I sommersi e i salvati
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I sommersi e i salvati

Primo Levi

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I sommersi e i salvati

Primo Levi

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Quali sono le strutture gerarchiche di un sistema autoritario e quali le tecniche per annientare la personalità di un individuo? Quali rapporti si creano tra oppressori e oppressi? Chi sono gli esseri che abitano la "zona grigia" della collaborazione? Come si costruisce un mostro? Era possibile capire dall'interno la logica della macchina dello sterminio? Era possibile ribellarsi? E ancora: come funziona la memoria di un'esperienza estrema? Le risposte dell'autore di Se questo è un uomo nel suo ultimo e per certi versi piú importante libro sui Lager nazisti. Un saggio imprescindibile per capire il Novecento e ricostruire un'antropologia dell'uomo contemporaneo.

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2015
ISBN
9788858420416
VIII.

Lettere di tedeschi

Se questo è un uomo è un libro di dimensioni modeste, ma, come un animale nomade, ormai da quarant’anni si lascia dietro una traccia lunga e intricata. Era stato pubblicato una prima volta nel 1947, in 2500 copie, che furono bene accolte dalla critica ma smerciate solo in parte: le 600 copie residue, riposte a Firenze in un magazzino di invenduti, vi annegarono nell’alluvione dell’autunno 1966. Dopo dieci anni di «morte apparente», ritornò alla vita quando lo accettò l’editore Einaudi, nel 1957. Mi sono spesso posto una domanda futile: che cosa sarebbe successo se il libro avesse avuto subito una buona diffusione? Forse niente di particolare: è probabile che avrei continuato la mia faticosa vita di chimico che diventava scrittore alla domenica (e neanche tutte le domeniche); o forse invece mi sarei lasciato abbagliare ed avrei, chissà con quale fortuna, issato le bandiere dello scrittore in grandezza naturale. La questione, come dicevo, è oziosa: il mestiere di ricostruire il passato ipotetico, il cosa-sarebbe-successo-se, è altrettanto screditato quanto quello di antivedere l’avvenire.
Malgrado questa falsa partenza, il libro ha camminato. È stato tradotto in otto o nove lingue, adattato per la radio e per il teatro in Italia ed all’estero, commentato in innumerevoli scuole. Del suo itinerario, una tappa è stata per me d’importanza fondamentale: quella della sua traduzione in tedesco e della sua pubblicazione in Germania Federale. Quando, verso il 1959, seppi che un editore tedesco (la Fischer Bücherei) aveva acquistato i diritti per la traduzione, mi sentii invadere da un’emozione violenta e nuova, quella di aver vinto una battaglia. Ecco, avevo scritto quelle pagine senza pensare ad un destinatario specifico; per me, quelle erano cose che avevo dentro, che mi invadevano e che dovevo mettere fuori: dirle, anzi, gridarle sui tetti; ma chi grida sui tetti si indirizza a tutti e a nessuno, chiama nel deserto. All’annuncio di quel contratto, tutto era cambiato e mi era diventato chiaro: il libro lo avevo scritto sí in italiano, per gli italiani, per i figli, per chi non sapeva, per chi non voleva sapere, per chi non era ancora nato, per chi, volentieri o no, aveva acconsentito all’offesa; ma i suoi destinatari veri, quelli contro cui il libro si puntava come un’arma, erano loro, i tedeschi. Ora l’arma era carica.
Si ricordi, da Auschwitz erano passati solo quindici anni: i tedeschi che mi avrebbero letto erano «quelli», non i loro eredi. Da soverchiatori, o da spettatori indifferenti, sarebbero diventati lettori: li avrei costretti, legati davanti ad uno specchio. Era venuta l’ora di fare i conti, di abbassare le carte sul tavolo. Soprattutto, l’ora del colloquio. La vendetta non mi interessava; ero stato intimamente soddisfatto dalla (simbolica, incompleta, tendenziosa) sacra rappresentazione di Norimberga, ma mi stava bene cosí, che alle giustissime impiccagioni pensassero gli altri, i professionisti. A me spettava capire, capirli. Non il manipolo dei grandi colpevoli, ma loro, il popolo, quelli che avevo visti da vicino, quelli tra cui erano stati reclutati i militi delle SS, ed anche quegli altri, quelli che avevano creduto, che non credendo avevano taciuto, che non avevano avuto il gracile coraggio di guardarci negli occhi, di gettarci un pezzo di pane, di mormorare una parola umana.
Ricordo molto bene quel tempo e quel clima, e credo di poter giudicare i tedeschi di allora senza pregiudizi e senza collera. Quasi tutti, ma non tutti, erano stati sordi, ciechi e muti: una massa di «invalidi» intorno a un nocciolo di feroci. Quasi tutti, ma non tutti, erano stati vili. Proprio qui, e con refrigerio, e per dimostrare quanto mi siano lontani i giudizi globali, vorrei raccontare un episodio: è stato eccezionale, ma è pure avvenuto.
Nel novembre del 1944 eravamo al lavoro, ad Auschwitz; io, con due compagni, ero nel laboratorio chimico che ho descritto a suo luogo. Suonò l’allarme aereo, e subito dopo si videro i bombardieri: erano centinaia, si prospettava una incursione mostruosa. C’erano nel cantiere alcuni grandi bunker, ma erano per i tedeschi, a noi erano vietati. Per noi dovevano bastare i terreni incolti, ormai già coperti di neve, compresi entro la recinzione. Tutti, prigionieri e civili, ci precipitammo per le scale verso le rispettive destinazioni, ma il capo del laboratorio, un tecnico tedesco, trattenne noi Häftlinge-chimici: «Voi tre venite con me». Stupiti, lo seguimmo di corsa verso il bunker, ma sulla soglia stava un guardiano armato, con la svastica sul bracciale. Gli disse: «Lei entra; gli altri, fuori dai piedi». Il capo rispose: «Sono con me: o tutti o nessuno», e cercò di forzare il passaggio; ne seguí un pugilato. Certo avrebbe avuto la meglio il guardiano, che era robusto, ma per fortuna di tutti suonò il cessato allarme: l’incursione non era per noi, gli aerei avevano proseguito verso nord. Se (un altro se! ma come resistere al fascino dei sentieri che si biforcano?), se i tedeschi anomali, capaci di questo modesto coraggio, fossero stati piú numerosi, la storia di allora e la geografia di oggi sarebbero diverse.
Non mi fidavo dell’editore tedesco. Gli scrissi una lettera quasi insolente: lo diffidavo dal togliere o cambiare una sola parola del testo, e lo impegnavo a mandarmi il manoscritto della traduzione a fascicoli, capitolo per capitolo, a mano a mano che il lavoro procedeva; volevo controllarne la fedeltà, non solo lessicale ma intima. Insieme col primo capitolo, che trovai tradotto assai bene, mi giunse uno scritto del traduttore, in italiano perfetto. L’editore gli aveva mostrato la mia lettera: non avevo niente da temere, né dall’editore né tanto meno da lui. Si presentava: aveva la mia età precisa, aveva studiato per parecchi anni in Italia, oltre che traduttore era un italianista, studioso del Goldoni. Anche lui era un tedesco anomalo. Era stato chiamato sotto le armi, ma il nazismo gli ripugnava; nel 1941 aveva simulato una malattia, era stato ricoverato in ospedale, ed aveva ottenuto di trascorrere la convalescenza putativa studiando letteratura italiana presso l’Università di Padova. Era poi stato dichiarato rivedibile, a Padova era rimasto, e vi era venuto a contatto coi gruppi antifascisti di Concetto Marchesi, di Meneghetti e di Pighin.
Nel settembre 1943 era venuto l’armistizio italiano, ed i tedeschi, in due giorni, avevano occupato militarmente l’Italia del nord. Il mio traduttore si era aggregato «naturalmente» ai partigiani padovani delle formazioni Giustizia e Libertà, che combattevano nei Colli Euganei contro i fascisti di Salò e contro i suoi compatrioti. Non aveva avuto dubbi, si sentiva piú italiano che tedesco, partigiano e non nazista, tuttavia sapeva che cosa rischiava: fatiche, pericoli, sospetti e disagi; se catturato dai tedeschi (ed infatti era stato informato che le SS erano sulle sue tracce), una morte atroce; inoltre, nel suo paese, la qualifica di disertore e forse anche di traditore.
A guerra finita si stabilí a Berlino, che a quel tempo non era tagliata in due dal muro, ma sottostava ad un complicatissimo regime di condominio dei «Quattro Grandi» di allora (Stati Uniti, Unione Sovietica, Gran Bretagna, Francia). Dopo la sua avventura partigiana in Italia, era un perfetto bilingue: parlava l’italiano senza traccia di accento straniero. Accettò traduzioni: Goldoni in primo luogo, perché lo amava e perché conosceva bene i dialetti veneti; per lo stesso motivo, il Ruzante di Agnolo Beolco, fino allora sconosciuto in Germania; ma anche autori italiani moderni, Collodi, Gadda, D’Arrigo, Pirandello. Non era un lavoro ben pagato, o per meglio dire, lui era troppo scrupoloso, e quindi troppo lento, perché la sua giornata di lavoro risultasse giustamente retribuita; tuttavia non si risolse mai ad impiegarsi presso una casa editrice. Per due motivi: amava l’indipendenza, ed inoltre, sottilmente, per vie traverse, i suoi trascorsi politici pesavano su di lui. Nessuno glielo disse mai in parole aperte, ma un disertore, anche nella Germania superdemocratica di Bonn, anche nella Berlino quadripartita, era «persona non grata».
Tradurre Se questo è un uomo lo entusiasmava: il libro gli era consono, confermava, sostanziava per contrasto il suo amore per la libertà e la giustizia; tradurlo era un modo per continuare la sua lotta temeraria e solitaria contro il suo paese traviato. A quel tempo eravamo tutti e due troppo occupati per viaggiare, e nacque fra noi uno scambio di lettere frenetico. Eravamo entrambi perfezionisti: lui, per abito professionale; io perché, quantunque avessi trovato un alleato, ed un alleato valente, temevo che il mio testo sbiadisse, perdesse pregnanza. Era la prima volta che incappavo nell’avventura sempre scottante, mai gratuita, dell’essere tradotti, del vedere il proprio pensiero manomesso, rifratto, la propria parola passata al vaglio, trasformata, o mal intesa, o magari potenziata da qualche insperata risorsa della lingua d’arrivo.
Fin dalle prime puntate potei constatare che in realtà i miei sospetti «politici» erano infondati: il mio partner era nemico dei nazi quanto me, la sua indignazione non era minore della mia. Rimanevano però i sospetti linguistici. Come ho accennato nel capitolo dedicato alla comunicazione, il tedesco di cui il mio testo aveva bisogno, soprattutto nei dialoghi e nelle citazioni, era molto piú rozzo del suo. Lui, uomo di lettere e di raffinata educazione, conosceva bensí il tedesco delle caserme (qualche mese di servizio militare lo aveva pur fatto), ma ignorava forzatamente il gergo degradato, spesso satanicamente ironico, dei campi di concentramento. Ogni nostra lettera conteneva una lista di proposte e di controproposte, ed a volte su un singolo termine si accendeva una discussione accanita, quale ad esempio quella che ho descritto qui alle pagine 77-78. Lo schema era generale: io gli indicavo una tesi, quella che mi suggeriva la memoria acustica a cui ho accennato a suo luogo; lui mi opponeva l’antitesi, «questo non è buon tedesco, i lettori d’oggi non lo capirebbero»; io obiettavo che «laggiú si diceva proprio cosí»; si arrivava infine alla sintesi, cioè al compromesso. L’esperienza mi ha poi insegnato che traduzione e compromesso sono sinonimi, ma a quel tempo io ero premuto da uno scrupolo di superrealismo; volevo che in quel libro, ed in specie proprio nella sua veste tedesca, niente andasse perduto di quelle asprezze, di quelle violenze fatte al linguaggio, che del resto mi ero sforzato del mio meglio di riprodurre nell’originale italiano. In certo modo, non si trattava di una traduzione ma piuttosto di un restauro: la sua era, o io volevo che fosse, una restitutio in pristinum, una retroversione alla lingua in cui le cose erano avvenute ed a cui esse competevano. Doveva essere, piú che un libro, un nastro di magnetofono.
Il traduttore capí presto e bene, e ne risultò una traduzione eccellente sotto ogni aspetto: della sua fedeltà potevo giudicare io stesso, il suo livello stilistico fu lodato in seguito da tutti i recensori. Sorse la questione della prefazione: l’editore Fischer mi chiese di scriverne una io stesso; io esitai, poi rifiutai. Provavo un ritegno confuso, una ripugnanza, un blocco emotivo che strozzava il flusso delle idee e dello scrivere. Mi si chiedeva, insomma, di far seguire al libro, cioè alla testimonianza, un appello diretto al popolo tedesco, cioè una perorazione, un sermone. Avrei dovuto alzare il tono, salire sul podio; da teste farmi giudice, predicatore; esporre teorie ed interpretazioni della storia; dividere i pii dagli empi; dalla terza persona passare alla seconda. Tutti questi erano compiti che mi sorpassavano, compiti che volentieri avrei devoluto ad altri, forse agli stessi lettori, tedeschi e non.
Scrissi all’editore che non mi sentivo in grado di stendere una prefazione che non snaturasse il libro, e gli proposi una soluzione indiretta: di premettere al testo, in sede di introduzione, un brano della lettera che nel maggio 1960, alla fine della nostra laboriosa collaborazione, avevo scritta al traduttore per ringraziarlo della sua opera. Lo riproduco qui:
… E cosí abbiamo finito: ne sono contento, e soddisfatto del risultato, e grato a Lei, ed insieme un po’ triste. Capisce, è il solo libro che io abbia scritto, e adesso che abbiamo finito di trapiantarlo in tedesco mi sento come un padre il cui figlio sia diventato maggiorenne, e se ne va, e non si può piú occuparsi di lui.
Ma non è solo questo. Lei forse si sarà accorto che per me il Lager, e l’avere scritto del Lager, è stato una importante avventura, che mi ha modificato profondamente, mi ha dato maturità ed una ragione di vita. Forse è presunzione: ma ecco, oggi io, il prigioniero numero 174 517, per mezzo Suo posso parlare ai tedeschi, rammentare loro quello che hanno fatto, e dire loro «sono vivo, e vorrei capirvi per giudicarvi».
Io non credo che la vita dell’uomo abbia necessariamente uno scopo definito; ma se penso alla mia vita, ed agli scopi che finora mi sono prefissi, uno solo ne riconosco ben preciso e cosciente, ed è proprio questo, di portare testimonianza, di fare udire la mia voce al popolo tedesco, di «rispondere» al Kapo che si è pulito la mano sulla mia spalla, al dottor Pannwitz, a quelli che impiccarono l’Ultimo [si tratta di personaggi di Se questo è un uomo], ed ai loro eredi.
Sono sicuro che Lei non mi ha frainteso. Non ho mai nutrito odio nei riguardi del popolo tedesco, e se lo avessi nutrito ne sarei guarito ora, dopo aver conosciuto Lei. Non comprendo, non sopporto che si giudichi un uomo non per quello che è ma per il gruppo a cui gli accade di appartenere (…)
Ma non posso dire di capire i tedeschi: ora, qualcosa che non si può capire costituisce un vuoto doloroso, una puntura, uno stimolo permanente che chiede di essere soddisfatto. Spero che questo libro avrà qualche eco in Germania: non solo per ambizione, ma anche perché la natura di questa eco mi permetterà forse di capire meglio i tedeschi, di placare questo stimolo.
L’editore accettò la mia proposta, a cui il traduttore aveva aderito con entusiasmo; perciò questa pagina costituisce l’introduzione di tutte le edizioni tedesche di Se questo è un uomo: anzi, viene letta come parte integrante del testo. Me ne sono accorto appunto dalla «natura» della eco a cui si accenna nelle ultime righe.
Essa si materializza in una quarantina di lettere, che mi sono state scritte da lettori tedeschi negli anni 1961-64: a cavallo cioè della crisi che condusse alla costruzione di quel Muro che tuttora spacca in due Berlino, e che costituisce uno dei punti di piú forte attrito nel mondo d’oggi: l’unico, insieme con lo Stretto di Behring, in cui americani e russi si fronteggino direttamente. Tutte queste lettere rispecchiano una lettura attenta del libro, ma tutte rispondono, o tentano di rispondere, o negano che esista una risposta, alla domanda implicita nell’ultimo periodo della mia lettera, se cioè sia possibile capire i tedeschi. Altre lettere mi sono pervenute alla spicciolata negli anni seguenti, in coincidenza con le ristampe del libro, ma sono tanto piú scialbe quanto piú sono recenti: chi scrive sono ormai i figli ed i nipoti, il trauma non è piú il loro, non è vissuto in prima persona. Esprimono vaga solidarietà, ignoranza e distacco. Per loro, quel passato è veramente un passato, un sentito dire. Non sono tedesco-specifici: salvo eccezioni, i loro scritti si potrebbero confondere con quelli che continuo a ricevere dai loro coetanei italiani, perciò non ne terrò conto in questa rassegna.
Le prime lettere, quelle che contano, sono quasi tutte di giovani (che si dichiarano tali, o che tali risultano dal testo) ad eccezione di una, che mi è stata mandata nel 1962 dal Dottor T. H. di Amburgo, e che riporto per prima perché ho fretta di liberarmene. Ne traduco i passi salienti, rispettandone la goffaggine:
Egregio Dott. Levi,
il Suo libro è il primo fra i racconti di superstiti di Auschwitz che sia venuto a nostra conoscenza. Ha commosso profondamente mia moglie e me. Ora, poiché Ella, dopo tutti gli orrori che ha vissuto, si rivolge ancora una volta al popolo tedesco «per capire», «per destare una eco», io oso tentare una risposta. Ma non sarà che una eco; «capire» simili cose non può nessuno! (…)
… da un uomo che non è con Dio, tutto è da temere: egli non ha freno, non ha ritegni! E gli si addice allora l’altra parola di Genesi 8.21: «Poiché il senno del cuore umano è malvagio fin dalla giovinezza», modernamente spiegata e dimostrata dalle tremende scoperte della psicoanalisi di Freud nel campo dell’inconscio, a Lei certamente note. In ogni tempo è avvenuto «che il Diavolo si scatenasse», senza ritegno, senza senso: persecuzioni di ebrei e di cristiani, sterminio di popoli interi in Sud America, degli indiani nel Nord America, dei Goti in Italia sotto Narsete, orrende persecuzioni e massacri nel corso delle rivoluzioni francese e russa. Chi potrà «capire» tutto questo?
Ella però aspetta certo una risposta specifica alla domanda, perché Hitler giunse al potere, e perché noi in seguito non abbiamo scosso il suo giogo. Ora, nel 1933 (…) tutti i partiti moderati sparirono, e non rimase che la scelta fra Hitler e Stalin, Nazionalsocialisti e Comunisti, di forze circa uguali. I comunisti li conoscevamo per le varie grandi rivolte a...

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