La mattinata prometteva bene. Il sole sâera appena affacciato allâorizzonte e la pietra lavica dei palazzi e delle strade di Catania iniziava ad assorbire il calore dei primi raggi. Il profilo del Duomo si slanciava su un cielo limpido che piĂş azzurro non poteva essere, e che contrastava con il grigio e il bianco della cupola. Mattia camminava svelto per via Etnea, le mani affondate nelle tasche dei jeans, le spalle strette nellâeskimo verde chiuso fin sotto il mento. Lâaria fresca gli sferzava il viso assonnato, ancora solcato dai segni del cuscino. Un piede dopo lâaltro, lo sguardo fisso sul basolato. Stavolta non ce lâavrebbe fatta, inutile prendersi in giro. Tre materie in due mesi potevano essere un obiettivo realizzabile per i suoi colleghi, la cui unica occupazione era lo studio a tempo pieno della medicina, ma non certo per lui, costretto a farsi in quattro tutte le sere in un pub pur di sbarcare il lunario.
La testa altrove, rischiò di andare a sbattere il naso contro il Liotro. Alzò gli occhi sulla statua e salutò con un cenno quellâelefante maestoso che ogni giorno lo accoglieva nel salotto di pietra della cittĂ . A quellâora del mattino il crocevia tra via Etnea e via Vittorio Emanuele era pressochĂŠ deserto, ma i bar avevano giĂ aperto. Mattia sâinfilò in quello dâangolo e chiese un caffè doppio.
Lâuomo dietro il bancone glielo servĂ.
â Un cornetto? Una raviola? â gli propose.
â No, grazie.
â Un iris, fritto un momento fa?
Mattia scosse il capo.
Quello non si diede per vinto. â Una brioscia, allora, calda calda.
Tanto fece che lo convinse.
Brioche in mano, Mattia riprese la sua strada. Rallentò davanti alla fontana dellâAmenano, nota ai catanesi come acqua a linzolu per la forma che lâomonimo fiume sotterraneo assume attraversandola in verticale e ricadendo giĂş in una cascata sottile come un lenzuolo. Ă lâunico punto in cui questo si manifesta in superficie, poi ritorna subito nelle viscere della cittĂ .
Mattia risalĂ idealmente il suo corso, che lâavrebbe condotto dritto dritto al luogo di lavoro, che proprio ingrottata sul letto dellâAmenano aveva la saletta piĂş suggestiva. Attraversò la Pescheria, lo storico mercato del pesce di Catania giĂ animato di voci e con i banchi pronti per accogliere gli avventori quotidiani, e sâinfilò nelle stradine che portavano al locale. La piazzetta davanti allâentrata era deserta, come ovvio a quellâora. La porta accanto, invece, era socchiusa. Mattia si avvicinò e allâimprovviso si trovò davanti Elettra, una dei due responsabili della struttura. La sua preferita.
Occhi semichiusi, viso piĂş assonnato del suo.
â Mattia! Come mai qui a questâora?
â Ciao Ele. Ieri sera sâè fatto piĂş tardi del solito, avevo ancora un capitolo da studiare e ho chiesto a Sergio se potevo completare stamattina le pulizie della grotta â. Sergio era il socio di Elettra.
â Le chiavi ce le hai? â sâinformò la ragazza, chiudendosi il giubbotto. Di giorno lavorava come maestra in una scuola materna di Acireale.
â SĂ, certo, ho quelle dellâingresso laterale, cosĂ scendo direttamente nella grotta.
Elettra si chiuse la porta alle spalle e lo precedette; teneva lo scooter proprio lĂ accanto.
â Vabbeâ, Mattia, buon lavoro â. Si abbassò sulle ginocchia per sganciare la catena di sicurezza dalla ruota.
Mattia sâincantò a guardarla. Si auto-insultò: ma puoi essere cosĂ inchiappato? Sei mesi che te la sogni pure la notte e manco un passo avanti riuscisti a fare?
â Mattia, mi hai sentito?
Cadde dalle nuvole. â Eh?
Elettra pareva seccata. â La porta, come mai è aperta?
La porta? Quale porta? Ah, sĂ, quella del⌠No che non è apeâŚ
â Strano, â fece Mattia, stupito.
â Non è che te la scordasti ieri sera?
â No, no. Sono uscito dallâingresso principale. Poi non lo so che è successo. Però mi pare strano che Sergio lâabbia dimenticata, è cosĂ preciso.
La spinse ed entrò. Elettra mollò lo scooter e gli andò dietro. Scesero i gradini di pietra lavica con cui si accedeva alla grotta e accesero la luce, volutamente fioca. Nella prima saletta era ancora tutto apparecchiato, come lo aveva lasciato Mattia. Fecero gli ulteriori gradini che congiungevano la saletta con la grotta vera e propria, quella nella quale scorreva lâAmenano, e dovâerano sistemati solo tre tavolini.
â Câè una puzza strana, â disse Elettra. Mattia annuĂ, lâaveva avvertita anche lui.
Avvicinandosi alla grotta, lâaria, sempre piĂş umida e rarefatta, amplificava gli odori. Ma quello era un tanfo strano. Dolciastro.
Mattia accese le luci. Lâimmagine che gli comparve davanti, illuminata dai faretti disseminati nel letto del fiume, non lâavrebbe dimenticata mai piĂş.
Il sonno, per natura difficoltoso e dalla vita reso agitato, del vicequestore aggiunto Giovanna Guarrasi, detta Vanina, da una settimana a quella parte sâera popolato di tutti i sogni che in trentanove anni non aveva mai fatto. O di cui perlomeno non riusciva a conservare memoria. Incubi, troppo spesso, assolutamente prevedibili date le circostanze. Un garbuglio di elementi presi qua e lĂ da ogni esperienza vissuta, che la sua mente rimescolava con lâestro di uno chef creativo, e in cui Palermo era sempre lâelemento preponderante. Il protagonista piĂş frequente, manco a dirlo, era suo padre: lâispettore Giovanni Guarrasi. Vanina avrebbe voluto poter decidere quando svegliarsi, in modo da estrapolare solo il bello di quelle apparizioni oniriche, risparmiandosi invece lâepilogo, che purtroppo era sempre lo stesso. Approfittare della temporanea possibilitĂ di abbracciarlo senza poi essere costretta a rivederlo ancora una volta disteso su un marciapiede, il corpo martoriato dai proiettili, e sentirsi di nuovo come quel giorno: inerme, indifesa, impotente. Con la differenza che nel sogno non era piĂş una bambina, era una donna. E non era affatto indifesa: era un funzionario di polizia, e le sarebbe bastato estrarre la Beretta dâordinanza dalla fondina per modificare il corso degli eventi. Se solo ogni volta a quel punto non si fosse svegliata, sudata quasi avesse corso una maratona e col cuore fuori dal petto.
Vanina accese lo schermo dellâiPhone e lesse lâora: le sette. Eccola lĂ , lâaltra novitĂ dellâultima settimana. Mai nella sua vita le era successo, come invece accadeva in quei giorni, di abbandonare il letto prima ancora che la sua batteria di sveglie iniziasse a suonare. Disattivò le prime due sul telefono e si alzò. Si trascinò in cucina e disinserĂ la terza, quella meccanica, che quando iniziava a suonare, vibrando sui piedini, non dava tregua finchĂŠ qualcuno non premeva con forza il tasto metallico sul bordo superiore.
Con un occhio chiuso e uno aperto si preparò il caffè, due capsule in una tazza, e si diresse verso il soggiorno per berlo davanti alla vetrata che dava sullâagrumeto. AprĂ la tenda e si mise nellâangolo da cui si vedeva lâEtna, che in una giornata cosĂ limpida pareva disegnata. AprĂ lâanta a scorrimento per mettere fuori un braccio e capire se la temperatura da inizio di dicembre le avrebbe consentito di fumare fuori la prima Gauloises della giornata quando qualcuno le si parò davanti facendole fare un salto di un metro. La tazzina volò via e il caffè si sparse per la stanza andando a colpire perfino la libreria dove Vanina custodiva la sua preziosa collezione di vecchi film. Il pigiama non ebbe miglior sorte.
â Ecchemminchia, Lo Faro! â vociò il vicequestore.
Lâagente Lo Faro si tirò indietro, bordeaux per lâimbarazzo.
â Mi scusi, capo.
Vanina lo fulminò.
â Qualcuno ti diede il permesso di chiamarmi capo?
Il ragazzo scosse la testa.
â No, dottoressa. Ă che io credevo⌠â si fermò.
â Che cosa credevi? Che siccome tâhanno messo a farmi da scorta, ipso facto eri diventato uno dei miei?
Solo i piĂş fidati, quelli che lei considerava la sua vera squadra, potevano chiamarla capo. Lâagente ancora non sâera guadagnato la posizione, anzi pareva mettersi dâimpegno per non guadagnarsela mai.
Lo Faro non rispose.
Vanina moderò il tono.
â Che ci fai lĂ, non dovresti startene al palo davanti al cancello dâingresso?
CosĂ aveva deciso il primo dirigente Tito Macchia, Grande Capo della Mobile di Catania e suo diretto superiore, e cosĂ Vanina aveva accettato che fosse. Obtorto collo, come del resto aveva acconsentito allâassegnazione di quella scorta, pur essendo convinta di non averne alcun bisogno. Ma una minaccia di morte è una minaccia di morte, e quando capita certi meccanismi si mettono in moto da soli.
â La signora Bettina fu, â si giustificò Lo Faro, â mi offrĂ il caffellatte e una fetta di ciambella e mi invitò ad accomodarmi dentro, ma io non volevo perdere dâocchio casa sua, perciò la signora mi disse di sedermi qua, che secondo lei era pure il lato piĂş vulnerabile di tutta la casa. Secondo me ha ragione, dottoressa. Qualcuno qua ci dovrebbe stare sempre.
Ogni giorno Bettina, lâultrasettantenne vicina di casa, nonchĂŠ proprietaria del rus...