L'insicurezza sociale
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L'insicurezza sociale

Che significa essere protetti?

Robert Castel, Mario Galzigna, Maddalena Mapelli

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L'insicurezza sociale

Che significa essere protetti?

Robert Castel, Mario Galzigna, Maddalena Mapelli

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Un senso d'insicurezza domina le nostre vite. Temiamo di venir aggrediti per strada o in casa. Paventiamo di perdere il lavoro, di non ottenere la pensione, di cadere malati senza poterci curare. È vero che le protezioni dalla violenza e dai rischi dell'esistenza sono ancor oggi piú elevate di quanto non fossero un secolo fa. Accade però che ambedue i generi di protezione vengano oggi erosi da un'ideologia che attribuisce solo all'individuo la responsabilità dei suoi mali, e da un sistema produttivo che divide le persone - classificazione abbietta - in vincitori e vinti. Per accrescere la sicurezza materiale dei beni e delle persone, nota l'autore, bisogna difendere lo Stato di diritto. Per contrastare l'insicurezza dinanzi al futuro occorre salvare lo Stato sociale, dotandolo della capacità di far fronte alle contingenze generate dalla ipermobilità del lavoro e dall'anarchia dei mercati. A ricondurre entro limiti ragionevoli l'una e l'altra dovrebbe provvedere, potremmo aggiungere, lo Stato senza aggettivi. Luciano Gallino

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Capitolo quinto

Come combattere l’insicurezza sociale?

In che cosa potrebbe consistere una tale redistribuzione? Come ricomporre protezioni che imporrebbero dei principî di stabilità e dei dispositivi di sicurezza in un mondo che si confronta in maniera nuova con l’incertezza del domani? È senza dubbio la grande sfida che dobbiamo raccogliere oggi, e non è sicuro che saremo in grado di farlo. Non si avrà la pretesa di fornire qui risposte circostanziate a questi interrogativi, che ci introducono alla ricerca di formule nuove piuttosto che farci approdare a delle certezze. Ma possiamo tentare di precisare le poste in gioco di tali interrogativi limitandoci ai due principali settori che sono stati finora esplorati: quello della protezione sociale propriamente detta e quello della sicurezza delle condizioni di lavoro e dei percorsi professionali1.
Riconfigurare le protezioni sociali.
Ecco dunque, in primo luogo, il dominio della protezione sociale propriamente detta, che in molti paesi corrisponde a ciò che noi chiamiamo «previdenza sociale» (assicurazioni contro la malattia, l’invalidità, gli infortuni sul lavoro, la disoccupazione e la vecchiaia, oltre che assegni familiari e assistenza sociale). A partire dall’inizio degli anni Ottanta, diverse politiche di inserimento e di «lotta contro le esclusioni» hanno affiancato la previdenza sociale. Le trasformazioni che si osservano da una ventina d’anni a questa parte non hanno assunto i tratti di una rivoluzione brutale. Il sistema resta largamente dominato dalle assicurazioni connesse al lavoro e finanziate dai contributi prelevati sul lavoro. Tuttavia, sono apparse difficoltà crescenti e problematiche nuove, che rimettono in discussione l’egemonia di questo genere di protezioni.
Dapprima il blocco finanziario. Il finanziamento del sistema viene profondamente destabilizzato: da un lato dalla disoccupazione di massa e dalla precarizzazione delle relazioni di lavoro, dall’altro lato dalla riduzione della popolazione attiva per ragioni demografiche e dall’allungamento della speranza di vita. Come sostiene Denis Olivennes, una minoranza di soggetti attivi correrebbe ben presto il rischio di versare contributi per una maggioranza di soggetti inattivi2.
Ma la contestazione, al di là dell’argomentazione finanziaria, riguarda anche le modalità di funzionamento del sistema e la sua incapacità di prendere in carico tutti coloro che sono in rottura con il mondo del lavoro. Paradossalmente, la protezione sociale classica renderebbe cosí piú profondo lo scarto tra una collettività che può continuare a beneficiare di protezioni forti – concesse in modo incondizionato, poiché corrispondono a diritti provenienti dal lavoro – e il flusso crescente di tutti gli individui che non riescono a inscriversi in questi sistemi di protezione oppure se ne distaccano. Piú profondamente della questione del finanziamento, diventa allora determinante la struttura stessa di questo tipo di protezioni: tale struttura le renderebbe inadatte a considerare la diversità delle situazioni e dei profili degli individui in attesa di protezione, dal momento che poggia sulla costituzione di categorie omogenee e stabili di popolazione e sulla concessione di prestazioni automatiche e anonime.
A partire da queste constatazioni, si è visto svilupparsi, da una ventina d’anni, ciò che potrebbe ben rappresentare un nuovo regime della protezione sociale rivolto agli emarginati delle protezioni classiche. Il nuovo regime si è progressivamente sistemato ai margini del sistema, promuovendo in successione le seguenti misure: moltiplicazione dei minimi sociali, concessi a soggetti che siano nelle condizioni di possedere risorse; sviluppo di politiche locali di inserimento e di politiche urbane; sviluppo di dispositivi di aiuto all’impiego, di soccorso ai piú deprivati e di «lotta contro l’esclusione». Queste disposizioni non hanno obbedito a un piano d’insieme, ma sembrano tuttavia disegnare un nuovo referenziale di protezioni molto diverso da quello della proprietà sociale, caratterizzata dall’egemonia delle protezioni incondizionate fondate sul lavoro. Bruno Palier sintetizza cosí l’opposizione dei due registri:
Apertura generalizzata ed egalitaria versus scissione e discriminazione positiva; prestazioni uniformi versus definizioni delle prestazioni a partire dai bisogni sociali; settori separati gli uni dagli altri (malattia, infortuni sul lavoro, vecchiaia, famiglia) versus trattamento trasversale dell’insieme dei problemi sociali incontrati da una stessa persona; amministrazione centralizzata nella gestione di un rischio o di un problema versus partenariato contrattualizzato con l’insieme degli attori (amministrativi, politici, associativi, economici) capaci di intervenire; «amministrazione di gestione» versus «amministrazione di missione»; «centralizzazione e amministrazione piramidale» versus «decentralizzazione e territorializzazione»3.
Un’implicazione importante di questi cambiamenti è l’introduzione di una certa flessibilità nel regime delle protezioni. Questi nuovi interventi sociali si caratterizzano in effetti per la loro diversificazione, pensati come sono per adattarsi alla specificità dei problemi delle popolazioni prese in carico e, al limite, per adattarsi a una individualizzazione della loro messa in opera. Due termini, assenti nel dizionario delle protezioni classiche, occupano un posto strategico in queste nuove operazioni: il contratto e il progetto. La realizzazione del salario minimo d’inserimento a partire dal 1988 esemplifica bene lo spirito di questo nuovo regime di protezioni. Il suo ottenimento dipende in primo luogo dall’attivazione di un «contratto di inserimento», attraverso il quale il beneficiario si impegna nella realizzazione di un progetto. Il contenuto di questo progetto è definito tenendo conto della situazione particolare del beneficiario e delle sue personali difficoltà. Ugualmente, le politiche territoriali – che culminano oggi nella «politica della città» e che a partire dai primi anni Ottanta sono state attivate nei quartieri sfavoriti in nome dell’inserimento – si appoggiano su progetti locali che implicano la mobilitazione degli abitanti e dei differenti partner della comunità. Questa tendenza all’implicazione personale degli utenti ispira anche, sempre di piú, le politiche di lotta contro la disoccupazione (si veda il recente avvio del Pare4, che stimola – o meglio impone – la partecipazione attiva dei disoccupati alla ricerca di un impiego). In tutte queste nuove procedure, si tratta di passare dalla fruizione passiva delle prestazioni sociali, concesse in modo automatico e incondizionato, a una mobilitazione dei beneficiari che devono partecipare a una loro personale riabilitazione. «Attivazione delle spese passive», come si usa dire, ma che passa anche attraverso un’attivazione delle persone coinvolte.
Queste trasformazioni obbediscono a una logica d’insieme. Si tratta di politiche che tendono all’individualizzazione delle protezioni, in linea con la grande trasformazione sociale da noi sottolineata, attraversata anch’essa da processi di decollettivizzazione o di reindividualizzazione. In questo senso, tali politiche si presentano come una risposta alla crisi dello Stato sociale, il cui funzionamento centralizzato, che amministra regole universali e anonime, si dimostrerebbe inadeguato all’interno di un universo sempre piú mobile e diversificato. La nuova economia delle protezioni, si dirà, esige che si ritorni, al di là della statalizzazione del sociale, a un’assunzione di queste situazioni particolari e, al limite, dei singoli individui.
Questo spostamento, tuttavia, ha un costo, e almeno per due ragioni possiamo chiederci se non sia troppo elevato. In primo luogo, portato al limite, lo spostamento implica un ricentramento delle protezioni su popolazioni poste al di fuori del regime comune poiché soffrono di un handicap, intendendo questo termine in senso lato: situazioni di grande povertà, deficit diversi – fisici, psichici o sociali –, «inimpiegabilità», eccetera. Protezione significherebbe qui presa in carico degli sventurati. Non basta certo denominare tali nuove misure «discriminazione positiva» per cancellare la stigmatizzazione negativa che viene sempre assegnata a questo tipo di provvedimenti.
Ciò nonostante, si dirà, queste nuove protezioni rompono con la tradizionale deresponsabilizzazione dell’assistenza, nella misura in cui promuovono una mobilitazione dei beneficiari, spinti a farsi carico di se stessi. Di fatto, il contratto di inserimento, ad esempio, che assegna un reddito minimo di inserimento (Rmi)5 ben rappresenta un provvedimento originale e allettante, poiché coinvolge la partecipazione del beneficiario, che sarà accompagnato e aiutato nella realizzazione del suo progetto personale. Ma queste intenzioni rispettabili sottovalutano la difficoltà e spesso la mancanza di realismo insite in questo richiamo alle risorse degli individui, trattandosi di individui che mancano, per l’appunto, proprio di risorse. È paradossale che attraverso queste diverse misure di attivazione si chieda molto a coloro che hanno poco e spesso si chieda di meno a coloro che hanno molto. Non ci si deve sorprendere, perciò, se la riuscita effettiva di queste iniziative sia piuttosto l’eccezione che la regola. Cosí, i numerosi rapporti di valutazione dell’Rmi mostrano che piú della metà dei beneficiari non passa al contratto, che nella maggior parte dei casi l’Rmi serve soprattutto come «una boccata di ossigeno che migliora marginalmente le condizioni di vita dei beneficiari senza poterle trasformare»6, e che solo il 10 per cento dei casi, o al massimo il 15 per cento, ha raggiunto la meta di un «inserimento professionale», ottenendo cioè un impiego, stabile o piú spesso precario. Allo stesso modo, le politiche di inserimento territoriale dànno dei risultati molto modesti dal punto di vista della partecipazione attiva degli utenti7.
Tali constatazioni non implicano nessuna condanna di questi tentativi di inventare nuove protezioni. Al contrario, senza queste misure la situazione delle diverse categorie di vittime della crisi della società salariale avrebbe subito un degrado ancor maggiore. Si può dunque – e a mio avviso si deve – difendere l’Rmi, le politiche della città e i minimi sociali, interrogandosi al tempo stesso sulla loro portata. Da questo punto di vista, è escluso che i minimi sociali, cosí come sono realizzati oggi, possano rappresentare un’alternativa globale alle protezioni precedentemente elaborate contro i principali rischi sociali, a meno di non sanzionare un’incredibile regressione della problematica delle protezioni: riducendo cioè la protezione sociale a un aiuto, spesso di mediocre qualità, riservato ai piú deprivati.
Senza dubbio nessuno, a dire il vero, difende questa posizione nella sua forma estrema. Se il sistema di protezioni «tiene» ancor oggi, è perché ampie frange, le piú estese, sono ancora dominate da coperture assicurative concesse senza valutare lo stato delle risorse dei loro beneficiari8. Ma questo significa che tali nuove misure non sono riuscite a superare la dualizzazione – spesso imputata alla protezione classica – tra coperture contro i rischi sociali, efficaci nella misura in cui sono legate a condizioni stabili di lavoro, e un ventaglio di aiuti piú o meno circostanziato, corrispondente alla diversità delle situazioni di deprivazione sociale. In questi ultimi vent’anni si è di fatto assistito a una trasformazione profonda, nel senso di una degradazione, della concezione della solidarietà. Al limite, non si tratterebbe piú di proteggere collettivamente l’insieme dei membri della società contro i principali rischi sociali. Le spese di solidarietà, di cui lo Stato continuerebbe ad avere la responsabilità, si indirizzerebbero preferenzialmente a quel settore residuale della vita sociale popolato dai «piú deprivati». Essere protetto significherebbe allora essere appena dotato del minimo di risorse, necessarie per sopravvivere in una società che limiterebbe le sue ambizioni ad assicurare un servizio minimo contro le forme estreme della deprivazione. Una tale dicotomia nel regime delle protezioni sarebbe rovinosa per la coesione sociale9.
Non è facile dire come si potrebbe superarla. Ma una prima ragione del carattere profondamente insoddisfacente della situazione attuale riguarda la frammentazione delle nuove misure che da vent’anni a questa parte sono state prese una alla volta: misure che a volte si sovrappongono, a volte lasciano sussistere zone opache, che sono zone di non diritto. Una prima serie di riforme dovrebbe garantire una continuità dei diritti, al di là della diversità di situazioni che generano non soltanto pregiudizi materiali, ma anche discontinuità nella distribuzione delle prestazioni e arbitrarietà nella loro attribuzione: che un regime omogeneo di diritti ricopra ambiti della protezione indipendenti da coperture assicurative collettive, è una proposta che ha il merito del realismo, che implica costi ragionevoli e difficoltà tecniche di applicazione del tutto superabili10.
Una seconda questione, piú difficile e ambiziosa, consiste nell’interrogarsi sulla natura e sulla consistenza di questi nuovi diritti. È un vecchio dibattito, che si è sempre focalizzato sul diritto ai sussidi. Il fatto che certi sussidi derivino dal diritto (è il caso della Francia dopo le leggi di assistenza della Terza Repubblica) non esclude che la loro accessibilità sia subordinata a una valutazione del beneficiario, che deve dimostrare di essere in una condizione di bisogno per beneficiare dei sussidi. Di piú: le prestazioni cosí distribuite devono sempre essere inferiori a quelle assicurate dal lavoro (la less eligibility degli anglosassoni). Alexis de Tocqueville – che non era certo un difensore dello Stato sociale – sottolinea con forza la differenza tra due tipi di diritti e scrive queste righe anche contro la «carità legale» degli inglesi: «I diritti ordinari sono conferiti agli uomini in funzion...

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