Morte e pianto rituale
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Morte e pianto rituale

Dal lamento funebre antico al pianto di Maria

Ernesto De Martino, Marcello Massenzio

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Morte e pianto rituale

Dal lamento funebre antico al pianto di Maria

Ernesto De Martino, Marcello Massenzio

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In questo libro Ernesto De Martino risale alle radici dell'esigenza umana di rifiutare la morte nella sua scandalosa gratuità e, di riflesso, procurare al defunto una «seconda morte» culturalmente definita, mediante il ricorso a determinate pratiche rituali. Tra queste, l'istituto del lamento funebre, rivolto ai vivi non meno che ai defunti, poiché la piena del dolore rischia di compromettere l'integrità della presenza dei sopravvissuti. Qui sta la funzione piú profonda del pianto rituale, che non cancella la crisi del cordoglio ma l'accoglie in sé, trasformandola in disciplina culturale capace di mantenere il pathos al riparo dall'irruzione della follia. In ciò risiede la sua umanissima sapienza, il cui valore trascende i limiti storici di diffusione del fenomeno, e al quale s'abbandona persino la Madonna al cospetto della morte del Figlio, nonostante l'accesa polemica cristiana contro il costume pagano. Dall'analisi del fenomeno, ridotto allo stadio di «relitto folklorico», scaturisce il bisogno di estendere l'analisi alle antiche civiltà agrarie del Mediterraneo, al cui interno l'istituto del lamento funebre visse la stagione del suo massimo splendore, fino al progressivo declino, causato dallo scontro con il cristianesimo trionfante. De Martino si interroga infine sul problema della risoluzione laica della crisi del cordoglio, e l' Atlante figurato del pianto riflette mediante un sapiente uso delle immagini l'affascinante itinerario dell'Autore, che sollecita un confronto con l'Atlante Mnemosyne di Aby Warburg.

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2021
ISBN
9788858435441
1.

Crisi della presenza e crisi del cordoglio

1. Il concetto di perdita della presenza.

La crisi del cordoglio è una malattia ed il cordoglio è il lavoro speso per tentare la guarigione: questa proposizione può, nella sua ovvia genericità, essere considerata quasi come una verità del senso comune. Ma ci preme di mostrare qualche cosa di molto piú preciso, e cioè che la crisi del cordoglio è un caso particolare di quel rischio di perdere la presenza che ebbe già a costituire argomento del secondo capitolo del Mondo magico. Per illustrare e svolgere questa tesi occorre, in via preliminare, sgombrare il cammino da alcuni equivoci ed oscurità che toccano lo stesso concetto di presenza e di «perdita» della presenza.
Nella formulazione di dieci anni or sono quel concetto restò infatti impigliato in una grave contraddizione, almeno nella misura in cui pretese di farsi valere come concetto di un’‘unità precategoriale’ della persona e addirittura di un’unità la cui conquista avrebbe formato problema storico di un’epoca definita, onde poi, assicurata tale conquista, si sarebbe maturata la condizione fondamentale per la nascita dalle distinte categorie operative o valori. La contraddizione non sfuggí al Croce, che nella sua memoria Intorno al magismo come età storica avvertiva non essere lecito distaccare con un taglio netto l’unità dalle forme distinte in cui si realizza, poiché le forme «non sono aggiunte a quell’unità, ma sono l’unità stessa, onde a voler considerare questa per sé, resterebbe nelle mani un’unità, peggio che inerte, vuota»1. Pur con diverso accento ed in una diversa prospettiva anche il Paci ripeteva lo stesso avvertimento quando metteva in rilievo che «la barbarie sempre minacciosa, l’idra di Lerna vichiana, è proprio la perdita delle categorie che costituiscono l’uomo nella sua storicità»2. Effettivamente una critica del genere è, nella sostanza, ineccepibile. Il Croce aveva ragione: il «taglio» è davvero impossibile nel senso che si possa immaginare un’unità che non sia in atto di distinguersi secondo determinate potenze culturali del fare, e che non sia – in quanto unità di una presenza sana – questa stessa energia di oggettivazione formale fondatrice di civiltà e di storia. Ancor meno – per conseguenza – è lecito immaginare una astratta unità della persona che formi problema storico a sé: non si comprende infatti di che e come sarebbe diventata unità, placandosi nel risultato di una reale risoluzione culturale. Acutamente il Croce poneva in evidenza che il «riscatto», nel modo in cui veniva prospettato nel Mondo magico, finiva col riuscire irrisolvente e fittizio, e che i protagonisti del supposto dramma – cioè gli operatori magici e i loro clienti – si dibattevano «nella stessa vitalità inferma e cieca che, col dar di volta in sulle piume, scherma il suo dolore»3.
Tuttavia se è vero che il «taglio» dell’unità della presenza dalle categorie del fare significa l’annientamento della stessa possibilità di esserci in una storia umana, e se è sommamente contraddittoria la pretesa di voler distendere in una immaginaria storia culturale questo nulla della cultura e della storia, ‘il rischio’ di ‘tale annientamento esiste’, dispiegandosi in tutta la sua potenza nelle civiltà cosiddette primitive, e riducendosi via via ed assumendo modi meno aspri e piú mediati con l’innalzarsi della vita culturale: il che appunto ammetteva il Paci. Il rischio radicale della presenza ha certamente luogo, un rischio che non è la perdita immaginaria di una immaginaria unità anteriore alle categorie, ma che ben è la perdita della stessa possibilità di mantenersi nel processo culturale, e di continuarlo e di accrescerlo con l’energia dello scegliere e dell’operare: e poiché il rapporto che fonda la storicità della presenza è lo stesso rapporto che rende possibile la cultura, il rischio di non esserci nella storia umana si configura come un rischio di intenebrarsi nella ingens sylva della natura.
In una pagina famosa de La storia come pensiero e come azione il Croce considera l’ethos non piú come una distinta forma del circolo spirituale, ma come la potenza suprema che promuove e regola la stessa distinzione del vario operare umano, opponendosi «al disgregamento della unità spirituale»4. In rapporto a questo suo importante tema di pensiero la filosofia del Croce è apparsa ad un suo commentatore una «teoria della potenza etica» dominata dal senso di una costante immanenza della morte e dalla drammatica tensione fra l’«energia del fare» e il rischio di un assoluto non-fare, cioè di quel nulla «che si manifesta nel travaglio sterile, nell’accidia inconcludente, nel vuoto smarrimento»5. Il passo dei Frammenti di etica che in un certo senso è la guida ideale della presente ricerca appartiene alla stessa tematica, poiché «il far morire in noi i nostri morti» è appunto possibile mercé del dispiegarsi della energia etica con la quale si supera lo «strazio», e sollevandosi al mondo dei valori si domina l’insidia della dispersione e della follia. Ora questo ethos coincide con la presenza come volontà di esserci in una storia umana, come potenza di trascendimento e di oggettivazione. È infatti norma costitutiva della presenza l’impossibilità di restar immediatamente immersa, senza lume di orizzonte formale, nella semplice polarità del piacere e del dolore e nel gioco delle reazioni e dei riflessi corrispondenti: se vi si immerge, dilegua come presenza. La mera vitalità che sta «cruda e verde» nell’animale e nella pianta deve nell’uomo esser trascesa nell’opera, e questa energia di trascendimento che oggettiva il vitale secondo forme di coerenza culturale è appunto la presenza. Esserci nella storia significa dare orizzonte formale al patire, oggettivarlo in una forma particolare di coerenza culturale, sceglierlo in una distinta potenza dell’operare, trascenderlo in un valore particolare: ciò definisce insieme la presenza come ethos fondamentale dell’uomo e la perdita della presenza come rischio radicale a cui l’uomo – e soltanto l’uomo – è esposto.
Il trascendimento operativo che fonda e definisce la presenza possiede un ordine ideale, nel quale la vitalità non sta mai come forma, ma come materia: come materia trascesa nella coerenza culturale. Rispetto all’uomo e alla sua storia la vitalità appare sempre come una immediatezza bisognosa di mediazione formale: e se nell’ultimo Croce essa appare ora come la materia di tutte le forme ed ora una forma fra le altre, ciò deriva dalla perdurante confusione fra il vitale che è sempre materia e la coerenza culturale economica che è certamente una forma6. Infatti l’economico segna il distacco inaugurale che l’umano compie dal meramente vitale, dischiudendo con ciò l’ordine della vita civile. Quando il patire con la sua polarità di piacere e di dolore, e con le sue reazioni conformi, viene inserito in un piano razionale, deliberatamente scelto e storicamente modificabile, di produzione di beni secondo regole dell’agire, la vitalità si risolve nell’economia, e la civiltà umana ‘comincia’. È la coerenza economica che fa associare gli uomini ai fini della produzione, ripartisce il lavoro, e instaura determinati regimi produttivi dotati di un piú o meno esteso raggio di azione efficace; è la coerenza economica che ordina l’immediatezza del vivere e del patire in un sistema mutevole di «oggetti naturali» che indicano le linee dei nostri desideri e delle nostre avversioni, e che racchiudono l’immagine e la memoria di possibili comportamenti efficaci; è la coerenza economica che appresta gli strumenti artificiali – materiali o mentali – che estendono e intensificano il potere del corpo umano e dei suoi organi; è la coerenza economica che elabora il linguaggio in quanto strumento di comunicazione interpersonale; è infine la coerenza economica che regola la potenza dei gruppi umani e li inserisce in quella sfera di rapporti che va sotto il nome di politica.
Ma il trascendimento inaugurale operato dall’economico costituisce soltanto la porta stretta di accesso al regno della cultura: e chi pretendesse di chiudersi nel possesso dell’economico e di restringere la vita culturale a questo semplice cominciamento o condizione inaugurale del viver civile, non riuscirebbe in realtà a mantenersi neppure nel suo regno, che ha valore autonomo solo per entro un movimento che sospinge a valicarne i confini. L’ethos della presenza si innalza cosí dall’economico alla poesia e alla scienza e alla vita morale dispiegata e consapevole di sé: salvo poi a tornare all’economico, che non cessa mai di riproporsi, poiché mai il distacco dal vitale può essere definitivo. E tuttavia vi torna con nuove forze, accumulate nel vario operare e pronto quindi ad un piú vigoroso sforzo di economica coerenza, capace di realizzare con maggiore efficacia il padroneggiamento della vitalità naturale nella sua immediatezza. Questo è il circolo, o meglio la spirale, della vita culturale, che ha il suo centro nella presenza come potenza di oggettivazione formale e di liberazione dalla «vitalità inferma e cieca»: circolo o spirale che è progresso, perché è incremento dell’ethos nel suo civile realizzarsi. Senza questo ethos della presenza non vi è cultura: e non soltanto diventano inconcepibili poesia e scienza, ma anche lo stesso distacco dal vitale inaugurato dall’economico. Senza questo ethos la piú elementare invenzione tecnica dell’uomo, per esempio la fabbricazione di un’amigdale nel paleolitico o l’agricoltura primitiva alla zappa nel neolitico, non avrebbero mai potuto vedere il loro giorno nella storia umana. È infatti questo ethos che ci sospinge a farci coraggiosamente procuratori di morte nel seno stesso del biologico morire, e che in ciò che passa senza valore – cioè senza il nostro concorso e contro il nostro sforzo – accende quell’energia di trascendimento formale col venir meno della quale l’umano operare resterebbe senza voce e senza gesto, paralizzato dall’angoscia.
E tuttavia proprio questo ethos che attraversa il mondo degli uomini generando la varietà delle civiltà e degli istituti, degli ingegni e dei geni, e sollevando ben in alto l’umano sull’immediatamente vitale – proprio questo ethos può esser raggiunto dalla catastrofe e patire un morire incommensurabilmente piú grave di quel morire naturale che condividiamo con gli animali e con le piante: qui si configura un’insidia radicale, che solo l’uomo minaccia e che solo l’uomo sa misurare. Non si tratta di quel negativo relativo e di quel relativo vuoto che nascono quando chi è impegnato nell’esercizio di una forma «fa un’altra cosa», e mescola insieme due diverse coerenze: come per esempio quando si spaccia per scienza la propaganda politica, o per poesia ciò che in realtà è economicità, o per politica ciò che è invece sogno poetico. Questo negativo appartiene al rapporto delle forme fra di loro, all’urto dei positivi: ma vi è il rischio di un assoluto negativo che si riferisce al rapporto fra la vitalità, che è sempre materia, e la presenza come volontà di forma. Qui si denunzia una tensione eccentrica che travaglia lo stesso circolo della vita culturale e che minaccia di spezzarlo: qui viene rimessa in causa la stessa possibilità del distacco dell’esserci dalla naturalità del vivere.
La crisi della presenza è da ricondurre al doppio volto dell’economico, che mentre per un verso è un positivo fra i positivi ed è esposto alla indebita intrusione degli altri positivi nella sua sfera, ovvero può intrudersi indebitamente nella sfera degli altri positivi, per un altro verso costituisce idealmente il positivo inaugurale, che distacca la cultura dalla natura e rende possibile, con questo suo distaccarsi, la dialettica delle forme di coerenza culturale. Ciò significa che nella misura in cui il distacco si compie in modo relativamente angusto, si configura l’esperienza di un divenire che passa senza e contro di noi, funesto dominio dell’irrazionale, cioè di un «cieco» correre verso la morte. In generale, per alta e umanizzata che possa essere una determinata civiltà resta sempre (e non potrebbe essere altrimenti) una sfera di possibilità esistenziali in cui si manifesta ciò che passa senza e contro di noi, cioè una sfera che non può essere fronteggiata da tecniche efficaci di controllo e di umanazione: ora quando si verifica, in determinati momenti critici, l’incontro o lo scontro con questa sfera si profila il rischio di una tensione eccentrica, di una rottura, almeno nella misura in cui non si tratta piú di scegliere fra i valori, ma di non poter scegliere proprio nessun valore, neppure quello che ci strappa dalla immediatezza del vitale e ci fa accedere nel regno della cultura. Questo rischio concerne in primo luogo i momenti del divenire che nel modo piú scoperto fanno scorgere la corsa verso la morte che appartiene al vitale nella sua immediatezza: nell’estrema e non eludibile tensione di questi momenti, allorché è in causa l’esserci o il non esserci come presenza, può consumarsi la crisi di oggettivazione, lo scacco del trascendimento: ‘ed invece di far passare ciò che passa’ (cioè di farlo passare nel valore) ‘noi rischiamo di passare con ciò che passa’, senza margine di autonomia formale. Il presupposto kantiano di una unità sintetica originaria dell’appercezione comportava che tale unità fosse al riparo da qualsiasi rischio, e una diversa possibilità costituiva per Kant soltanto un argomento polemico, come si desume dal seguente passo della Critica della ragion pura:
Il pensiero: queste rappresentazioni date nell’intuizione appartengono tutte quante a me, ha lo stesso significato del pensiero: io le riunisco in una sola autocoscienza, o almeno posso riunirle in essa. E sebbene il primo pensiero non sia ancora la coscienza della sintesi delle rappresentazioni, esso tuttavia presuppone la possibilità di quest’ultima; ossia solo per il fatto che posso comprendere in una sola coscienza il molteplice delle rappresentazioni, io le chiamo tutte quante le mie rappresentazioni: in caso contrario, difatti, io avrei tante variopinte e differenti personalità, quante sono le rappresentazioni, di cui ho coscienza7.
In questo passo il «me variopinto» (cioè la presenza che passa con ciò che passa e che si annienta in questo annientarsi della sua potenza di oggettivazione) è assunto non già come rischio reale, ma come conseguenza assurda che deriverebbe dal mancato riconoscimento dell’unità sintetica originaria dell’appercezione: invece la tesi che forma il nerbo del secondo capitolo del Mondo magico interpreta come reale rischio esistenziale ciò che nella critica kantiana sta solo come argomento polemico.
Il dispiegarsi delle forze naturali ciecamente distruttive, la morte fisica della persona cara, le malattie mortali, le fasi dello sviluppo sessuale, la fame insaziata senza prospettiva, racchiudono – in date circostanze – l’esperienza acuta del conflitto fra la perentorietà di un «dover fare qualche cosa» e il funesto patire del «non c’è nulla da fare», da intendersi non già come rassegnazione morale (nel qual caso sarebbe una forza) ma come crollo esistenziale. Anche determinate esperienze della vita associata, nella misura in cui riproducono il modello naturale della forza spietata che schiaccia, aprono il varco alla possibilità della crisi: si pensi al rapporto dello schiavo rispetto al padrone, o del prigioniero rispetto al nemico che dispone della sua vita, o anche a determinate esperienze-limite di sentirsi travolto da forze economiche o politiche operanti senza e contro di noi con la stessa estraneità e inesorabilità delle forze cieche della natura. In punti nodali o momenti critici come questi si annida la possibilità della crisi radicale e può manifestarsi quella funesta miseria esistenziale per cui ciò che passa ci trascina nel nulla ancor prima che la morte fisica ci raggiunga: ed è quella miseria una catastrofe molto maggiore di questa morte.
Il concetto di una crisi della presenza come «miseria» è stato, se non visto, almeno intravisto da alcuni rappresentanti della moderna psichiatria. «Tutta la storia della follia – scriveva Pierre Janet nel lontano 1889 – dipende dalla debolezza della sintesi attuale, che è debolezza morale essa stessa, ‘miseria psicologica’. Il genio, al contrario, è una potenza di sintesi capace di formare idee nuove, che nessuna scienza anteriore poteva prevedere: è l’ultimo grado della ‘potenza morale’»8. Qui si parla esplicitamente di «potenza morale»: e certamente può ben essere considerato come ethos fondamentale dell’uomo questa potenza dialettica che tramuta la natura in cultura, e che la vitalità accoglie e feconda, ma per aprirla alle singole concrete...

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