Una bella differenza
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Una bella differenza

Alla scoperta della diversità del mondo

Marco Aime

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Una bella differenza

Alla scoperta della diversità del mondo

Marco Aime

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La differenza ha profonde radici storiche e culturali ed è il frutto delle risposte che i diversi gruppi umani hanno saputo dare ai differenti habitat con cui si sono trovati a convivere. Marco Aime, dialogando con le sue nipotine Chiara ed Elena, racconta dei suoi viaggi, dei suoi incontri immaginari con colleghi celebri come Claude Lévi-Strauss o Bronisl/aw Malinowski - nel libro citati semplicemente per nome, - e mediante aneddoti ed esempi spiega le diverse concezioni che i tanti popoli della terra hanno dello spazio, del tempo, della famiglia, dell'economia, del corpo.
Nel suo insieme il libro dà vita a una sorta di breve e semplice corso di antropologia che fornisce ai lettori, giovani e adulti, gli strumenti critici per osservare il mondo con altri occhi. - Zio, è vero che tu insegni antro... non mi ricordo piú come si chiama.
- Antropologia, sí è vero Chiara.
- Mi spieghi cos'è? Che non è mica tanto chiaro.
- Sedetevi qui, anche tu, Elena.
- Ma lei è piccola!
- Non importa, vedrai che capirà. L'importante è comprendere che nel mondo ci sono differenze nel modo di pensare e di comportarsi, ma che nessuno è inferiore agli altri. Bisogna imparare che se qualcuno si comporta in modo diverso da noi, forse avrà le sue ragioni e ai suoi occhi siamo noi a essere diversi. Indice:
Quando eravamo scimmie
Ma che razza di gente!
Quanti parenti!
Corpi disegnati
Il pianto del ramo
Parlare per creare
Dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei
Lo scherzo di Orazio
Tutto casa e famiglia
Chi si muove e chi sta fermo
Nascere, crescere, morire
Non c'è solo l'orologio
Siamo tutti un po' stranieri
La magia del dono
Una visita inattesa
Ridendo e scherzando

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2015
ISBN
9788858417836

Il pianto del ramo

– Significa che ci sono modi diversi di pregare?
– Certo, da noi si usa accendere una candela in chiesa per rendere omaggio al nostro Dio, in India si portano nel tempio collane di fiori, in Tibet si fanno girare dei cilindri di bronzo con sopra incise delle preghiere, in Nepal si mettono delle bandierine colorate con sopra scritte delle preghiere, pensando che il vento porterà quelle parole in cielo, in altre religioni si offre del cibo alle divinità…
– Ci sono molte religioni diverse nel mondo?
– Moltissime. Vedete, nessuno ha mai visto dio o gli dèi, per questo ogni popolo ha dato un volto, una fisionomia (a volte anche di animale) e un nome diverso al suo dio. E ha anche pensato a dove potesse essere la sua dimora. Gli antichi Greci credevano che i loro dèi abitassero sul monte Olimpo. Anche le popolazioni dell’Himalaya credono che le montagne piú alte, come l’Everest, siano la casa delle divinità. Il dio di certi popoli dell’Oceania vive nelle acque dell’oceano, mentre in molte parti dell’Africa si pensa che le divinità siano in ogni cosa.
– Cosa vuol dire?
– Vi racconto un episodio che mi capitò anni fa. Sapete dov’è il Sahel?
– Mai sentito nominare.
– È una striscia di terra che corre a sud del deserto del Sahara. È una delle regioni piú aride dell’Africa, dove spesso la siccità causa miseria e morte tra gli abitanti e tra gli animali. Ci sono anni in cui piove pochissimo, a volte una o due volte in un anno. Ci sono pochi alberi, un po’ di arbusti, terra e sabbia.
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Una volta ero in Burkina Faso e stavo camminando lungo una pista di terra rossa, quando vidi un uomo mentre tagliava un ramo da un albero. Gli chiesi cosa avrebbe fatto con quel ramo. «Un manico per la mia zappa» mi rispose, continuando il suo lavoro. Dopo aver tagliato il ramo, l’uomo posò la sua ascia per terra, appoggiò le mani sul tronco e iniziò a pregare. Mi avvicinai per ascoltare le sue parole e sentii che stava chiedendo scusa all’albero. Aspettai che terminasse la sua preghiera e poi gli chiesi come mai aveva chiesto perdono all’albero. «Perché ho tagliato una parte del suo corpo. L’albero ha un’anima, c’è un’anima divina dentro di lui, come c’è un’anima divina dentro i fiumi, dentro i laghi, nella foresta, nella pioggia, in tutti gli animali. Tutte le cose hanno un’anima divina, perché dio è in tutte le cose».
Era un’immagine bellissima! Mi fece venire in mente un altro viaggio, quando insieme a Colin, uno spilungone scozzese, stavamo percorrendo un sentiero nella foresta dell’Ituri, nel Congo. La vegetazione sembrava chiudersi su di noi. La luce del sole penetrava appena tra le foglie e c’era un gran buio. Colin, che è altissimo, doveva camminare curvo per non sbattere la testa contro i rami. A un certo punto la foresta si aprí e arrivammo in uno spiazzo dove sorgeva un villaggio di Pigmei.
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C’erano capanne a forma di cupola fatte con foglie di banano. Alcune donne tornavano dalla foresta con cesti pieni di bacche. Gli uomini stavano togliendo la pelle a dei roditori che avevano appena cacciato nella foresta, e avevano acceso un piccolo fuoco per arrostirli.
Li salutammo e ci sedemmo vicino a loro. Erano allegri, c’era da mangiare in abbondanza, carne, frutti... «Grazie alla foresta!» disse Moke, un anziano cacciatore che stava riparando un arco, mentre i giovani lavoravano.
«La foresta è nostra madre e nostro padre» continuò Moke, mentre io e Colin cominciammo a scrivere sui nostri quaderni le parole del vecchio. «È come un padre buono e come una madre buona, ci dà tutto quello che ci serve: cibo, vestiti, riparo, legna per scaldarci e per cucinare. La foresta è buona con noi, ci difende. Tutto va bene quando la foresta vigila su di noi».
Moke stette per un istante in silenzio e il suo sguardo divenne un po’ triste, poi disse: «A volte, però, la foresta si addormenta e allora possono accadere cose brutte, di notte: un leopardo può portare via un bambino, delle formiche possono invadere l’accampamento...»
Chiesi a Moke che cosa si poteva fare e lui rispose: «Cerchiamo di svegliare la foresta, cantando, suonando per lei, perché sia felice e continui a proteggerci».
«La foresta allora è il vostro dio?» chiese Colin.
Moke posò l’arco per terra e disse: «Vedi, ognuno di noi ha un modo diverso per indicare il suo dio. Nessuno sa il vero nome di dio, né come è fatto, perché non lo vediamo. Lo incontreremo dopo che siamo morti, ma allora non potremo piú dirlo a nessuno. Però tutti noi sappiamo che quel dio è lo stesso, è unico. Quel dio per noi è la foresta».
Poi Moke volse lo sguardo verso la foresta e si mise a cantare una canzone:
Il mio cuore è tutto felice
il mio cuore mette le ali nel canto
sotto gli alberi della foresta
la foresta nostra casa e nostra madre.
Piú tardi, tornato a Ouagadougou, la capitale del Burkina Faso, mi misi a pensare a quanti modi ci sono per credere in un dio o in piú divinità e quanti modi per onorarli. In Africa le divinità sono in ogni cosa. Il dio che ha creato il mondo ha lasciato la sua anima in ogni essere, in ogni oggetto. Noi diciamo che gli africani adorano gli alberi o pensiamo che invochino un fiume o un lago, ma sbagliamo. In realtà è il loro dio, che è in queste cose. Per questo gli fanno delle offerte, gli portano del cibo, da bere.
– Ma questo succede solo in Africa?
– No, anzi. Molti anni fa mi trovavo presso gli Inuit, una popolazione che vive tra i ghiacci dell’Artide, al Polo Nord...
– Gli Eschimesi?
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– Sí, ma il loro vero nome è Inuit. Lassú incontrai un norvegese che si chiamava Knud e che conosceva bene quella popolazione. Gli Inuit sono cacciatori, cacciano i caribú, le volpi artiche, gli orsi e anche le balene e le foche. È l’unico modo che hanno per sopravvivere in quei climi, mi spiegava Knud, però a loro dispiace farlo. Cacciano perché sono costretti, ma sanno che uccidendo un animale, uccidono una creatura che ha un’anima. Per questo, dopo averlo cacciato, gli chiedono perdono.
– Come quel signore africano con l’albero?
– Esatto, domandano perdono all’animale per averlo ucciso. Secondo loro quando catturano una preda è perché questa ha voluto donarsi a loro, per sfamarli, per farli sopravvivere. Ma quella creatura ha un’anima come ce l’hanno gli uomini e loro soffrono per averla dovuta uccidere. Sono stato chiaro?
– Sí.
– Knud mi disse che uccidendo un animale che aveva un’anima divina, era come se avessero fatto uno sgarbo a dio. Per questo dovevano chiedere perdono. Poi accese la pipa, mentre il buio cominciava a scendere sui ghiacci.
– Che belle storie sai, zio!
– Viaggiando si incontrano molte persone diverse, ma bisogna essere capaci di starle ad ascoltare. Allora si imparano molte cose interessanti. Purtroppo molta gente non vuole ascoltare gli altri oppure pensa che chi si comporta diversamente da lui, sbaglia. Non è cosí. Ognuno ha le sue buone ragioni per comportarsi in un certo modo, per pensare in un certo modo.
– Però a volte ci sono modi strani.
– Anche i nostri modi di fare sembrano strani agli altri, sapete? Per esempio, a noi piace tenere dei fiori in casa, vero?
– Sí.
– Li comperiamo, li mettiamo nei vasi… Ebbene, una volta un amico africano mi ha detto: «perché tagliate i fiori per poi guardarli appassire e marcire in un vaso? Non sarebbe meglio lasciarli dove sono?»
– È vero, non ci avevo mai pensato!
– Nemmeno io.
– Zio, ci racconti un’altra storia di qualcuno che la pensa diversamente da noi?
– La sapete la storiella dell’elefante e delle tartarughe?
– No… racconta, racconta!
– Allora, c’è un inglese che chiede a un indiano come è fatto il mondo secondo la sua religione, l’induismo.
«Il mondo poggia sulla schiena di un elefante» dice l’indiano.
«E l’elefante su cosa poggia?» domanda l’inglese.
«Su una tartaruga».
«E la tartaruga su cosa poggia?»
«Su un’altra tartaruga».
«E quest’altra tartaruga su cosa poggia?»
«Su un’altra tartaruga».
«E questa?»
«Di lí in poi sono tutte tartarughe, sir» rispose l’indiano.
– E cosa significa?
– Che ci sono cose che gli uomini conoscono, altre invece a cui si crede e basta. Si crede in ciò che non si sa. Come diceva il vecchio Moke, non conosciamo dio. Possiamo solo credere in lui.
Vedete quanti modi diversi ci sono di pensare a dio e quante divinità differenti esistono. Tutte le popolazioni del mondo hanno un dio a cui rivolgere le loro preghiere e questo dio può avere forme diverse, carattere diverso, comportamenti diversi. A volte il dio può essere unico, e in questo caso si chiamano religioni monoteiste, come quelle del Mediterraneo: l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam. In altri casi gli dèi possono essere molti, come nel caso dell’induismo, la religione praticata da molti indiani e allora si parla di religioni politeiste.
I cristiani credono che l’anima, dopo la morte, vada nell’aldilà. Gli induisti, invece, pensano che l’anima di un uomo, dopo la sua morte, ritorni sulla terra e riviva in un altro uomo, donna o animale.
– C’è anche chi non crede in nessun dio?
– Sí, sono gli atei e anche quello, in fondo, è un modo di credere in qualcosa. Il problema è quando qualcuno pretende che il suo dio sia l’unico possibile e che tutti gli altri abbiano torto e allora vuole imporre agli altri la sua religione. Se gli uomini fossero piú tolleranti, non ci sarebbero scontri per la religione. Basterebbe che ognuno fosse libero di pregare il proprio dio, come vuole. I cristiani pregano congiungendo le mani, i musulmani inchinandosi con il capo rivolto in direzione della Mecca, la città santa dell’Islam, in Africa si suonano i tamburi e si danza per pregare, presso alcune popolazioni si fanno sacrifici di animali. Per i cristiani il giorno di festa è la domenica, per i musulmani il venerdí e gli ebrei riposano il sabato. Vedete quante differenze? Però questo non significa che non si possa andare d’accordo.
Un giorno di molti anni fa mi recai sul Monte Sion a Gerusalemme. In quel periodo c’era una guerra in quella regione. Arrivato alla base del monte, vidi scendere tre anziani. Uno dei tre era Amadou, un africano musulmano che avevo incontrato già una volta in un convegno. Quando mi vide il suo volto si aprí in un largo sorriso, mi venne incontro e mi salutò calorosamente e mi presentò i suoi due compagni: uno era un p...

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