture romantiche dell’Hugo, come dalle malate e autunnali malinconie di Baudelaire, e perfino a rispettosa distanza dall’archeologia classicheggiante di stampo parnassiano, mi pare che sia da porre soprattutto in relazione alla vicenda di Hérodiade e agli abissi lunari che l’accompagnano.
Mallarmé scrive a Cazalis nel giugno del 1865: «J’ai laissé Hérodiade pour les cruels hivers: cette œuvre solitaire m’avait stérilisé et, dans l’intervalle, je rime un intermède héroïque, dont le héros est un Faune. Ce poëme renferme une très haute et belle idée…»
Cosa è accaduto?
Si è verosimilmente sopito nel molto ammirabile Stefano, si direbbe per un fatale istinto di sopravvivenza, quel viluppo di speculazioni negative che attraverso una serie di astrazioni abbacinanti lo avrebbe quasi costretto alle soglie della follia.
Si è stemperata la spinta che tendeva ad esiliarlo nei cieli del noumeno, e appare a questo punto probabile e convincente che il sortilegio estivo del fauno, suscitato dai profondi istinti che dicono sí all’esistenza, sia un’evocazione che s’oppone agli incantesimi raggelanti che in Hérodiade balenano come inclinazioni alla morte e al nulla.
La principessa giudea nell’invenzione mallarmeana altro non è se non il simbolo della bellezza ideale, che ripiegata in una logica delirante e inquieta, percepisce e teme una discesa dall’atemporale e una verifica in una dimensione terrena, ostile, lontana quindi dalle modalità che la determinano.
Robert de Montesquiou3, che ne parlò con lo stesso Mallarmé, commentò cosí la parte conclusiva del dialogo di Scène:
«Si tratta sí della confessione suprema, del supremo singhiozzo, dell’ultimo accordo: ma la loro ripercussione sopravvive; in essa prende confusamente forma quel segreto, il quale, e lo so dallo stesso poeta, altro non è che la futura violazione del mistero del suo essere ad opera d’uno sguardo di Giovanni, che la vedrà e pagherà con la morte un tal sacrilegio…»
Ed è a questa creatura ai limiti dell’angoscia, pur nell’ammirevole sforzo speculativo che la sostiene, che fa dunque da contraltare, non a caso notevole per simmetria, la vicenda meridiana tellurica e sensuale del fauno; alla bellezza lunare che uccide s’oppone la bellezza solare ch’è vita sia pure fra dubbi e delusioni.
Allo scenario da incubo rilucente che è l’Ouverture ancienne, dove l’ora è indistinta, inafferrabile il reale, la coscienza nei gorghi del naufragio; dove la camera d’Hérodiade appare arcano cupo di forme enigmatiche, di trofei, di argenti, di fiori sfatti, in una atmosfera d’orgogliosa decrepitezza e d’incantesimi moribondi, dove la nota di colore è quell’assenza di colore ch’è il bianco e simboleggia la morte, si contrappone nel Monologue un paesaggio che, se per buona parte è ancora letterario, è tuttavia tramato in tutto il suo spazio di luce di colori di vita. In un tempo esattamente individuabile e circoscritto troviamo: il rubino dei seni, i nenufari gialli, il verde dei germogli di vite, uno stagno che assume intimamente lo splendore del sole; e ancora, ninfe aperte d’impudicizia nel calore dell’ora, le vibrazioni dell’aria, i boschi in un meriggio d’estate.
A Hérodiade, che ripiegata sulle sue astrazioni si pensa e avverte d’essere mortale dono d’amore per colui che avrà osato fissare lo sguardo nei lineamenti proibiti della bellezza noumenica, s’oppone la grazia sensuale maliziosa e sfuggente ma ricca di promesse delle due ninfe per la torpida e turgida umoralità del fauno.
La logica che in Hérodiade punisce con la morte l’atto del possesso sia pure consumato solo nell’ardire d’uno sguardo, nel Monologue segue invece tutto l’incanto terreno ed elementare d’una vicenda in piena luce, nell’atemporalità mitologica di creature che già gli antichi suscitarono come simboli dell’amore e delle energie della natura.
A Giovanni, che rappresenta il genio umano, destinato a concepirsi e realizzarsi solo nel momento fatale della contemplazione dell’ideale e della morte che, per tale ardire, lo coglie, si sostituisce il Fauno, figura che, come giustamente nota il De Nardis, ha in sé «la rappresentazione dell’infanzia del mondo, di un’età primitiva dove la realtà fosse costituita di possibilità aventi in sé i futuri sviluppi delle forme e degli esseri».
Il cigno la rosa la melagrana il giglio che nel tema d’Hérodiade si vestono dei segni della morte e della negazione, assumono nel Monologue connotazioni positive, che vibrano e dilagano nella magia della favola meridiana insieme alle altre presenze naturali, sia pure mantenendosi ancora nella sfera d’una partecipazione esterna.
Infine Venere, che nello svolgimento lunare si dibatte, ed è significativo, fra la negatività di «regards haïs» e il colore emotivo di «brûle», direi che prefigura la dimensione compensatoria del Monologue, dove la dea dell’amore, magistralmente introdotta da: «Je suis content! Tout s’offre ici: de la grenade…», si dona in una dinamica di particolari concreti, «pieds nus» e «bouche» che ci consegnano davvero l’emozione dei lineamenti tellurici della divinità.
2.
Su questa tematica di reazione che esalava dalle profonde pulsazioni dell’essere, liberandosi nella figura faunesca, cadde l’incoraggiamento del Banville che, grato com’era per l’omaggio dedicatogli dal giovane poeta nella Symphonie littéraire, aveva promesso a Mallarmé una raccomandazione per Constant Coquelin in vista d’un probabile inserimento del poemetto in versi nel repertorio del Théâtre-Français. Correva l’estate del 1865.
Il risultato e l’accoglienza non furono però quelli sperati. Da una lettera a T. Aubanel sappiamo che: «Les vers de mon Faune ont plu infiniment, mais de Banville et Coquelin n’y ont pas rencontré l’anecdote nécessaire que demande le public et m’ont affirmé que cela n’intéresserait que les poëtes. J’abandonne mon sujet pendant quelques mois dans un tiroir pour le refaire plus librement plus tard…»
L’inverno del ’65 vede infatti Mallarmé intento ancora sulla maledizione del poema di morte; ma nel maggio dell’anno successivo lo troviamo di nuovo a svagare sul tema solare che dieci anni dopo, sull’orlo dell’ultima maturazione formale, sarà presentato, assai rimaneggiato, al comitato del terzo «Parnasse Contemporain».
Rifiutato per la quasi feroce opposizione di A. France, il poemetto vedrà, infine concluso, la luce nel maggio del ’76, pubblicato isolatamente presso l’editore Derenne, col titolo di Après-midi d’un faune.
L’edizione fu di lusso: non piú di duecento esemplari su carta finissima, copertina di feltro bianco, incisa d’oro, cordoncini di seta nera e rosa, e, soprattutto, con le illustrazioni di Manet.
Ci dice lo stesso poeta con amabile ironia: «L’après-midi d’un faune parut à part, intérieurement décoré par Manet, une des premières plaquettes coûteuses et sacs à bonbons mais de rêve et un peu orientaux…»
Una stesura ...

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