Placemaker
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Gli inventori dei luoghi che abiteremo

Elena Granata

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Gli inventori dei luoghi che abiteremo

Elena Granata

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P come Placemaker. Dal politico-pedagogista, all'imprenditore-artista, dall'informatico-ambientalista all'architetto-giardiniere: gli innovatori dirompenti per pensare la nuova città. Artisti che si improvvisano scienziati per risolvere problemi di mobilità di una grande città. Architetti che individuano soluzioni innovative osservando piante e animali. Designer che lavorano sui comportamenti e la psicologia delle persone. Ciascuno di loro è capace di incursioni al di fuori del proprio campo, senza perdere di vista l'obiettivo iniziale. Un pugno di innovatori urbani sta operando nelle città, ripensando la relazione tra città e natura, tra spazi pieni e vuoti, sui servizi, le reti, la mobilità. Sono professionisti ibridi, capaci di conciliare bisogni con immaginazione, creatività quotidiana con la salute del corpo sociale che vive la città. Sono mossi da una curiosità libera e creativa e per questo trovano le soluzioni piú adatte. Osano pensare di poter fare qualcosa che non è mai stato fatto prima e soprattutto lo fanno. Elena Granata li ha chiamati «placemaker» perché la loro attitudine è saper trasmutare una buona idea in un progetto vivo che trasforma un luogo.

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Capitolo primo

Non è un designer, non è un architetto: è un inventore di luoghi

Roosegaarde, il designer che impara dalle lucciole.

In olandese esiste una parola per dirlo: schoonheid. Una parola che non ha facili traduzioni in altre lingue: significa al tempo stesso bellezza – quella che nasce dalla creatività e che ispira le persone – e purezza. Si potrebbe tradurre con «è bello, ti fa stare bene e fa bene al pianeta». Non c’è nella lingua italiana un termine equivalente. Se proprio volessimo pensare a qualcosa di simile dovremmo richiamare quel legame profondo che lega etica ed estetica, che ci ricorda che bello e buono un tempo non erano cosí antitetici.
Schoonheid è una parola che il designer olandese Daan Roosegaarde usa spesso quando racconta il suo lavoro e il suo mondo, un mondo fatto di esperimenti dove l’ispirazione creatrice si prende cura del paesaggio, dove le piste ciclabili si illuminano di notte e si ricaricano di giorno con la luce del sole, mescolando poesia e funzionalità, dove strane torri tecnologiche localizzate nei parchi pubblici aspirano aria inquinata, ne espirano di pulita e dagli scarti delle particelle di smog ricavano il carbonio necessario a produrre raffinati gioielli minimal. Nel mondo di Roosegaarde la creatività è il vero capitale umano e l’immaginazione accesa dai problemi reali consente di guardare oltre gli ostacoli e di vedere quello che gli altri non vedono.
Non stupisce che questo designer di Nieuwkoop – che oggi lavora nel suo bellissimo studio a Rotterdam sotto il livello del mare, in una città strappata alle acque secoli fa da un mix di tecnologia e ingegneria visionaria, amore per la natura e desiderio di sopravvivenza – sia cresciuto a design e libertà.
Da bambino, nel piccolo paese dove è nato, il tempo lo trascorreva fuori casa, circondato da acqua e natura, costruendo case sugli alberi e inventandosi spazi di gioco in mezzo ai campi. «Noi abbiamo costruito il nostro paesaggio e il paesaggio ha plasmato noi», ama ricordare, in un processo di adattamento e di reciproca trasformazione. Ancora oggi l’Olanda è il Paese che sa progettare paesaggi, cercando sempre nuove sintesi tra natura e impronta dell’uomo.
Capirete che non mi sentirei mai a casa in un museo bianco con opere corredate da corde e targhette con scritto sopra SI PREGA DI NON TOCCARE. Ho sempre sentito che l’arte dovesse stare fuori, migliorando e arricchendo il mondo intorno a noi. Il desiderio di creare paesaggi pieni di poesia fa parte di noi1.
In Olanda è cosí: hanno le parole per dirlo perché esiste una relazione stretta a livello culturale tra piacevolezza della vita e contesto, tra benessere personale e collettivo, tra paesaggio individuale e diffuso perché entrambi nascono da un sentimento di integrazione con la natura, di cui ci si sente intimamente parte, in una sorta di istintuale panteismo.
E noi quali parole abbiamo per dirlo? Noi che secoli fa abbiamo saputo miracolosamente addomesticare una laguna malsana trasformandola in Venezia, erigendo una città sull’impossibile – sul troppo mare e sulla troppa poca terra –, sviluppandola in un complicatissimo intrico di isole e di canali… Noi che abbiamo immaginato una città in cui natura e artificio si sono fusi in modo cosí coerente, al punto che l’acqua tranquillamente fluiva e refluiva fino a un secolo fa… Noi dovremmo avere almeno una parola che riuscisse a esprimere questa meravigliosa bellezza dell’armonia e del contrasto, tra artificio e natura. Ma non l’abbiamo.
Roosegaarde si stupisce sempre quando gli dicono che i suoi progetti sono speciali. Lui risponde che dovrebbe essere normale che, camminando sulle scale di un edificio o ballando in una discoteca, si producesse energia con il nostro movimento. Dovrebbe essere normale tenere i lampioni spenti in città tutta la notte se nessuno transita, attivandoli solo al nostro passaggio. Dovrebbe ma non lo è, perché abbiamo infinite resistenze a guardarci intorno in modo radicalmente creativo e a sovvertire l’ordine delle cose.
Se si osservano le lucciole che volano di notte è facile capire che non usano la luce come una decorazione, come un elemento puramente estetico, ma come strumento di comunicazione, una sorta di codice morse che usano per sedursi vicendevolmente, per richiamarsi e attrarsi nel buio. L’osservazione degli insetti accende l’immaginazione di Daan che usa la torcia del cellulare in una notte piena di lucciole in Giappone e si accorge che rispondono, che gli vanno incontro, consentendogli di sperimentare una delle interazioni piú intime che abbia avuto con una creatura vivente non umana. Lo stesso Daan che osserva le ali illuminate di una farfalla e si rende conto che quell’effetto non proviene da qualche tipo di pigmento ma dal riflesso. Un’osservazione che lo induce a ragionare sul possibile uso della luce dei fari delle auto al buio.
Nel suo repertorio di opere, tra poesia e scienza, troviamo: l’autostrada intelligente che usa pittura fosforescente studiata per assorbire la luce di giorno e rilasciarla di notte; aspiratori per spazi pubblici che catturano particelle inquinanti usando l’energia eolica; un sistema a led ad alta intensità che illumina i campi di notte, facilita la crescita delle piante e con l’utilizzo di raggi ultravioletti ne attiva il sistema di difesa, riducendo l’uso dei pesticidi2.
Daan Roosegaarde non è uno scienziato, non guarda le cose per capirle meglio e afferrare le leggi del loro funzionamento. Non è un artista, non guarda le cose per ammirarle e prenderne ispirazione estetica. Non è un poeta, non è attratto dalla meraviglia che la natura ispira in sé. È un designer ed è interessato a capire il senso che anima il mondo, a coglierne il meccanismo in funzione della sua possibile replicabilità altrove. Dello scienziato, dell’artista, del poeta ha lo sguardo, ma si spinge oltre. Daan Roosegaarde è un placemaker.

Giardini e piazze inondabili.

La prima ispirazione progettuale viene spiegata attraverso una graphic novel. Fumetti, eroi, personaggi d’invenzione, insieme a schemi ingegneristici, misure e numeri relativi a litri d’acqua, schemi e mappe logiche, informazioni scientifiche si fondono in un unico racconto: gli urbanisti affidano il lancio del loro progetto alla forza evocativa dello stile fumettistico, non rimanendo minimamente sfiorati dal dubbio che un corposo e serio compendio scientifico (corredato da infiniti allegati tecnici) conferisca maggior rigore e credibilità al loro lavoro. Anzi, proprio perché si tratta di gestire un tema urbano cruciale per la popolazione, sanno che il senso e le ragioni dell’operazione devono poter arrivare a tutti, comunicando i propri intenti in modo immediato ed entusiastico. Sono i De Urbanisten, studio d’avanguardia di Rotterdam e primi inventori delle piazze-che-si-allagano: veri e propri cercatori di nuove sintesi di bellezza e utilità, di etica ed estetica.
Il gruppo olandese da tempo si misura con il tema del controllo delle acque piovane, delle risorse idriche della città e dei cambiamenti climatici, ma lo fa con un dispositivo urbanistico che coniuga perfettamente oltreché forma e funzione, anche utile e dilettevole, combinando lo stoccaggio occasionale dell’acqua con la valorizzazione dello spazio urbano per tutto l’anno. Piazze dove giocare, ad esempio, diventano piscine di raccolta d’acqua quando piove. Una dimensione non prevale sull’altra e quello stesso spazio, attrezzato per il gioco, cambierà il suo spirito: un po’ piú piscina o un po’ piú campo da pallavolo, a seconda della presenza o meno dell’acqua.
La pioggia assume il ruolo dell’elemento che interagisce con la creatività e interpella il progetto, suggerendo non piú un istinto di protezione quanto di complicità con gli elementi naturali. Un approccio che oggi viene definito nature-based solution, soluzioni ispirate alla natura. Le piene accadono con frequenza e resistere all’acqua è talvolta impossibile. Provare a adattare il sistema urbano al rischio, ad ammorbidire gli impatti, a creare zone cuscinetto, significa prendere la natura per il suo verso e non opporle resistenza.
È la stessa logica che ispira i «giardini inondabili», realizzati nel quartiere di Kokkedal a Fredensborg, comune danese della regione di Hovedstaden. Lo studio Schønherr si è aggiudicato il progetto dopo che l’inondazione del fiume Usserød ha creato danni e problemi alla comunità locale, proponendo di trasformare l’intervento di controllo delle acque in una grande occasione per ripensare il paesaggio e la relazione del quartiere con la natura.
Piú di trenta piccole aree ricreative, composte da giardini, spazi per il gioco, percorsi per lo sport, parchi naturali, disegnano un paesaggio di nuova ideazione, artificiale e naturale insieme. È la questione del cambiamento climatico che suggerisce ai progettisti di virare la loro creatività verso soluzioni dai tanti significati: si risponde alla sfida climatica ma al contempo si migliorano le condizioni di vita delle persone, offrendo loro spazi naturali, accessibili e di prossimità con le abitazioni. Si valorizzano il gioco e l’attività all’aperto, il disegno del paesaggio e la piacevolezza degli ambienti.
Tra le dune naturali del quartiere, come se fosse una stanza a cielo aperto protetta dalla natura, l’artista Eva Koch ha concepito un’oasi che di notte si riempie di immagini proiettate di papaveri in fiore, gioco di luci e di ombre, di presenze e di assenze. La ciotola e la perla, un bouquet per Kokkedal è al contempo un’installazione, una piazza a forma di conca dove i bambini possono giocare di giorno con le biciclette o gli skateboard, approfittando della leggera pendenza, e un’opera d’arte, una struttura di illuminazione che di notte trasforma un’anonima piazza in un luogo magico e suggestivo.
Eva Koch non è una poetessa, non è attratta dalla meraviglia che la natura ispira in sé, ma non è nemmeno una designer, non è interessata a cogliere il meccanismo replicabile come Daan Roosegaarde; è una scultrice che lavora con l’immateriale, con la luce, il buio, i suoni, guarda le cose per ammirarle e prenderne ispirazione estetica. La sua arte può esprimersi solo nello spazio aperto, nella natura, in dialogo con paesaggi naturali e urbani. È una paesaggista che si esprime realizzando piccole colline artificiali negli spazi urbani, adatte al gioco dei bambini. La scultura abbandona la dimensione dell’oggetto e diventa materia plastica per rimodellare i luoghi quotidiani delle persone. Mescola la dimensione ludica con la modellazione degli spazi pubblici e l’attenzione ai cambiamenti climatici, la scienza con l’arte, l’urbanistica con la tecnologia. Anche lei porta con sé lo sguardo dello scienziato, dell’artista, del poeta, e si spinge oltre. Eva Koch è una placemaker.
Il design creativo di Roosegaarde e le piazze-che-si-allagano dei De Urbanisten ci portano nel vivo di questo libro. Se dopo queste prime pagine avete già pensato: «Bello, ma loro sono olandesi», «sono solo esercizi di stile per giovani creativi», «i problemi veri però sono altri», «in Italia non sarà mai possibile», questo libro non fa per voi. Nelle pagine che seguono andremo in cerca di persone che non sono state minimamente sfiorate da questi pensieri. Sono mosse da una curiosità libera e creativa, e proprio per questo trovano le soluzioni piú adatte ai problemi di questo tempo. Persone che osano pensare di poter fare qualcosa che non è mai stato fatto prima, e soprattutto lo fanno. Li ho chiamati «placemaker» perché la loro principale attitudine è saper trasmutare una buona idea in un progetto vivo che trasforma un luogo.
In questo campo non troviamo solo architetti. Anzi. È popolato da figure ibride, dall’architetto-giardiniere al politico-pedagogista, all’imprenditore-artista, al designer-ambientalista. Sono gli innovatori dirompenti che stanno ripensando gli spazi dove abiteremo. Seguire le loro tracce, i modi di lavorare, le carriere e le competenze può essere decisivo per comprendere l’evoluzione delle professioni legate ai luoghi e ai territori ma anche per capire quali nuove domande stiano emergendo dalle comunità e dalle città in profonda trasformazione. E le loro storie – quelle che troverete in questo libro – ci dicono che il mondo sta davvero cambiando.

Anche Leonardo oggi avrebbe vita difficile.

Se vuoi fare l’architetto devi saperti divertire, mi dice con un certo coraggio uno studente del primo anno alla prima lezione, sperando forse di fare una battuta arguta. E invece ha proprio ragione. Inconsapevole, dice una cosa molto profonda, l’architetto è quello che sa divertirsi, che letteralmente sa «volgere altrove il suo sguardo» (divertere), cambiare rotta, non stare seduto dove stanno tutti. Già. Ma architetti cosí se ne vedono in Italia davvero pochi e dunque il mio studente è un grande provocatore, ne convengo.
Da tempo l’architettura ha perso il proprio ruolo di pungolo intelligente della società, la sua capacità di trasformazione reale dei luoghi e delle città, la sua capacità di generare visioni di lungo periodo. La chiama lungimiranza, un’altra mia allieva in aula, tirando fuori dal vocabolario una parola che forse usava sua nonna ma che è davvero capace di esprimere un campo lungo di visione, una saggezza profonda che non riconosciamo piú alla categoria di cui faccio parte, nel suo complesso.
Qualcosa deve essere davvero andato storto nella nostra storia collettiva degli ultimi decenni, deve esserci successo qualcosa, un momento in cui abbiamo perso confidenza con la libertà di sperimentare e con la nostra immaginazione. Un giorno in cui siamo improvvisamente diventati tutti molto seri, molto moralisti e tutto sommato anche molto tristi, come spiega Costantino della Gherardesca nel suo stupendo libro La religione del lusso3. Un giorno in cui abbiamo ingaggiato una guerra generale contro il futuro, destinati a ripetere sempre lo stesso schema di gioco, con gli stessi giocatori, entro un «morboso attaccamento all’immutabilità». Tutto resta sempre uguale. La nostra grande bellezza (e pure quella piccola) non ha piú saputo spingerci all’azione ma ci ha tenuti con lo sguardo immobile rivolto al passato come qualcosa di meraviglioso e di intoccabile, che non saremmo piú capaci neppure lontanamente di ripetere.
Viene da pensare che se ci trovassimo oggi di fronte a un nuovo Leonardo da Vinci saremmo spiazzati dalla sua creatività. Come si fa a fidarsi di un genio se quello che propone è inedito? Faremmo fatica a comprendere il valore di un autodidatta, di un uomo curioso ma incapace di autodisciplina intellettuale, di un genio che aveva sorprendenti capacità di osservazione, uno straordinario talento nel creare connessioni tra diverse aree di conoscenza, la prontezza di sfidare le credenze contemporanee e al contempo uno straordinario intuito per il futuro. Geniale ma incompiuto. Autore di una serie infinita di congegni non testati, di studi incompleti, di opere d’arte interrotte. Uomo dalla curiosità inappagabile che spaziava dall’anatomia alla fisica, dalla filosofia all’architettura: parrebbe una mente enciclopedica, ma non lo era. Leonardo amava scorgere le continue e mutue interconnessioni tra fenomeni apparentemente distanti. Osservava le proporzioni del corpo e le comparava con quelle degli edifici, studiava i comportamenti dei muscoli e li traslava su quelli dell’ingegneria meccanica.
Oggi potremmo dire che Leonardo ha avuto un’intelligenza connettiva, non dissimile da quella di Daan Roosegaarde, capace di costruire relazioni tra cose differenti, anzi capace sempre di trasferire quello che aveva appreso in un campo della conoscenza in un altro. Serve davvero poco commemorarne le gesta e rimpiangerne il genio, oggi che dovremmo sentirci tutti cittadini di quella Italia-non-ancora-Italia del Trecento, di quella Firenze città curiosa e stremata dalla peste, sprofondata in una devastante crisi economica, che si rialza dalla propria rovina e ritrova le energie necessarie per reinventare il mondo. Un humus culturale fatto di scienziati e letterati, di poeti e pittori che sentono che i modelli ereditati dal passato non sono piú adatti ma sono ancora in cerca di strade nuove, di nuovi linguaggi, di forme espressive piú incisive, di nuove relazioni economiche.
Abbiamo perso confidenza con la creatività e anche con quella spregiudicatezza che rende possibile inventare il futuro. Forse oggi dubiteremmo persino della capacità di Brunelleschi di «voltare» la cupola di Santa Maria del Fiore, né troveremmo credibile la fantasia visionaria di Cristoforo Colombo, sicuro di trovare nuove rotte e nuove terre, sulla base di una mappa sbagliata del mondo.
Abbiamo perso per strada il piacere dell’invenzione, la trasgressione creativa, la capacità di tenere insieme arte e scienza, strategia e coraggio, e soprattutto quella necessaria ironia che non dovrebbe mai mancare. Riuscivano a essere garbatamente beffardi perfino gli aneddoti raccon...

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