Checklist
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Checklist

Come fare andare meglio le cose

Atul Gawande, Duccio Sacchi

  1. 216 pages
  2. Italian
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Checklist

Come fare andare meglio le cose

Atul Gawande, Duccio Sacchi

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Le checklist hanno cambiato le nostre vite: ed è incredibile scoprire come possono continuare a farlo. Cosa permette a un'équipe medica di muoversi intorno al letto del paziente con la stessa coordinazione di un'orchestra durante la sinfonia? Qual è il dispositivo che impedisce a operazioni di routine di degenerare in tragedie fatali? E ancora: cosa trasforma quello che sembra un disastro annunciato - come l'ammaraggio di un aereo nell'Hudson nel 2009 - in una manovra perfettamente riuscita? A volte la distanza tra la vita e la morte può essere sottile letteralmente come un foglio di carta. Atul Gawande ci fa conoscere uno strumento tanto umile quanto potente per «fare andare meglio le cose»: la checklist. Non importa quanto tu sia esperto di una materia: l'errore è sempre possibile. Ma non per questo ci si deve rassegnare a commetterlo.

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2021
ISBN
9788858437193
Capitolo ottavo

L’eroismo nell’era della checklist

L’opportunità che ci si presenta non riguarda solo il campo medico, ma praticamente ogni genere di attività. Scoprire quali errori ricorrenti stiano dietro ai nostri insuccessi e ovviare con un’esigua serie di controlli offre un vantaggio a tutti, anche ai piú esperti. Ma lo faremo? Approfitteremo dell’occasione? Non sembra cosí scontato.
Prendiamo la checklist per la sicurezza chirurgica. Se qualcuno scoprisse un farmaco capace di ridurre le complicazioni postoperatorie con un’efficacia anche solo lontanamente paragonabile a quella della checklist, ci sarebbero pubblicità televisive con divi di secondo piano a decantarne le virtú, informatori farmaceutici disposti a offrire il pranzo ai medici che lo prescrivono, programmi pubblici di ricerca che ne studierebbero le caratteristiche e aziende concorrenti che si precipiterebbero a crearne nuove versioni piú perfezionate. Se la checklist fosse un’apparecchiatura medica, avremmo chirurghi che la richiederebbero a gran voce, che per provarla farebbero la fila agli stand dei convegni, che assillerebbero i direttori sanitari per farsene acquistare una – perché, accidenti, è mai possibile che per questi burocrati offrire un’assistenza degna di questo nome sia l’ultima delle preoccupazioni?
È esattamente quel che è successo quando sono usciti i robot chirurgici – macchine a controllo remoto da un milione e settecentomila dollari l’una, fantascientifici oggetti del desiderio progettati per aiutare i chirurghi a eseguire interventi in laparoscopia con maggiore manovrabilità e minori complicazioni. I robot hanno aumentato spropositatamente i costi della chirurgia e finora, rispetto alla normale laparoscopia, hanno prodotto miglioramenti modesti e solo per pochi tipi di intervento. Eppure gli ospedali di tutto il mondo ci hanno investito miliardi di dollari.
Ma nel frattempo che ne è stato della checklist? In effetti, non si può dire che sia stata ignorata. Dopo la pubblicazione dei risultati dell’Oms, piú di dodici paesi – tra cui Australia, Brasile, Canada, Costarica, Ecuador, Francia, Irlanda, Giordania, Nuova Zelanda, Filippine, Spagna e Regno Unito – si sono pubblicamente impegnati a introdurne delle versioni nei propri ospedali. Alcuni hanno anche preso l’iniziativa di monitorarne i risultati, un accorgimento fondamentale per il successo del suo impiego. Negli Stati Uniti le associazioni ospedaliere di venti stati hanno garantito che faranno altrettanto. Alla fine del 2009 piú di duemila ospedali del mondo, e tra questi il 10 per cento circa degli ospedali statunitensi, avevano adottato la checklist o stavano preparandosi a farlo.
Sono sviluppi confortanti. Ma i medici sono ben lontani dall’aver abbracciato in toto la causa. In linea di massima, nelle sale operatorie, la checklist è stata un’innovazione calata dall’alto e da fuori. L’hanno introdotta arcigni ufficiali sanitari, che per i chirurghi equivalgono piú o meno al diavolo in persona, o responsabili della sicurezza ospedaliera, amati pressappoco come gli ausiliari del traffico. A volte è direttamente il capochirurgo a imporla, ragion per cui, anziché esplodere in rabbiose filippiche, preferiamo bofonchiare a denti stretti. Ma resta comunque qualcosa che ci irrita, la consideriamo un’intrusione nel nostro territorio. Questo è il mio paziente. Questa sala è la mia sala. E il modo in cui opero è affar mio e mia responsabilità. Ma chi crede di essere questa gente per venirmi a dire che cosa devo fare?
Ma se alla fine noi chirurghi, in un modo o nell’altro, usiamo la checklist, sarà forse un dramma se lo facciamo senza il cuore colmo di gioia? La stiamo usando, ed è questo che conta, no?
Non necessariamente. Il fine ultimo non è spuntare delle caselle: è abbracciare una cultura di disciplina e lavoro di squadra. Nel momento in cui riconosciamo questa opportunità, la checklist dell’Oms, con il paio di minuti che porta via, diventa solo un punto di partenza. È un primo dispositivo generale per individuare un ridotto numero di problemi comuni a tutte le operazioni, da cui prendere spunto per ben altre applicazioni. Potremmo adottare checklist specialistiche per gli interventi di protesi d’anca, per le operazioni al pancreas, per riparare gli aneurismi dell’aorta, vagliando una per una le nostre procedure di base alla ricerca dei difetti evitabili piú ricorrenti e inserendo controlli che ci aiutino a evitarli. Potremmo anche elaborare checklist di emergenza come quelle dell’aviazione, checklist per affrontare le situazioni che esulano dalla routine – come l’arresto cardiaco raccontato dal mio amico John, quando i medici si erano dimenticati che tra le cause possibili c’era un sovradosaggio di potassio.
Anche fuori dalla sala operatoria sono centinaia, se non migliaia, le pratiche mediche con livelli di rischio e di errore pari a quelli degli interventi chirurgici. Basti pensare ai trattamenti per gli infarti, per gli ictus, per le intossicazioni da farmaci, per le polmoniti, per le insufficienze renali, per le convulsioni. E a tante altre situazioni che solo apparentemente sono piú semplici e meno gravi – la valutazione di un mal di testa, per esempio, o di uno strano dolore al petto, o di un nodulo al polmone o al seno. Sono tutte situazioni intrinsecamente rischiose, incerte e complesse – e in quanto tali richiedono l’esecuzione di procedure chiave che vale la pena affidare a una checklist e collaudare nelle normali prassi di cura. Per medici e infermieri, disporre di buone checklist potrebbe diventare importante come disporre di buoni stetoscopi (che peraltro, a differenza delle checklist, non hanno mai prodotto miglioramenti documentati nella cura dei pazienti). La domanda fatidica – ancora in attesa di una risposta – è se la cultura medica sia in grado di cogliere l’opportunità.
Nel suo libro La stoffa giusta, Tom Wolf racconta la storia dei primi astronauti e descrive la fine dello stereotipo professionale a cui si ispiravano i piloti collaudatori degli anni Cinquanta, uno stereotipo che aveva la sua icona nel mitico Chuck Yeager, il primo uomo a superare il muro del suono. A creare questo cliché era stata l’estrema pericolosità dei collaudi. I piloti allacciavano le cinture dentro apparecchi dotati di una potenza e di una complessità a malapena controllabili, tanto che un quarto di loro perse la vita durante i test di volo. Concentrazione, temerarietà, ingegnosità e capacità di improvvisazione: erano questi i requisiti di un collaudatore, era questa la stoffa giusta. Tuttavia, con l’accumularsi delle conoscenze sulla prevenzione dei rischi e con la progressiva diffusione di checklist e simulatori di volo sempre piú sofisticati, il pericolo si ridusse, lasciando cosí che nuovi valori – sicurezza, coscienziosità – prendessero il sopravvento, e privando i piloti del loro status di eroi popolari.
In medicina si sta verificando una trasformazione analoga. Abbiamo i mezzi per migliorare oltre ogni aspettativa l’efficacia delle nostre attività piú complesse e rischiose – in chirurgia, in pronto soccorso, in terapia intensiva, ma non solo. Questa prospettiva va però a cozzare contro la tradizionale cultura medica, ancorata alla convinzione che nelle situazioni ad alto rischio e ad alta complessità quel che serve sia una sorta di audacia competente – sia essere dotati, anche qui, della stoffa giusta. Le checklist e le procedure d’intervento standardizzate sembrano esattamente l’opposto, ed è questo che a molti di noi non va giú.
Ma è assurdo pensare che le checklist finiranno per rendere superflui il coraggio, l’ingegno, l’improvvisazione ispirata. L’attività medica è troppo intricata, troppo legata alla personale individualità, per seguire una simile evoluzione: i buoni clinici non potranno mai fare a meno dell’audacia competente. Ma dovremo anche predisporci a riconoscere le virtú di un corretto inquadramento.
È un dato di fatto che oltrepassa ampiamente i confini della medicina. La stessa opportunità si presenta in tutta evidenza in molti altri settori, suscitando le stesse resistenze. La finanza ce ne offre un esempio. Non molto tempo fa ebbi modo di parlare con Mohnish Pabrai, socio generale della Pabrai Investment Funds di Irvine, in California. È uno dei tre investitori di cui ho fatto ultimamente conoscenza, dopo che hanno introdotto nelle loro attività delle vere e proprie checklist, copiate da quelle in uso in medicina e in aviazione. Sono tre personaggi di primo piano: Pabrai amministra un portafoglio di 500 milioni di dollari; Guy Spier dirige l’Aquamarine Capital Management di Zurigo, un fondo da 70 milioni di dollari. Il terzo mi ha chiesto di restare anonimo e non ha voluto specificarmi le dimensioni del fondo di cui è gestore, che comunque è uno dei piú grandi al mondo e vale miliardi. Tutti e tre si considerano value investors, «investitori orientati al valore», specializzati cioè nell’acquisto di titoli di aziende trascurate e sottovalutate. Non fanno previsioni sui movimenti di mercato. Non acquistano sulla base di algoritmi generati al computer. Eseguono ricerche sistematiche, vanno a caccia di buoni affari e investono sul lungo periodo. Il loro ideale è comprare la Coca-Cola prima che tutti capiscano che sta per diventare la Coca-Cola.
Pabrai mi ha spiegato come si fa. Negli ultimi quindici anni, in media, ha effettuato uno o due nuovi investimenti ogni trimestre, e ha calcolato che per ogni società di cui acquista le azioni esegue in precedenza un’analisi approfondita di almeno dieci aziende candidate. L’ispirazione può provenire da qualsiasi fonte: un cartellone pubblicitario, un articolo di giornale sui beni immobili in Brasile, una rivista mineraria sfogliata per caso. Pabrai legge molto e tiene gli occhi aperti, sempre pronto a cogliere tra i rifiuti lo scintillio di un diamante, a fiutare il profumo di un affare imminente.
La maggior parte delle centinaia di opportunità in cui si imbatte si rivela inconsistente alla prima analisi sommaria. Ma all’incirca una volta alla settimana ne trova una che gli fa battere il cuore. Sembra un affare sicuro. È incredibile che nessuno ci si sia già tuffato. Se gioca bene le sue carte, comincia a pensare, l’investimento potrebbe fruttargli decine di milioni di dollari, anzi, magari questa volta saranno centinaia.
– Il cervello passa a lavorare in modalità «avida», – mi spiegò. Guy Spier lo ha chiamato «effetto cocaina». I neuroscienziati hanno scoperto che le prospettive di guadagno stimolano gli stessi circuiti cerebrali riflessi attivati dalla cocaina. Ed è in queste circostanze, continuò Pabrai, che gli investitori seri come lui tentano di agire in modo sistematico. Fanno di tutto per eseguire analisi spassionate, per evitare tanto il panico quanto l’esuberanza irrazionale. Passano in rassegna le relazioni finanziarie dell’azienda, studiano le passività e i rischi, esaminano il curriculum del gruppo direttivo, valutano le aziende concorrenti, considerano i probabili sviluppi del mercato – cercando di misurare sia la portata dell’occasione sia i margini di sicurezza.
Il santo patrono dei value investors è Warren Buffett, uno tra i piú grandi finanzieri della storia, che malgrado le perdite subite nel crac del 2008 continua a essere uno dei due uomini piú ricchi al mondo. Pabrai ha studiato tutti gli affari – buoni o cattivi – conclusi da Buffett e dalla sua azienda, la Berkshire Hathaway, leggendosi ogni riga pubblicata sull’argomento. Ha anche versato 650 000 dollari a un’asta di beneficenza per avere la possibilità di pranzare con Buffett.
– Warren, – disse Pabrai (e direi che dopo un pranzo da 650 000 dollari aveva tutti i diritti di chiamarlo per nome) – segue un sistema basato su una «checklist mentale» quando valuta un investimento –. Ed è piú o meno quel che anche Pabrai aveva sempre fatto con il proprio fondo d’investimento. Era rigoroso. Quando studiava un’azienda si prendeva tutto il tempo di cui aveva bisogno. Potevano volerci settimane. E attenendosi a questo metodo aveva mietuto successi. Non sempre, però: aveva commesso anche degli errori, alcuni dei quali disastrosi.
Non erano stati errori soltanto nel senso che era andato in perdita o che a causa di investimenti bocciati aveva registrato dei mancati profitti. Queste sono situazioni inevitabili. Il rischio, per un professionista come Pabrai, fa parte del mestiere. No, erano stati errori nel senso che aveva calcolato male i rischi, che aveva sbagliato le analisi. Con il senno di poi, per esempio, si era accorto di essersi ripetutamente sbagliato nella stima degli indebitamenti delle imprese – quanto capitale appartenesse effettivamente alle società e quanto fosse in prestito, e quanto rischiosi fossero i debiti. I dati erano disponibili: solo che non vi aveva prestato la necessaria attenzione.
In gran parte, a suo parere, all’origine degli sbagli c’era l’incapacità di attenuare l’effetto cocaina. Pabrai è un ex ingegnere di quarantacinque anni. È cresciuto in India, dove si è fatto strada in un sistema scolastico fortemente competitivo. Poi è riuscito a entrare alla Clemson University del South Carolina, dove ha studiato ingegneria. Da lí ha fatto carriera nelle aziende tecnologiche di Chicago e della California. Prima di entrare nel ramo degli investimenti, aveva fondato un’azienda informatica di successo. Tutto questo per dire che doveva aver imparato piú che bene a mettere le emozioni da parte, a non cadere nella tentazione di gratificazioni immediate. Ma di fronte a un investimento potenzialmente allettante, per quanto si sforzasse di mantenersi obiettivo, si accorgeva che il suo cervello remava contro, appigliandosi a ogni prova che confermasse l’intuizione iniziale e ignorando gli indizi negativi. È cosí che lavora il cervello.
– Ormai sei sedotto, – spiegava. – Cominci a bruciare le tappe.
Oppure, nelle fasi di ribasso del mercato, capita l’opposto. Cominci a lavorare in «modalità paura», disse. Attorno a te vedi gente che ci sta lasciando anche la camicia e ingigantisci i pericoli.
Si rese conto, inoltre, che i suoi errori dipendevano dalla complessità delle valutazioni. Per giungere a una buona scelta, i parametri aziendali da considerare e le analisi da eseguire erano talmente numerosi che, anche con la mente libera dall’effetto cocaina, si lasciava sfuggire correlazioni lampanti. La sua checklist mentale non era abbastanza buona. – Non sono Warren, – riconobbe. – Non ho 300 di quoziente di intelligenza –. Gli serviva un metodo che funzionasse anche per un QI nella media. E lui, quindi, mise giú una checklist per scritto.
Avrebbe fatto sicuramente comodo anche a Buffett. Pabrai aveva notato che anche il guru del value investment ricadeva ogni tanto nei soliti errori. – E capii che quando sbagliava era perché non stava usando una vera checklist, – mi spiegò Pabrai.
Stilò allora un elenco degli errori che aveva osservato in Buffett, in altri investitori e in se stesso. Ben presto mise assieme decine di sbagli differenti. A quel punto, come contromisura, elaborò una lista correlata di controlli. In tutto erano circa settanta. Una delle voci, ad esempio, prendeva spunto dall’analisi di un errore commesso dalla Berkshire Hathaway agli inizi del 2000, quando Buffett aveva acquistato la Cort Furniture, un’impresa con sede in Virginia che noleggiava arredamento da ufficio. Nei dieci anni precedenti fatturato e profitti della Cort avevano fatto registrare una crescita impressionante. Charles Munger, socio di Buffett da lunga data, riteneva che la Cort stesse cavalcando l’onda di una profonda trasformazione dell’economia statunitense. A causa di un contesto commerciale sempre piú volatile, le aziende avevano piú che mai bisogno di espandersi o di ridursi in tempi rapidi. Per questo motivo, anziché acquistare le sedi per i propri uffici, tendevano sempre piú ad affittarle – e ad affittare anche il mobilio, osservò Munger. La Cort si trovava nella posizione ideale per beneficiarne. E per quanto riguardava gli altri parametri, era un’azienda assolutamente affidabile – solida situazione finanziaria, ottima gestione e via dicendo. Munger, a quel punto, comprò. Ma fu un errore. Non aveva tenuto conto del fatto che i profitti degli ultimi tre anni dipendevano unicamente dal boom della Internet economy di fine anni Novanta. La Cort stava noleggiando mobili a centinaia di aziende appena avviate, che d’un tratto, quando la bolla speculativa si sgonfiò, smisero di pagare le fatture e scomparvero.
– Munger e Buffett avevano previsto lo scoppio della bolla da lontano un miglio, – disse Pabrai. – Avevano capito tutto –. Ma non tennero conto di quanto le fortune della Cort dipendessero dalla fase di espansione della congiuntura. A cose fatte, Munger definí quell’acquisto «un errore macroeconomico».
– In pratica, l’alta capacità di reddito della Cort rimase azzerata per diverso tempo, – dovette ammettere di fronte agli azionisti.
Su questa base, Pabrai aggiunse alla sua lista il seguente controllo: quando analizzate un’azienda, ricordate di chiedervi se il periodo favorevole o sfavorevole della congiuntura non possa avervi indotto a sopravvalutare o a sottovalutare i profitti.
Anche l’investitore anonimo – che d’ora in poi chiameremo Cook – mi disse che si era costruito una checklist. Ma aveva proceduto in modo ancor piú sistematico: aveva fatto un elenco di tutti gli errori che si commettono in ogni fase del processo di investimento – durante le analisi, durante il processo decisionale, durante le procedure di acquisto e anche a investimento avvenuto, quando occorrerebbe verificare se non ci siano problemi in agguato. Dopo di che aveva costruito checklist dettagliate per la prevenzione degli errori, con l’indicazione precisa dei punti attesa durante i quali doveva scorrere le diverse voci insieme ai suoi collaboratori.
Tra queste liste, ad esempio, ce n’è una che ha chiamato «checklist del terzo giorno», perché le sue caselle devono essere spuntate alla fine del terzo giorno di valutazione dell’investimento. Entro quel termine, recita la checklist, i responsabili sono tenuti a confermare di aver esaminato i principali rendiconti finanziari emessi negli ultimi dieci anni dall’azienda candidata, controllando una serie precisa di voci all’interno di ogni documento e verificando le correlazioni esistenti tra i diversi rendiconti.
– Un singolo rendiconto offre facili nascondigli. Tra uno e l’altro, invece, è difficile nascondersi, – mi spiegò Cook.
Una voce di controllo, per esempio, chiede ai membri del team di accertarsi di aver letto le note a piè di pagina dei rendiconti finanziari. Un’altra li obbliga a verificare di avere esaminato la relazione dei principali rischi di gestione. Una terza chiede loro di assicurarsi di aver appurato che flusso di cassa e costi c...

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Gawande, A. (2021). Checklist ([edition unavailable]). EINAUDI. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3427252/checklist-come-fare-andare-meglio-le-cose-pdf (Original work published 2021)

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Gawande, Atul. (2021) 2021. Checklist. [Edition unavailable]. EINAUDI. https://www.perlego.com/book/3427252/checklist-come-fare-andare-meglio-le-cose-pdf.

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Gawande, A. (2021) Checklist. [edition unavailable]. EINAUDI. Available at: https://www.perlego.com/book/3427252/checklist-come-fare-andare-meglio-le-cose-pdf (Accessed: 15 October 2022).

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Gawande, Atul. Checklist. [edition unavailable]. EINAUDI, 2021. Web. 15 Oct. 2022.