«Vi prego, signor Adamson, andate a ballare, – disse Lady Alabaster dal suo sofà. – È molto gentile da parte vostra sedere accanto a me e porgermi bicchieri di limonata, ma credo proprio che dovreste ballare. Le nostre ragazze si sono fatte belle in vostro onore, voglio sperare che i loro sforzi non siano stati vani».
«Le trovo deliziose, – disse William Adamson, – ma ho perso l’abitudine alle sale da ballo».
«Non si balla molto nella giungla», affermò Edgar Alabaster.
«Al contrario. Si balla moltissimo. Ci sono feste religiose, feste cristiane, con settimane e settimane di balli pubblici. E nell’interno ci sono le danze indiane che ti costringono a imitare i saltelli dei picchi, o le contorsioni degli armadilli, per ore e ore». William aprí la bocca per aggiungere qualcosa, ma la richiuse. Gli slanci didattici erano una nefasta abitudine in chi faceva ritorno da lunghi viaggi.
Lady Alabaster sistemò meglio sul satin rosa del sofà il corpo grassoccio rivestito di seta nera. Insistette. «Se non vi decidete a sceglierla da solo, chiederò a Matty di trovarvi una graziosa partner».
Fanciulle scintillanti roteavano alla luce delle candele, madreperla e blu notte, argento e citrino, garza e tulle. Un’orchestrina, due violini, un flauto, un fagotto e un violoncello, strimpellava, strideva e riecheggiava nella galleria dei menestrelli. William Adamson si sentiva soffocato, ma composto, nell’abito da sera prestatogli da Lionel Alabaster. Si rammentava d’una festa sul Rio Manaquiry, illuminata da lanterne fatte con una mezza scorza d’arancia riempita d’olio di tartaruga. Aveva ballato con la Juiza, la regina della festa, scalzo e in maniche di camicia. Laggiú, il biancore della sua pelle gli offriva automaticamente il posto d’onore a tavola. Qui appariva sudato, d’un giallo itterico misto al brunito del sole. Era alto e naturalmente ossuto, quasi cadaverico dopo la terribile esperienza sul mare. Le figure pallide nella luce tenue lo oltrepassarono in una polka, mormorando tra loro. La musica tacque, le coppie si allontanarono dalla pista, applaudendo e ridendo. Le tre ragazze Alabaster vennero restituite al gruppo intorno alla madre. Eugenia, Rowena e Enid.
Erano tutte e tre creature d’oro pallido e avorio, con grandi occhi azzurri e lunghe ciglia chiare e setose, visibili solo con certe luci e ombre. Enid era la piú giovane, con ancora una traccia di infantile rotondità, indossava un abito di organza rosa vivo con un ricamo di boccioli bianchi, e una ghirlanda di boccioli con una rete di nastri rosa nei capelli. Rowena era la piú alta, l’unica che rideva, con un colorito piú acceso sulle guance e le labbra, e una treccia di capelli fissati sulla nuca con perle e margherite dai petali rosati. La maggiore, Eugenia, indossava una mussolina bianca su una sottogonna di seta lilla, e aveva puntato sul petto un mazzetto di viole, e altre viole alla vita, e la sua lucente capigliatura d’oro era intessuta di viole e edera. E i fratelli, anche loro erano biondi e di carnagione bianca. Formavano un gruppo incantevole e omogeneo.
«Il povero signor Adamson non immaginava certo che avremmo dato un ballo proprio all’inizio della sua visita, – disse Lady Alabaster. – Vostro padre gli ha scritto per invitarlo, appena ha saputo che lo avevano tratto in salvo dopo quindici orribili giorni in balia dell’Atlantico. E naturalmente vostro padre era molto piú ansioso di vedere i campioni del signor Adamson che di partecipare all’intrattenimento da noi organizzato. Cosí il signor Adamson è arrivato giusto in tempo per trovare la casa sottosopra e la servitú che correva di qua e di là in una totale confusione. Per fortuna ha pressappoco la statura di Lionel, che ha potuto prestargli uno dei suoi abiti».
«Non avrei avuto un abito da sera in nessun caso, – disse William. – Tutti i miei beni terreni sono bruciati o affogati, o entrambe le cose, e non hanno mai contemplato un abito da sera. Negli ultimi due anni trascorsi a Ega non possedevo neppure un paio di scarpe».
«Bene, bene, – disse Lady Alabaster con disinvoltura, – dovete essere dotato di enormi risorse di forza e coraggio. Sono sicura che funzioneranno alla perfezione sulla pista da ballo. E anche voi dovete fare il vostro dovere, Lionel e Edgar. Le dame sono piú numerose dei cavalieri, come sempre. Non so come mai, ma in ogni occasione le signore sono piú numerose».
La musica riprese, un valzer. William si inchinò davanti alla piú giovane delle Alabaster, e le chiese se era libera. Lei arrossí, sorrise, e accettò.
«Ora guardate le mie scarpe con nuova consapevolezza, – disse William avviandosi. – Non temete soltanto che io balli goffamente, ma che i miei piedi fuori esercizio inciampino nelle vostre belle scarpine. Cercherò di non farlo. Ce la metterò tutta, ma dovete aiutarmi, signorina Alabaster, dovete aver pietà delle mie mancanze».
«Deve sembrarvi molto strano, – disse Enid Alabaster, – dopo tutti questi anni di pericoli, privazioni e solitudine, partecipare a questo tipo di intrattenimenti».
«È assai piacevole», disse William controllando i piedi con crescente confidenza. Talvolta si ballava il valzer a Pará e Manaós; ricordava danze turbinose con dame di carnagione olivastra e vellutate chiome brune, di dubbia o nessuna virtú. C’era qualcosa di inquietante nella morbida creatura bianca tra le sue braccia, con quell’aspetto sodo e allo stesso tempo leggiadramente inavvicinabile. Ma i piedi di William si muovevano sicuri.
«In realtà ballate benissimo il valzer», disse Enid.
«Non quanto vostro fratello», rispose William.
Edgar Alabaster danzava con sua sorella Eugenia. Era un uomo massiccio, muscoloso, con capelli biondi che si increspavano sul capo in onde morbide e regolari, la schiena rigida ed eretta. Ma i suoi grandi piedi si muovevano in passi veloci e complicati, tracciando eleganti disegni accanto alle scarpette grigio perla di Eugenia. Non si parlavano. Edgar guardava al di sopra della spalla di Eugenia, vagamente annoiato, teneva sotto controllo la sala da ballo. Gli occhi di Eugenia erano semichiusi. Vorticavano, ondeggiavano, si arrestavano, piroettavano.
«Ci esercitiamo continuamente, – disse Enid. – Matty suona il piano e noi balliamo e balliamo. Naturalmente Edgar preferisce i cavalli, ma ama qualunque tipo di movimento, e noi anche. Lionel non è altrettanto bravo. Non si lascia andare allo stesso modo. Certi giorni, penso che potremmo continuare a ballare in eterno, come le principesse della fiaba».
«Che ogni sera consumavano di nascosto le scarpette da ballo».
«E la mattina dopo erano esauste e nessuno riusciva a spiegarsi il perché».
«E rifiutavano di sposarsi perché adoravano ballare».
«Alcune signore continuano a ballare anche dopo sposate. Guardate la signora Chipperfield, in verde brillante. Balla molto bene».
Edgar e Eugenia avevano abbandonato le danze ed erano tornati ai loro posti sul sofà accanto a Lady Alabaster. Enid continuò a raccontare a William della famiglia. Oltrepassando di nuovo il divano, ripeté: «Eugenia era la migliore, prima della disgrazia».
«Disgrazia?»
«Stava per sposarsi, solo che il capitano Hunt, il suo fidanzato, morí all’improvviso. È stato terribile, la povera Eugenia comincia a riprendersi solo ora. È come restare vedova senza essersi sposata, credo. Non ne parliamo mai. Ma naturalmente lo sanno tutti. Non sto spettegolando. Solo pensavo che – dal momento che vi tratterrete per un po’ – è meglio che siate informato».
«Grazie. Siete molto gentile. Eviterò di lasciarmi sfuggire qualche sciocchezza. Credete che le andrebbe di ballare con me, se glielo chiedessi?»
«Forse».
Accettò. Lo ringraziò con gravità, con un cenno impercettibile delle morbide labbra e nessun cambiamento negli occhi profondi e distanti – o almeno cosí lui li vedeva – e gli porse con grazia la mano. Tra le sue braccia – cosí sentiva William – era piú leggera, piú fluttuante, meno scattante di Enid. Una straordinaria destrezza dei piedi. Dall’alto abbassò gli occhi sul pallido viso di lei e scorse le palpebre venate d’azzurro, quasi translucide, sfiorate dalle folte ciocche di capelli d’oro chiaro. Le dita sottili e inguantate giacevano tra le sue, quasi senza tepore. Le spalle e il busto emergevano bianchi e perfetti dalla schiuma di tulle e mussola, come Afrodite dalla spuma del mare. Intorno al collo un semplice filo di perle, morbido bianco su morbido bianco con un luccichio di differenza. Orgogliosamente nuda e allo stesso tempo assolutamente inavvicinabile. La guidò sulla pista e, con vergogna e sorpresa, sentí nel suo corpo l’agitazione e i brividi inconfondibili dell’eccitazione. Cercò di contenersi nell’abito da sera di Lionel, e pensò – dopo tutto era uno scienziato e un osservatore – che lo scopo di queste danze era appunto questo, suscitare il suo desiderio, malgrado la discrezione dei guanti, malgrado la dolce innocenza della vita quotidiana della giovane donna tra le sue braccia. Ricordava la danza della palma da vino, un cerchio ondeggiante che al cambiamento di ritmo si spezzava in coppie che si abbracciavano e infine danzavano tumultuosamente intorno all’unico ballerino rimasto privo di partner. Ricordava donne con i seni bruni lucidi d’olio e sudore, e dita impudiche, che lo toccavano, premevano, sfregavano e vezzeggiavano.
Sembrava che nulla di quanto faceva ora accadesse senza questa doppia prospettiva, di cose viste e fatte in altro modo, in un altro mondo.
«Voi pensate all’Amazzonia!» disse Eugenia.
«Avete il dono di leggere nel pensiero?»
«Oh, no. Ma date l’impressione d’esser molto lontano. E l’Amazzonia lo è».
«Stavo pensando alla bellezza di questo posto – l’architettura e le giovani donne con i loro veli e merletti. Osservavo questa raffinata volta gotica a ventaglio, che secondo Ruskin è come l’antica fantasmagoria degli alberi nella foresta, a volta, e pensavo alle palme torreggianti nella giungla, e alle meravigliose farfalle setose che volano tra loro, molto in alto e fuori della nostra portata».
«Dev’essere molto strano», disse Eugenia. Fece una pausa. «Ho disposto in modo meraviglioso – una sorta di trapunta, o forse un ricamo – alcuni dei primi campioni che inviaste a mio padre. Li ho appuntati con estrema cura – sono d’una grazia squisita. Fanno un po’ l’effetto di un cuscinetto smerlato, solo che hanno sfumature che nessuna seta può avere».
«Gli indigeni pensavano che le raccogliessimo per usarli come modelli per i tessuti. Non riuscivano a spiegarsi diversamente il nostro interesse, dal momento che le farfalle non sono commestibili – al contrario, credo che molte siano velenose, visto che si nutrono di piante velenose. E proprio quelle sono le piú belle, e volteggiano lente e orgogliose, ostentando i loro colori come un avvertimento. Naturalmente sono maschi, che si fanno lucenti per le loro scure compagne. In questo gli Indios assomigliano alle farfalle. Sono gli uomini che si dipingono e ornano con penne e pietre dai colori vivaci. Le donne sono piú sobrie. Invece qui noi uomini indossiamo carapaci come i coleotteri. E voi signore sembrate un giardino in piena fioritura».
«Mio padre si è cosí dispiaciuto nell’apprendere che avete perso tutto in quel terribile naufragio. Per voi, e per se stesso. Era ansioso di accrescere la sua collezione».
«Sono riuscito a salvare una o due delle piú belle e rare. Le ho tenute in una scatola speciale sotto il mio cuscino – mi piaceva guardarle – perciò erano a portata di mano quando abbiamo dovuto abbandonare la nave. È emozionante salvare una farfalla morta. Una è una vera rarità – non posso dirvi altro per ora – ma sono certo che vostro padre sarà felice di averla – e anche voi – ma dev’essere una sorpresa».
«Detesto le persone che mi annunciano una sorpresa, ma non mi dicono di che cosa si tratta».
«Non vi piace il mistero?»
«No. Assolutamente no. Mi piace sapere dove sono. Le sorprese mi fanno paura».
«Allora dovrò ricordare di non farvi mai sorprese», disse sentendosi sciocco, e non si stupí che lei non rispondesse. C’era una piccola macchia cremisi, della misura di una formica media, dove i suoi seni rotondi si incontravano, o si separavano, dove cominciava a delinearsi un’ombra violetta, C’erano vene azzurre qua e là sulla superficie cremosa, proprio sottopelle. Di nuovo sentí il suo corpo che premeva, e si sentí sporco e pericoloso. Disse: «Mi sembra un privilegio entrare temporaneamente nella vostra felice famiglia, signorina Alabaster».
Al che lei sollevò lo sguardo verso di lui e aprí i grandi occhi azzurri. Erano umidi di qualcosa che assomigliava alle lacrime.
«Io amo la mia famiglia, signor Adamson. Siamo molto felici insieme. Siamo affezionatissimi l’uno all’altro».
«Siete fortunati».
«Oh, sí. Lo siamo. Lo so. Siamo molto fortunati».
Dopo i dieci anni in Amazzonia, e soprattutto dopo i giorni di delirio alla deriva su una lancia nell’Atlantico, William era arrivato a considerare i lindi e confortevoli letti inglesi come un terreno Giardino di Delizie. Benché fosse mezzanotte passata quando si ritirò nella sua stanza, trovò una cameriera magra e taciturna che lo aspettava per portargli l’acqua calda e riscaldargli le lenzuola, scivolando dietro di lui a occhi bassi e passi silenziosi. La sua camera da letto aveva un piccolo bovindo scolpito, con vetri colorati su cui erano dipinti due gigli bianchi. Quelle mura gotiche racchiudevano comodità moderne – sul letto di mogano, intagliato con un complicato intreccio di foglie d’edera e bacche d’agrifoglio, erano distesi un materasso di piume d’oca, soffici coperte di lana, e una candida trapunta ricamata con rose Tudor. In ogni caso non si infilò subito tra le lenzuola, portò invece la candela sulla scrivania ed estrasse il suo diario.
Aveva sempre tenuto un diario. Quando era giovane, in un villaggio fuori Rotherham nello Yorkshire, scriveva un esame di coscienza quotidiano. Suo padre, macellaio benestante e metodista devoto, aveva mandato i figli a una buona scuola locale, dove avevano imparato il greco e il latino e un po’ di matematica, ed esigeva che frequentassero la parrocchia. I macellai, aveva notato William, che già allora amava le classificazioni, sono di solito persone corpulente, d’aspetto cordiale e di solide convinzioni. Martin Adamson, al pari di suo figlio, aveva una criniera di lucidi capelli scuri, un naso lungo e importante, e penetranti occhi azzurri sotto sopracciglia diritte. Amava il suo mestiere, anatomizzare i cadaveri con un delicato lavoro di lama e preparare con cura salsicce e torte di carne, ed era terrorizzato dal Fuoco dell’Inferno, le cui fiamme di giorno guizzavano nella sua immaginazione e di notte tormentavano i suoi sogni. Forniva carne di primo taglio ai proprietari di officine e miniere, collo e polpette di fegato di maiale ai minatori e agli operai delle fabbriche. Aveva delle ambizioni per William, ma nessuna attesa specifica. Desiderava che scegliesse un’attività con buone prospettive.
William allenò l’occhio nella fattoria e in mezzo alla segatura insanguinata del macello. Nella vita che infine scelse di fare, le competenze apprese dal padre si dimostrarono di inestimabile valore nello spellare, montare e conservare esemplari di uccelli, animali selvatici e insetti. Anatomizzava formichieri, cavallette e formiche con la precisione del padre ridotta a una scala microscopica. In quei giorni il suo diario traboccava del desiderio di diventare un grand’uomo e di autocritiche per i suoi peccati d’orgoglio, la mancanza di umiltà, la presunzione, l’ignavia e la pavidità nel perseguire la grandezza. Tentò con l’insegnamento e la supervisione dei cardatori di lana, e annotò sul diario il suo sgomento per i successi ottenuti – era un buon insegnante di latino, vedeva quel che i suoi studenti non vedevano, era un buon supervisore, sapeva individuare l...