Il richiamo dell'ombra
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Il richiamo dell'ombra

Il cinema e l'altro volto del visibile

Antonio Costa

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Il cinema e l'altro volto del visibile

Antonio Costa

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Perché il richiamo dell'ombra, quando tutti sanno che i momenti di massima fortuna del cinema sono legati al sex appeal degli interpreti, al fascino radioso di corpi e volti? Negli ultimi trent'anni numerosi filosofi, storici, teorici dell'arte e del cinema si sono occupati del tema dell'ombra. Questo libro ci invita a compiere un viaggio che comincia a Cape Cod, Massachusetts, dove il mito della caverna di Platone incontra la pittura di Hopper e il cinema sperimentale di Gustav Deutsch, e si conclude nella grotta Chauvet, dove Werner Herzog rievoca le origini della pittura e ci mostra Fred Astaire che balla con la sua ombra. Il saggio procede per accostamenti e intersezioni, tra cinema, letteratura e arti visive, tra Ombra di E. A. Poe, Faust di Murnau e Fantasia di W. Disney, tra le ombre di Peter Schlemihl, di Peter Pan e di Pinocchio, tra Antonioni, Lars von Trier, Deleuze, Tanizaki e il cinema di Ozu, tra le piazze deserte di Giorgio de Chirico e le video-installazioni di William Kentridge. Specifici approfondimenti sono dedicati a due momenti irripetibili della storia del cinema: l'espressionismo, quando le ombre di Caligari, Nosferatu e il Kammerspielfilm coniugavano «urlo e geometria», e l'età del noir americano in cui grandi direttori della fotografia sapevano agitare le ombre piú inquietanti dello spazio metropolitano esaltando, al tempo stesso, tutto il fulgore delle star.

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Capitolo secondo

L’ombra fra teoria e storia delle immagini

In che modo i discorsi sull’ombra (teoria, poetica, storia culturale) incontrano o intersecano i modi di rappresentazione cinematografica? È questo il tema che affronterò in questo capitolo. Per prima cosa proporrò una rilettura di quelli che sono considerati i testi fondatori del discorso sull’ombra (Plinio il Vecchio e Platone), che non a caso sono citati e discussi in pressoché tutta la letteratura sull’argomento. Letteratura che ripercorrerò, partendo da due grandi storici e teorici dell’arte, Gombrich e Baxandall, che a metà degli anni novanta hanno dato il via a una rinnovata stagione della trattatistica sull’ombra. Nella seconda parte del capitolo, procedendo per intersezioni, approfondirò il caso del film Shirley. Visions of Reality già citato nell’Introduzione (fig. 1), per poi mettere a confronto Roberto Casati, cui dobbiamo il piú organico studio teorico sull’ombra, con frammenti del cinema di Antonioni e Lars von Trier e, infine, la teoria dell’immagine-movimento di Deleuze con il cinema di Ozu e un aureo testo di Tanizaki il cui titolo originale è Elogio della penombra1.

1. Il potere delle ombre.

Non c’è da stupirsi che, a proposito di ombre, vengano citati con tanta frequenza il passo dell’Historia naturalis di Plinio sull’origine della pittura e il mito della caverna dal VII libro della Repubblica di Platone. Si tratta infatti di testi archetipici che vengono collegati, il primo (Plinio il Vecchio), alle dinamiche del desiderio e, il secondo (Platone), a quelle della conoscenza. E in quanto tali tramandati e discussi. In realtà, i due testi devono essere innanzi tutto intesi come celebrazioni-esaltazioni del potere delle ombre e costituiscono una sorta di introduzione alla piú ampia storia del potere delle immagini.
Rileggiamo i passi in questione, troppo spesso evocati attraverso parafrasi piú o meno attendibili.
Sulle origini della pittura regna grande incertezza (…) Gli Egizi dicono che fu inventata da loro seimila anni prima che passasse in Grecia: vana pretesa, com’è di per sé chiaro. I Greci dicono, alcuni, che fu trovata a Sicione, altri a Corinto; tutti però concordano nel dire che nacque dall’uso di contornare l’ombra umana con una linea2.
Strettamente legata a questa pratica, che diede origine alla pittura, è quella della scultura. E qui entra in campo, perché esplicitamente citata da Plinio il Vecchio, l’eroina di questa storia, la figlia di Butade, destinata però a rimanere senza nome anche se la sua immagine e il suo gesto sono stati spesso rievocati nella pittura europea, a partire dal XVIII secolo fino alle soglie del Novecento (fig. 16). Proseguiamo nella lettura di Plinio il Vecchio:
Di nient’altro servendosi che della terra stessa, Butade vasaio di Sicione inventò per primo a far ritratti in argilla, per opera della figlia, la quale presa d’amore per un giovane, e dovendo questi partire, alla luce di una lanterna fissò con delle linee il contorno dell’ombra del viso di lui sulla parete, e su queste linee il padre di lei avendo impresso dell’argilla fece un modello che lasciò seccare insieme con altri oggetti di terracotta e poi cosse al forno3.
Anche secondo Gombrich la storia della figlia di Butade assume, nella versione di Plinio il Vecchio, la forma di una storia d’amore. Su questo aspetto insiste pure il filologo classico Maurizio Bettini, in Il ritratto dell’amante, un libro di rara bellezza e vasta erudizione. Analizzando il racconto di Plinio e tutta la tradizione ad esso connessa, Bettini mette in relazione questo ritratto dell’amante, che sta all’origine di qualsiasi creazione di immagini, con ciò che in greco si chiama póthos e in latino desiderium4. Gombrich non si ferma però alla storia d’amore e vede nello stratagemma dell’ombra riprodotta, messo in scena innumerevoli volte dai pittori del Settecento e dell’Ottocento, l’origine di quel dispositivo di riproduzione di silhouette che si affermò in Europa nel Settecento e che fu alla base della straordinaria diffusione della fisiognomica (fig. 2).
Figura 16. Joseph Benoit Suvée, L’invenzione del disegno, 1791.
Figura 16. Joseph Benoit Suvée, L’invenzione del disegno, 1791.
L’esattezza della riproduzione, già per alcuni aspetti meccanica, del profilo degli individui garantiva una lettura oggettiva della fisionomia di una persona. Su questa linea si pone anche una chiosa a Plinio il Vecchio che troviamo in La scoperta dell’ombra. Ecco quanto afferma Casati, che in questo ci appare assai vicino alle considerazioni di André Bazin sull’ontologia dell’immagine fotografica:
Nel racconto di Plinio, ciò che cattura l’immaginario è il fatto che il pittore viene relegato in secondo piano, l’ombra fa quasi tutto. La proiezione dell’ombra è un processo naturale che segue leggi geometriche ed è per questo che ci si può fidare del risultato. Esiste insomma un percorso che va dal modello alla sua immagine senza passare per la mente fallace e per la mano incerta del pittore5.
Se la storia della figlia del vasaio può essere letta e rievocata come una delicata storia d’amore, piú complessa è la situazione prefigurata nel dialogo tra Socrate e Glaucone nel VII libro della Repubblica:
SOCRATE Dentro una dimora sotterranea a forma di caverna, con l’entrata aperta alla luce e ampia quanto tutta la larghezza della caverna, pensa di vedere degli uomini che vi stiano dentro fin da fanciulli, incatenati gambe e collo, sí da dover restare fermi e da poter vedere soltanto in avanti, incapaci, a causa della catena, di volgere attorno il capo. Alta e lontana brilli alle loro spalle la luce d’un fuoco e tra il fuoco e i prigionieri corra rialzata una strada. Lungo questa pensa di vedere costruito un muricciolo, come quegli schermi che i burattinai pongono davanti alle persone per mostrare al di sopra di essi i burattini.
GLAUCONE Vedo – rispose.
SOCRATE Immagina di vedere uomini che portano lungo il muricciolo oggetti di ogni sorta sporgenti dal margine, e statue e altre figure di pietra e di legno, in qualunque modo lavorate; e, come è naturale, alcuni portatori parlano, altri tacciono.
GLAUCONE Strana immagine è la tua – disse – e strani sono quei prigionieri.
SOCRATE Somigliano a noi – risposi; – credi che tali persone possano vedere, anzitutto di sé e dei compagni, altro se non le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna che sta loro di fronte?
GLAUCONE E come possono – replicò, – se sono costretti a tenere immobile il capo per tutta la vita?
SOCRATE E per gli oggetti trasportati non è lo stesso?
GLAUCONE Sicuramente.
SOCRATE Se quei prigionieri potessero conversare tra loro, non credi che penserebbero di chiamare oggetti reali le loro visioni?
GLAUCONE Per forza.
SOCRATE E se la prigione avesse pure un’eco dalla parete di fronte? Ogni volta che uno dei passanti facesse sentire la sua voce, credi che la giudicherebbero diversa da quella dell’ombra che passa?
GLAUCONE Io no, per Zeus! – rispose.
SOCRATE Per tali persone insomma – feci io – la verità non può essere altro che le ombre degli oggetti artificiali.
GLAUCONE Per forza – ammise6.
Figura 17. Jan Pieterszoon Saenredam, La caverna di Platone, 1604, incisione da un dipinto perduto di Cornelis van Haarlem, British Museum, Londra.
Figura 17.
Jan Pieterszoon Saenredam, La caverna di Platone, 1604, incisione da un dipinto perduto di Cornelis van Haarlem, British Museum, Londra.
Va ricordato, prima di tutto, il significato particolare che nell’opera di Platone acquistano i miti (fig. 17), che non possono essere confusi con i miti della tradizione religiosa e letteraria della Grecia antica: essi vanno intesi come allegorie, come costruzioni argomentative, creazioni originali attraverso le quali sono approfondite tematiche particolarmente complesse. Ma anche tenendo conto di tutto questo, non possono sfuggire al lettore moderno due aspetti di questo mito: a) l’estrema macchinosità del dispositivo illustrato da Platone attraverso la parola di Socrate, peraltro non immune da risvolti francamente crudeli; b) la forte suggestione che in questa messa in scena giocano le ombre, il buio, il fuoco, la contrapposizione violenta tra luce e tenebre.
Significativa è la presenza dei due miti sull’ombra nella cultura contemporanea. A questo proposito, tra i vari esempi possibili, vorrei citare quanto, sul primo dei due (Plinio il Vecchio e la figlia di Butade), scrive lo psicana...

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