Nel cuore del paese
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Nel cuore del paese

J. M. Coetzee, Franca Cavagnoli

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Nel cuore del paese

J. M. Coetzee, Franca Cavagnoli

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In una sperduta fattoria del Sudafrica, Magda, la protagonista di questo romanzo feroce e appassionato, contempla la vita da cui è stata esclusa. Ignorata da un padre indifferente, disprezzata e temuta dalla servitú, è una donna intelligente e disillusa, la cui mansuetudine esteriore nasconde il disperato proposito di «non essere tra chi è stato dimenticato dalla Storia». Nella narrazione la realtà si confonde con i timori e le angosce visionarie di Magda, dove esplodono le tensioni tra colonizzatore e colonizzato - e tra gli struggenti desideri europei e l'immensità e la solitudine dell'Africa.
Coetzee, attraverso una prosa ricca e drammatica, trasforma una vicenda familiare nel cuore del Sudafrica in uno specchio amaro dell'esperienza coloniale.

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2015
ISBN
9788858420171

J. M. Coetzee

Nel cuore del paese

Traduzione di Franca Cavagnoli

Einaudi

1. Oggi mio padre ha portato a casa la nuova sposa. Sono arrivati, clip-clop, dalla piana su un carro trainato da un cavallo con una piuma di struzzo ondeggiante sulla fronte, impolverati dopo il lungo tragitto. O forse era trainato da due asini impiumati, è pure possibile. Mio padre era in tuba e marsina nera, la sposa indossava un cappello da sole a tesa larga e un vestito bianco stretto in vita e intorno al collo. Altri dettagli non posso darne a meno di non incominciare a ricamarci sopra perché non stavo guardando. Ero nella mia stanza, nella penombra di smeraldo del tardo pomeriggio, con le persiane accostate, a leggere un libro o, piú probabilmente, supina con un asciugamano umido sugli occhi a combattere un’emicrania. Io sono quella che se ne sta nella sua stanza a leggere o a scrivere o a combattere l’emicrania. Le colonie sono piene di ragazze cosí, ma nessuna, credo, si spinge agli estremi quanto me. Mio padre è quello che misura le assi del pavimento, avanti e indietro, avanti e indietro, con lenti stivali neri. E poi, in piú, c’è la nuova moglie, che rimane a letto fino a tardi. Sono questi gli antagonisti.
2. La nuova moglie. La nuova moglie è una donna pigra voluttuosa felina di ossatura robusta con una grande bocca dal sorriso lento. I suoi occhi sono neri e pungenti come due more, due more pungenti. È un donnone con polsi sottili e lunghe dita paffute. Mangia di gusto. Dorme e mangia e ozia. Tira fuori la lunga lingua rossa e si lecca sulle labbra il dolce grasso di agnello. – Ah, come mi piace! – dice, e sorride alzando gli occhi al cielo. Le guardo incantata la bocca. Poi lei volta verso di me la grande bocca sorridente e i pungenti occhi neri. Non è facile sostenerne il sorriso. Insieme non siamo una bella famiglia.
3. È la nuova moglie, perciò quella vecchia è morta. La vecchia moglie era mia madre, ma è morta tanti anni fa e io me la ricordo appena. Dovevo essere molto piccola quando è morta, forse ancora in fasce. Da uno dei recessi piú reconditi della memoria estraggo una tenue immagine grigia, l’immagine di una madre tenue grigia fragile dolce e amorevole raggomitolata per terra, come è probabile che s’inventi una ragazza nelle mie condizioni.
4. La prima moglie di mio padre, mia madre, era una fragile donna dolce e amorevole, che ha vissuto ed è morta sotto il tallone del marito. Il marito non le ha mai perdonato di non avergli dato un figlio maschio. Le sue incontenibili pretese sessuali l’hanno portata a morire di parto. Era troppo fragile e dolce per dare alla luce il rozzo e ruvido erede maschio che mio padre voleva, perciò è morta. Il dottore è arrivato troppo tardi. Mandato a chiamare da un ragazzo in bicicletta, ha arrancato per quaranta miglia lungo una strada a sterro su un carro trainato da un asino. Al suo arrivo mia madre giaceva ormai composta sul letto di morte, paziente, esangue, contrita.
5. (Ma perché non è venuto a cavallo? Ma a quei tempi le biciclette c’erano?)
6. Non stavo guardando quando mio padre ha portato a casa la sposa dalla piana perché ero nella mia stanza buia rivolta a ponente a rodermi il fegato e ad aspettare. Avrei dovuto accoglierli sorridente, offrirmi di preparare il tè, ma non l’ho fatto. Ero assente. Nessuno ha sentito la mia mancanza. Mio padre non fa caso alla mia assenza. Per mio padre sono stata un’assenza per tutta la vita. Perciò invece di essere il calore muliebre al centro di questa casa sono stata uno zero, una nullità, un vuoto entro cui ogni cosa sprofonda, una turbolenza, soffocata, grigia, come una corrente fredda che mulina lungo i corridoi, negletta, vendicativa.
7. Cade la notte, e mio padre e la nuova moglie si rotolano in camera da letto. Mano nella mano accarezzano il ventre di lei, lo guardano guizzare e fiorire. Si avvinghiano; lei lo avvolge nella sua carne; ridacchiano e gemono. Sono bei momenti per loro.
8. Ho vissuto tutta la vita in una casa che il destino ha plasmato a forma di H, in un teatro di pietra e di sole recintato da miglia di fil di ferro, facendo la spola da una stanza all’altra, incombendo fosca sui servi, la torva figlia-vedova di un padre cupo. Tramonto dopo tramonto ci siamo seduti l’uno di fronte all’altra davanti alla carne di agnello, alle patate, alla zucca, al cibo spento cucinato da mani spente. È possibile che ci si parlasse? No, non lo è, dobbiamo esserci fronteggiati in silenzio masticando, mentre il tempo scorreva, con gli occhi, i suoi occhi neri e i miei occhi neri ereditati da lui, che vagavano vuoti nel rispettivo campo visivo. Poi ci ritiravamo a dormire, a sognare allegorie di desiderio represso che per fortuna non siamo in grado di interpretare; e al mattino rivaleggiavamo in glaciale ascetismo per essere in piedi per primi, per accendere il fuoco nel focolare freddo. La vita alla fattoria.
9. Nel vestibolo in penombra si sente il ticchettio dell’orologio giorno e notte. Sono io che lo carico e che settimanalmente, secondo il sole e l’almanacco, lo regolo. Il tempo alla fattoria è il tempo del vasto mondo, non un briciolo di piú né di meno. Abbatto risoluta il cieco tempo soggettivo del cuore, con i suoi spruzzi di eccitazione e strascichi di tedio: il polso palpita al ritmo della civiltà, con la cadenza di un battito al secondo. Un giorno uno studioso non ancora nato riconoscerà nell’orologio la macchina che ha domato le lande selvagge. Ma potrà mai conoscere la desolazione dell’ora della siesta che risuona nelle fresche case dagli alti soffitti verdi dove le figlie delle colonie sono distese a contare con gli occhi chiusi? La terra è piena di melanconiche zitelle come me, strappate alla Storia, simili a lividi scarafaggi nelle case avite, che fanno risplendere il rame e preparano marmellate. Corteggiate da piccole dai nostri padri padroni, siamo amare vestali, viziate per la vita. Lo stupro dell’infanzia: qualcuno dovrebbe studiare il nocciolo di verità in questa fantasia.
10. Vivo, soffro, sono qua. Con l’astuzia e con l’inganno, se necessario, lotto per non essere tra chi è stato dimenticato dalla Storia. Sono una zitella con un diario provvisto di lucchetto ma sono piú di questo. Sono una coscienza inquieta ma sono anche piú di questo. Quando si spengono le luci sorrido nell’oscurità. I denti scintillano, anche se nessuno lo crederebbe mai.
11. Mi si avvicina da dietro, in un effluvio di fiori d’arancio e di fregola, e mi prende per le spalle. – Non voglio che tu sia arrabbiata, capisco che ti senta turbata e infelice, ma non ce n’è ragione. Vorrei che fossimo felici insieme. Farò di tutto, davvero di tutto, perché sia cosí. Mi credi?
Guardo fisso nella nicchia del camino; il naso si gonfia e diventa rosso.
– Voglio creare una famiglia felice, – dice con voce carezzevole ruotandomi intorno, – tutti e tre insieme. Voglio che pensi a me come a una sorella, non una nemica.
Guardo le labbra piene di questa donna sazia.
12. C’è stato un tempo in cui pensavo che se avessi parlato abbastanza a lungo avrei scoperto cosa vuol dire essere una zitella inacidita nel cuore del nulla. Ma sebbene annusi ogni aneddoto come un cane i suoi escrementi, non trovo niente di simile a quella espansione inebriante nel come-se che segna l’inizio di una vera doppia vita. Smaniosa di formare le parole che mi tradurranno nella terra del mito e degli eroi, eccomi ancora qua, nella mia sciatteria, nella tediosa calura estiva, incapace di trascendere me stessa. Cosa mi manca? Piango e digrigno i denti. È solo la passione? È solo la visione di una seconda esistenza cosí appassionata da trasportarmi dalla mondanità dell’essere alla duplicità della significazione? Non fremo forse in ogni mio poro mossa da parossismi di irritazione? Non sarà che la mia passione è priva di volontà? Non sarò forse una zitella di campagna inacidita ma nel contempo compiaciuta, stretta nell’abbraccio dei miei furori? Desidero veramente andare oltre? La storia della mia rabbia e il suo spaventoso seguito: salirò dunque su questo veicolo e chiuderò gli occhi per essere condotta a valle al di là delle rapide, attraverso le acque che si frangono, per svegliarmi rigenerata nel quieto estuario? Quale automatismo è mai questo, quale liberazione mi porterà, e senza liberazione a cosa servirà mai la mia storia? Provo forse una genuina indignazione per il mio destino di zitella? Chi c’è dietro la mia oppressione? Tu e tu, dico accovacciandomi tra le ceneri, puntando il dito contro il padre e la matrigna. Ma perché non sono scappata via, lontano da loro? Finché ci sarà un altrove dove poter condurre un’esistenza, ci saranno dita celestiali puntate contro di me. O mi è stato forse riservato, in un modo a me finora ignoto ma adesso purtroppo noto, un destino piú complesso: essere crocefissa a testa in giú come monito per coloro che amano la propria rabbia e a cui manca la capacità di vedere un altro racconto? Ma quale altro racconto può esserci per me? Le nozze con il secondogenito del vicino? Non sono una contadina felice. Sono un’infelice vergine nera, e questa è la mia storia, anche se è una noiosa storia nera cieca stupida e infelice, che ignora il suo significato e le sue molteplici possibili varianti a lieto fine non ancora esplorate. Io sono io. Il carattere è il destino. La Storia è Dio. Risentimento, risentimento, risentimento.
13. L’Angelo, cosí la chiamano a volte, L’Angelo in Nero che salva da febbri e laringiti difteriche i bambini della gente dalla pelle bruna. Quando si tratta di curare i malati, la severità del suo focolare domestico si trasforma in compassione incessante. Una notte dopo l’altra veglia bambini piangenti o donne in travaglio, lottando contro il sonno. – Un angelo del cielo! – dicono con ardenti occhi adulatori. Il suo cuore esulta. In guerra renderebbe piú dolci le ultime ore dei feriti. Morirebbero con il sorriso sulle labbra, guardandola negli occhi, stringendole la mano. Le sue riserve di compassione sono infinite. Ha bisogno che qualcuno abbia bisogno di lei. Se nessuno ha bisogno di lei si sente confusa e disorientata. Questo non spiega forse tutto?
14. Se mio padre fosse stato un uomo debole avrebbe avuto una figlia migliore. Ma non ha mai avuto bisogno di niente. Stregata dal bisogno che qualcuno abbia bisogno di me, gli ruoto intorno come la luna. È questa la mia unica risibile incursione nella psicologia della nostra débâcle. Spiegare è perdonare, essere spiegati è essere perdonati, ma io, spero e temo, sono inspiegabile, imperdonabile. (Che cosa in me si ritrae dalla luce? Ho davvero un segreto o la confusione davanti a me è solo un modo per rendere misteriosa la metà migliore di me, quella che vuole cercare? Sono proprio sicura che nella crepa fra la mia tenera madre e il mio io bambino ci sia la chiave di questa annoiata zitella nera? Estenditi, estenditi, è questo il sussurro che sento nell’intimo).
15. Un altro aspetto di me, ora che parlo di me, è il mio amore per la natura, in particolare per la vita degli insetti, la vita determinata, zampettante, intorno a ogni palla di sterco e sotto ogni pietra. Quando ero piccola (tessi! tessi!), sedevo tutto il giorno nella polvere, cosí si dice, con un cappellino da sole pieno di gale e volants, e giocavo con i miei amici scarabei, quelli grigi e quelli marroni e anche con quelli grossi e neri di cui ho dimenticato il nome ma che senza sforzo alcuno potrei rintracciare in un’enciclopedia, e con i miei amici formichieri che costruivano piccole ed eleganti trappole coniche di sabbia lungo i fianchi delle quali facevo rotolare la comune formica rossa, e, ogni tanto, nascosto sotto una pietra piatta, un piccolo scorpione pallido e flaccido, abbagliato dal sole, che schiacciavo con un bastone, poiché già allora sapevo che gli scorpioni erano cattivi. Non ho paura degli insetti. Mi lascio la fattoria alle spalle e risalgo scalza il letto del fiume, con la calda sabbia scura che scricchiola sotto la pianta dei piedi e fa capolino tra le dita. Nei banchi di sabbia mi siedo allargando le gonne per sentire il calore intorno alle cosce. Non ho dubbi, ne sono certa, che in caso di necessità – anche se non so come una simile evenienza potrebbe presentarsi – saprei vivere in una capanna di fango, o anche sotto una tettoia di rami, nel veld, e mangiare becchime per i polli, parlare con gli insetti. Già nella bambina devono essere balenati i lineamenti della vecchia pazza, e la gente dalla pelle bruna, che si nasconde dietro i cespugli e sa tutto, deve aver ridacchiato tra sé.
16. Sono cresciuta coi figli dei servi. Prima di imparare a parlare cosí, parlavo come loro. Giocavo assieme a loro con sassi e bastoncini prima di sapere che potevo avere una casa delle bambole, con il Papà e la Mamma e Peter e Jane addormentati nel loro letto e vestiti puliti nel comò con cassetti che si potevano aprire e chiudere mentre Nan, il cane, e Felix, il gatto, sonnecchiavano davanti ai carboni in cucina. Con i figli dei servi perlustravo il veld in cerca delle radici di khamma, davo agli agnelli orfani latte di vacca, mi arrampicavo sul cancello per vedere come si faceva il bagno medicato alle pecore e si ammazzava il maiale a Natale. Annusavo gli acri recessi dove dormivano gli uni sugli altri simili a conigli, sedevo ai piedi del nonno cieco mentre intagliava le mollette per il bucato e raccontava le storie dei bei giorni andati, quando gli uomini e le bestie feroci migravano dai pascoli invernali ai pascoli estivi e battevano la stessa strada. Ai piedi di un vecchio mi sono pasciuta del mito di un passato in cui le bestie feroci, l’uomo e il padrone vivevano una vita comune innocente quanto le stelle del cielo, e l’idea di riderne non mi sfiora nemmeno. Come posso sopportare il dolore di ciò che si è perduto senza il sogno di un’epoca pristina, tinta forse del viola della melanconia, e il mito dell’espulsione per interpretare il mio dolore? E tu, madre, madre tenera profumata amorevole che mi inebriavi di latte e di sonno sotto il piumino e poi svanivi al suono delle campane nella notte, lasciandomi sola tra mani rozze e corpi duri – dove sei? Il mio mondo perduto è un mondo di uomini, di notti fredde, di fuoco di legna, di occhi scintillanti e di un lungo racconto di eroi morti in una lingua che non ho disimparato.
17. In questa casa con due padroni rivali i servi svolgono i loro compiti con le spalle curve, schivando gli strali di cattivo umore scagliati contro di loro. Annoiati da un lavoro ingrato e faticoso, aspettano con ansia le tinte fosche dei litigi, pur sapendo che poche cose sono migliori dei rapporti cordiali. Non è ancora venuto il giorno in cui i giganti lotteranno tra loro e i nani sgattaioleranno via nella notte. Provando i propri sentimenti non in ondate successive di contrari ma come un guazzabuglio simultaneo di rabbia, rimpianto, risentimento e gioia, provano una vertigine che li spinge ad abbandonarsi al sonno. Desiderano essere nella grande fattoria ma anche starsene a casa propria fingendosi malati, sonnecchiando su una panca all’ombra. Le tazze sfuggono loro tra le dita e vanno in mille pezzi. Sussurrano frettolosamente negli angoli. Rimproverano i figli senza una buona ragione. Fanno brutti sogni. La psicologia dei servi.
18. Non vivo né sola né in compagnia ma per cosí dire tra bambini. Mi parlano non a parole, che mi giungono pittoresche e velate, ma a segni, in forma di faccia e mani, in posture di spalle e piedi, in sfumature di tono e accordi, in lacune e assenze la cui grammatica non è mai stata trascritta. Nel leggere la gente dalla pelle bruna procedo a tastoni, cosí come essa procede a tastoni nel leggere me: giacché anch’essa sente le mie parole come fossero smorzate, ascolta i suoni armonici della voce, le sottigliezze delle sopracciglia che esprimono ciò che intendo veramente dire: «Attento, non contrariarmi», «Ciò che dico non viene da me». Cerchiamo di catturare l’esile filo di fumo dei rispettivi segnali al di là di valli di spazio e di tempo. È per questo che le mie parole non sono parole come quelle che gli uomini usano con gli uomini. Sola nella mia stanza, dopo aver svolto i miei compiti e con la lampada sempre accesa, entro a poco a poco in ritmi che sento miei, inciampo in rocce di parole che non ho mai sentito in un’altra lingua. Creo me stessa nelle parole che creano me, io, che vivendo tra i diseredati non mi sono mai considerata all’altezza di qualcun altro né ho mai considerato qualcun altro alla mia altezza. Finché sono libera di essere me stessa nulla è impossibile. Nella clausura della mia stanza sono la vecchia pazza che sono destinata a essere. I miei vestiti sono incrostati di bava, mi curvo e mi contorco, sui piedi sbocciano calli durissimi, questa voce compassata, che tesse frasi senza una ragione, che sbadiglia di noia perché alla fattoria non succede mai nulla, spezza e stilla i sentimenti lunatici, stizzosi, che appartengono alla notte piú fonda, quando il censore russa, che appartengono al folle flauto alla cui musica danzo da sola.
19. Quale consolazione offrono i paradossi lapidari agli amori del corpo? Guardo le labbra piene della vedova sazia, sento lo scricchiolio delle assi del pavimento nella fattoria sopita, il caldo mormorio del letto grande, sento su di me il balsamo di carne amorevole, mi addormento nei vapori e negli odori del corpo. Ma come si fa a liberarsi del reale per giungere al fondo oscuro di ciò che si desidera? Come una vergine slabbrata me ne sto ritta sulla soglia, nuda, supplichevole.
20. La vedova sazia si porta un dito alle labbra piene e scure in un gesto criptico. È un monito al silenzio? Il mio corpo candido forse la diverte? Dalle tende aperte i raggi della luna piena le filtrano sulle spalle, sulle ironiche labbra piene. L’uomo giace addormentato all’ombra dei suoi fianchi. Si porta una mano criptica alla bocca. È divertita? È allarmata? La brezza della notte soffia tra le tende scostate. La camera è immersa nell’oscurità, le figure addormentate sono cosí silenziose che non riesco a sentirne il respiro sopra il martellio del mio cuore. Dovrei andare da loro vestita? Sono fantasmi che svaniranno non...

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