Le donne di Ravensbrück
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Le donne di Ravensbrück

Testimonianze di deportate politiche italiane

Lidia Beccaria Rolfi, Anna Maria Bruzzone

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Le donne di Ravensbrück

Testimonianze di deportate politiche italiane

Lidia Beccaria Rolfi, Anna Maria Bruzzone

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A Ravensbrück, il campo di concentramento destinato ad accogliere una popolazione in prevalenza femminile, morirono circa novantaduemila donne. Lidia Beccaria Rolfi (che là fu deportata e sopravvisse) e Anna Maria Bruzzone hanno raccolto le testimonianze di alcune prigioniere che raccontano la loro esperienza di deportate, coperte di stracci, divorate dai pidocchi, sfinite dalla denutrizione, dalle botte, dai bestiali turni di lavoro. Un libro sull'orrore patito, ma anche sulle forze del cuore, dell'anima e della mente che le cinque prigioniere seppero opporre all'atroce realtà del Lager.

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2020
ISBN
9788858435281

Lidia Beccaria Rolfi

I.

Sono di estrazione contadina, ultima di cinque fratelli. Quando sono nata, mio padre aveva già quarantacinque anni, un nonno quasi. Ho avuto un’infanzia serena, libera, senza nocivi condizionamenti familiari; a cinque anni ho marinato l’asilo per andare a veder giocare al pallone elastico.
Sono nata a Mondoví nel ’25, in pieno regime fascista. Le prime parole che ho imparato a scrivere sono state «Eia, eia, eia, alalà!», la prima lettura Duce, ti amo, il primo disegno la bandiera e il fascio littorio. Le maestre elementari sono sempre state ossequenti al regime costituito e fedeli esecutrici degli ordini e delle circolari ministeriali. Durante la guerra d’Africa, scoppiata pochi anni dopo, abbiamo tenuto in classe un diario giornaliero delle avanzate delle «gloriose truppe italiane», abbiamo imparato a cantare Faccetta nera, Le carovane del Tigrai e Adua, abbiamo odiato il Negus e ci siamo convinte che era giusto conquistare la terra dei «barbari abissini» per «lavare l’onta di Macallè e fondare l’Impero». Il discorso del Duce del 5 maggio l’abbiamo imparato a memoria. Ho convinto mio padre e mia madre a donare tutto il rame alla patria, anche il pentolone del bucato, ma non sono riuscita a convincere mia madre a cedere la sua vera. Mi sono sentita Piccola italiana di serie B, con una madre insensibile ai «richiami della Patria nell’ora del bisogno».
A mia madre la patria interessava poco o niente. «La patria, – diceva, – è casa mia; a me nessuno dà niente e io la mia vera non la do a nessuno». La patria per lei significava solo guerra, privazioni, paura. Mio padre era partito nel ’15, lasciandola a casa con due figli, la maggiore di ventidue mesi e il secondo di nove, con molti debiti e tanto lavoro. Aveva tirato avanti con i denti per tutto il periodo della guerra, per ritrovarsi nell’ottobre del ’18 con un terzo figlio e la febbre spagnola. Nel ’20 era arrivata ancora una bambina, e una quinta, io, nel ’25. Non era assolutamente fiera di far parte delle famiglie numerose benedette dal Duce. Ha sempre rifiutato la tessera di Massaia rurale: la tessera costava e non rendeva. Papà, Felice di nome e di indole, sapeva prendere la vita con piú serenità; era un ottimista di natura. Cantava volentieri, beveva volentieri un bicchier di vino la domenica, e quando era brillo fischiettava Bandiera rossa. Qualche volta, durante le veglie, raccontava della sua giovinezza, della Mondoví degli anni passati, e parlava di persone che bisognava nominare sottovoce, di Stefano Paolino, per esempio, che era stato deputato socialista e che ora faceva il rappresentante di olio e teneva la valigia pronta per andare in prigione quando nella zona capitavano in visita i gerarchi fascisti. Di Paolino parlava con rispetto, ma non andava piú in là. Non credo che avesse subíto un grosso trauma all’avvento del fascismo. Come ogni contadino della nostra zona si occupava soprattutto della sua terra e del suo lavoro, tenendosi lontano da tutti quelli che rappresentavano il potere, ma non taceva il suo disprezzo per i «fascisti della prima ora», quelli dell’olio di ricino, per Madruzza, il caporione che aveva ucciso «Fret» con un colpo di pistola, per il podestà. Non era andato a votare il listone, «perché tutti vedono quello che voto», e non aveva voluto prendere la tessera del partito, «perché io non ho bisogno di nessuno». Salutava il pretore Martelli togliendosi il cappello, perché «quello lí se ne infischia dei fascisti».
Papà e mamma decidono di farmi studiare perché sono l’ultima della famiglia e a scuola riesco. «È intelligente, – sostiene la maestra, – e può diventare maestra». Avere una figlia maestra è la loro massima aspirazione. Frequento regolarmente l’Istituto magistrale, mi guadagno mezze tasse con la media del 7, e mezze le guadagna mia madre con i suoi cinque figli. Mi devo iscrivere all’Onb (Opera nazionale balilla) e mamma mi cuce la camicetta di piquet e la gonna nera a pieghe, mi ritaglia la mantellina da un vecchio mantello di mio padre e mi compra il basco nero, la cravatta e il distintivo. Sono fiera della divisa che ho sempre invidiato a quelle che la possedevano fin dalle elementari, partecipo ai cortei, imparo il passo romano di parata, scrivo pagine di amor patrio nei temi dei «Ludi iuveniles» e studio anche con un certo impegno perché non mi posso permettere di avere esami di riparazione.
La guerra d’Africa è finita, mio fratello Beppe, il maggiore, ha fatto il servizio militare scampando il fronte abissino ed è tornato a casa. È partito in servizio di leva Enrico, il secondo, mentre infuria la guerra di Spagna e si avvertono le prime avvisaglie della persecuzione razziale. Esse incominciano a scuola, con azioni che sembrano stupide persino a me, che pure sono imbevuta di educazione fascista fino alla punta dei capelli. L’insegnante di lettere ci obbliga a strappare le pagine dell’antologia che riportano scritti di autori ebrei e ci impone di comprare un atlante geografico nuovo in sostituzione del De Agostini di Pennesi e Almagià, perché quest’ultimo autore è ebreo. Il nuovo atlante è identico al primo. La mia classe partecipa a un concorso nazionale per il conio di parole nuove italiane in sostituzione di parole straniere di uso comune. Riceviamo la menzione d’onore per aver inventato «trenoscafo», da sostituire a ferry-boat. Siamo orgogliose della nostra trovata.
L’Europa è già in fiamme: seguiamo gli avvenimenti a scuola, esultiamo alle vittorie politiche di Hitler e Mussolini, ci lasciamo conquistare dall’euforia del momento e partecipiamo agli scioperi studenteschi opportunamente sollecitati per urlare a squarciagola per le strade «Vogliamo Nizza!», «Vogliamo Tunisi!», «Vogliamo la Corsica!»
Il 10 giugno, quando scoppia la guerra, mi prendo il primo e l’ultimo ceffone da mio padre, perché arrivo a casa gridando: «Viva la guerra!» Mio fratello Enrico è già al fronte, in val Gesso. La campagna sul fronte occidentale fa pensare a una guerra lampo: dura pochi giorni, ma porta con sé le prime conseguenze: l’oscuramento, il razionamento, il ritorno dei primi soldati colpiti da congelamento agli arti.
La guerra continua e rivela il suo volto. Enrico parte per l’Albania con la divisione Cuneense. La partenza è coreografica, quasi quanto uno spettacolo teatrale, con tutte noi in divisa a salutare i gloriosi alpini, a offrire sigarette, «tabú» e medagliette ricordo con su scritto «Il Duce ti guidi, la Madonna ti protegga». Gli alpini buttano sulla testa degli studenti le medagliette e insultano con un linguaggio fiorito gli uomini che restano, mentre loro vanno verso l’ignoto, forse a subire la stessa fine della divisione Julia, che è già stata decimata.
Ora la guerra, anche se è lontana, incomincia a piacermi sempre di meno; capisco che è un grosso pericolo per chi va e una grande «fregatura» per chi resta. Ho appena sedici anni, ho ancora tante idee confuse, ma i fatti mi portano a riflettere. Ho mio fratello Enrico al fronte, l’altro, Beppe, sempre in pericolo di essere richiamato da un momento all’altro, amici che sono già morti; conosco madri che piangono e aspettano, vedo anche mia madre che piange di nascosto e rivive ancora una volta l’incubo del ’15-18.
La guerra fa maturare molto in fretta, specie quando coinvolge fratelli, amici, conoscenti, compagni d’infanzia. Beppe è richiamato e spedito in Russia, Enrico torna dalla guerra di Grecia, è mandato con le truppe di occupazione in Iugoslavia, rientra ancora e riparte poco dopo anche lui per il fronte russo. La partenza avviene di notte, questa volta, senza accompagnamento di Giovani italiane in divisa e senza coreografie. Sulla tradotta in partenza, gli artiglieri alpini cantano Sul ponte di Perati, bandiera nera e io, non piú in divisa, abbraccio Enrico con angoscia. La Russia è lontana, i russi, m’hanno insegnato, sono barbari, crudeli e ammazzano i prigionieri. Poi, dopo settimane, arrivano le prime cartoline militari e le lettere aperte dalla censura: «Mandateci dei pacchi, e, se potete, calze, guanti, cravatte di lana...»
E arriva l’inverno e con l’inverno la notizia della disfatta, della ritirata, e poi piú niente, piú nessuna notizia dal fronte. Solo a marzo arriva una cartolina di Enrico e subito dopo una di Beppe: sono vivi, ma tutti gli altri, la stragrande maggioranza di quelli che sono partiti con loro, non scrivono piú. I pochi che tornano raccontano e l’ultimo velo cade dagli occhi. Sono racconti allucinanti su quello che hanno patito – 1300 chilometri di marcia nella neve – e su quello che hanno visto durante l’occupazione e durante la ritirata. Il nemico, secondo quanto testimoniano, non è il popolo russo, contro il quale sono stati mandati a combattere, ma l’esercito tedesco, che ha ucciso, torturato, fucilato donne, vecchi, bambini inermi e che durante la ritirata si è rivoltato anche contro gli italiani. Vengono fuori tutte le infamie, i delitti, le crudeltà anche gratuite del nazismo.
Gli entusiasmi patriottardi di tre anni prima sono caduti da tempo: porto la gonna pantaloni della divisa per andare in bicicletta, non partecipo piú agli ultimi cortei. Il 1° maggio, a scuola, strappiamo il cartello «Vincere» che è appeso nell’aula e alcuni compagni portano una cravatta rossa e un garofano rosso all’occhiello. Nelle ore di discussione politica e di educazione fascista, il professore di filosofia legge il giornale e noi giochiamo a battaglia navale. Il professore di latino, Monaco, viene a scuola in borghese, non indossa la divisa il sabato e non parla del fascismo.
Mi diplomo, il 31 maggio, senza gioia.
Il 25 luglio lo ricordo ancora adesso come un giorno straordinario. È il giorno in cui scopro la libertà, intesa per ora solo come libertà di parlare. Mi illudo che la caduta di Mussolini voglia anche dire fine della guerra per l’Italia. Le mie reazioni, anche se sono nella direzione giusta, sono soltanto reazioni istintive alla tragedia della guerra, alle sofferenze che vedo attorno a me, alle morti che hanno colpito i soldati al fronte e i civili in città. Non c’è ancora una presa di coscienza sulla realtà della situazione italiana e sul fascismo. Questa presa di coscienza verrà molto piú tardi.
L’8 settembre coincide con un giorno di festa a Mondoví, con la fiera piú importante dell’anno, la fiera della «Madonna» di Vico. Nel pomeriggio, non appena si sparge la notizia dell’armistizio, le strade di accesso alla città diventano teatro di un fuggi fuggi generale: la gente scappa dalla fiera intasando le vie con ogni mezzo di trasporto: birocci, carri, biciclette. La maggior parte però scappa a piedi. Non si sa bene perché scappi: è impaurita dall’ignoto, dai si dice, dalle voci che si diffondono e che annunciano l’arrivo imminente delle truppe tedesche. Si è già individuato nel tedesco il nemico di ora, anzi il tedesco ridiventa «il nemico» naturale, quello che la gente comune non ha mai digerito, nemmeno al tempo dell’Asse.
Sono giorni di caos: i tedeschi arrivano davvero, accolti come trionfatori da poche brave donne fasciste della città che offrono ai «liberatori» mazzi di fiori, accolti con sospetto dalla maggioranza dei monregalesi che si chiudono in casa e si fanno vedere il meno possibile in attesa degli eventi. Mio fratello Beppe, che dopo il ritorno dalla Russia era stato mandato in Toscana, rientra a casa una notte dopo un viaggio fortunoso da Asciano a Mondoví, evitando il posto di blocco alla stazione grazie all’aiuto del macchinista che ferma il treno in aperta campagna, dopo la galleria di Babau. Enrico arriva a casa a piedi da Torino, dove era detenuto nel carcere militare di via Ormea, vestito con un paio di pantaloni e una camicia da muratore, regalo avuto da una portinaia di corso Dante che si è privata dell’ultimo indumento di suo marito che ancora possedeva. Buona parte dei soldati, degli alpini soprattutto, hanno meno fortuna e finiscono in Germania: scelgono la prigionia piuttosto che collaborare.
Le prime rappresaglie degli ex alleati non tardano. I tedeschi bruciano Boves dieci giorni dopo l’armistizio, e la notizia arriva subito con i particolari dell’eccidio. Escono i primi bandi e i giovani di leva operano la loro scelta: la maggior parte va in montagna, qualcuno si presenta al distretto e aderisce alla Repubblica sociale italiana.
Alla fine di ottobre ricevo la mia prima nomina come insegnante elementare: sono destinata a Torrette di Casteldelfino in valle Varaita. Raggiungo la sede il 16 novembre e la sera stessa, all’albergo dell’Angelo di Sampeyre, incontro alcuni ebrei fuggiti da Saluzzo, da Torino, e sento parlare del campo di concentramento per ebrei a Borgo San Dalmazzo. La notizia mi sconvolge.
Nei quindici giorni successivi conosco alcune persone che avranno un peso determinante nella scelta che farò. Conosco «Medici» (Morbiducci) e «Rubro» (Terrazzani). Incomincio a collaborare con loro. Divento la staffetta di «Medici» e poi di «Ezio» (Bazzanini), imparo a montare bombe a mano, che preparo alla sera al lume di un lanternino a petrolio, affronto il primo rastrellamento nel dicembre (i tedeschi arrivano con pochi mezzi fino a Casteldelfino) con una cassa di bombe sotto il letto. Trascorro l’inverno in valle, facendo la spola a volte in bicicletta, piú spesso a piedi o in corriera, fra la valle e Saluzzo, affronto rischi, pericoli, posti di blocco e spie con la beata incoscienza dei diciotto anni, spesso ascolto «Medici» parlare, raccontare a noi che siamo piú giovani e che lo ascoltiamo increduli, la vera storia della rivoluzione bolscevica, della guerra d’Abissinia, della guerra di Spagna e delle responsabilità del fascismo. Seguo perplessa i suoi discorsi: a volte stento a capire. Le argomentazioni contro i tedeschi mi convincono di piú: le ho già sentite sei mesi prima, quando i reduci sono tornati dalla Russia e hanno raccontato. Dalla pianura arrivano giorno per giorno notizie di rappresaglie e morti: ho visto Cerreto bruciare un mattino, arrivando da Cuneo.
Alla fine di marzo, quando già le formazioni partigiane hanno raggiunto una certa forza e si stanno organizzando, quando in valle ha fatto la sua comparsa «Ezio» e il movimento si sta estendendo con azioni quasi quotidiane in pianura, i tedeschi e i fascisti iniziano il rastrellamento a tappeto della valle. Vedo i primi morti, due soldati meridionali sbandati, uccisi come cani a Venasca, vedo i partigiani fucilati a Melle. «Ezio» mi ordina di andarmene dalla valle che pullula di spie. Torno a casa e rientro, come eravamo intesi, dopo una decina di giorni, quando ormai i tedeschi se ne sono andati e in valle non sono rimasti che pochi presidî della Gnr (Guardia nazionale repubblicana) di Bergamo.
Rientro l’11 sera e trascorro la giornata del 12 passeggiando per la montagna, con la speranza segreta di trovare qualche compagno. Verso le 8, quando è già buio, Gianni Ferrari, un partigiano giovane, lombardo credo, bussa alla mia porta, si ferma una mezz’ora per avere notizie e rifocillarsi, e riprende la marcia per raggiungere la valle Maira; due ore dopo altri quattro partigiani, venuti a conoscenza del mio rientro, mi raggiungono, entrano a mangiare un boccone e ripartono quasi subito anche loro per la valle Maira. Li accompagno per un pezzo, lungo la strada che conosco bene, e rientro nella notte.
Il mattino dopo, alle 6, quattro militi della Gnr di stanza a Sampeyre mi svegliano, perquisiscono la mia camera, buttano all’aria tutto, rovistano, urlano, poi mi trasferiscono, a piedi, con le mani legate, all’albergo dell’Angelo dove ha sede il Comando. Mi interrogano per un giorno e una notte, mi torturano, cercano di spaventarmi con minacce di morte, mi fanno sfilare davanti il plotone di esecuzione; il comandante, il tenente Vicentini di Mantova (cosí mi ha detto di chiamarsi), assume in proprio l’onore e l’onere di picchiare a sangue «un’indegna spia del nemico che collabora con banditi ribelli», poi mi lega a una sedia e il mattino dopo mi fa caricare, legata come un salame, su una camionetta.
Mi portano a Cuneo, prima dal prefetto poi in carcere, e il giorno seguente, per ordine del prefetto, che ne ha dato l’incarico al tenente colonnello Carlo Sciavicco della Gnr, sono consegnata nelle mani della Gestapo che mi trasferisce a Saluzzo nelle carceri giudiziarie. Per gli interrogatori vengo condotta in una villa isolata alla periferia della città: la Gestapo mi interroga per due giorni, poi si disinteressa di me. Rimango in carcere dieci giorni, in una cella enorme con detenute colpevoli di reati comuni, infine mi trasferiscono, il 24 sera, alle carceri Nuove di Torino.
Il giorno successivo subisco l’ultimo interrogatorio all’albergo Nazionale di Torino, da parte del capitano Schmidt, firmo un verbale scritto in tedesco e tradotto da un interprete, in cui continuo a negare ogni addebito, mi comunicano che sono condannata a morte, poi mi riportano in cella e non si occupano piú di me. Rimango alle Nuove per circa tre mesi, prima in una cella con Cesi Carletti e Pina Doleati, poi in un’altra con tre ebree, di cui una molto anziana, la signora Levi di Saluzzo, nonna di un mio compagno partigiano, Isacco Levi, e infine nella cella 24 con Anna Cherchi, Savina Palmiri e Margot, di cui non ricordo il cognome.
I mesi di carcere sono ossessivi. A noi del braccio tedesco è proibito ricevere pacchi, l’alimentazione è scarsa e la minestra immangiabile, lo spazio insufficiente per due persone è occupato da quattro, l’inerzia, l’inattività sono intollerabili. Solo di tanto in tanto la scopina riesce a passarci in cella un giornale e apprendiamo cosí le notizie della liberazione di Roma e dello sbarco in Normandia, ma ogni contatto con le prigioniere delle altre celle è formalmente proibito. Le uniche possibilità di comunicazione le abbiamo durante i bombardamenti, quando ci trasferiscono tutte insieme nel rifugio. In rifugio incontro Natalia Tedeschi, che era a Sampeyre con la nonna e la mamma prima del rastrellamento – riconosco subito la sua giacca di casentino verde –, incontro anche le compagne delle altre celle, come Maura Balogh con sua madre, che ritroverò in Germania alla liberazione; posso parlare anche con quelle che sono nel braccio fascista. La signora Culasso, dopo il nostro incontro in rifugio, mi manda il suo pane, perché le ho detto che ho tanta fame. Siamo anche spaventate, temiamo rappresaglie e fucilazioni improvvise; non sappiamo che, essendo in mano tedesca, difficilmente saremo fucilate. La Germania ha bisogno di braccia per lavorare.
La notte fra il 25 e il 26 giugno i tedeschi prelevano me e altre tredici detenute dalle celle e ci accompagnano nella camera adiacente allo studio di suor Giuseppina, la madre superiora. È lei stessa che ci comunica con le lacrime agli occhi che saremo deportate in Germania dove «andremo a lavorare».
Ancora nella notte ci caricano su un camion e all’alba ci trasferiscono a Porta Nuova e ci chiudono in un vagone bestiame, agganciato ad altri vagoni strapieni di uomini, giovani quasi tutti, in tuta blu e scarpe bianche da ginnastica, partigiani o rastrellati o segnalati durante lo sciopero del marzo ’44 e tutti destinati, come lavoratori coatti, all’industria tedesca. Sullo stesso treno, durante una sosta del viaggio, vedo un compagno partigiano della mia valle, Gianni Negro. Cerco stupidamente di attirare la sua attenzione senza rendermi conto del pericolo a cui lo espongo. Mi vede e mi fa un cenno. È l’ultimo saluto di una persona amica.
Viaggiamo per quattro giorni e quattro notti nel vagone chiuso. Ci aprono per i bisogni fisiologici solo a rari intervalli e solo dopo che il treno ha varcato la frontiera del Brennero. Nella stazione di Chemnitz, di notte, subiamo un bombardamento aereo chiuse nel vagone. Il nostro treno non è colpito.
Staccano i vagoni degli uomini e proseguiamo sole, sempre in vagone piombato, fino a Berlino; e qui, scort...

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