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L'anello forte
La donna: storie di vita contadina
Nuto Revelli
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L'anello forte
La donna: storie di vita contadina
Nuto Revelli
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Dare una voce alla donna della campagna povera e meno povera perché finalmente scriva la sua storia. Questo libro segna un'altra tappa dell'appassionato impegno civile di Nuto Revelli. Sette anni di lavoro, centinaia di testimonianze. Il racconto delle «Madri Coraggio» di un mondo sommerso.
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Topic
Personal DevelopmentSubtopic
Self ImprovementLe Langhe
Il cane o la macchinetta
ROSALIA STERPONE vedova FORNO, nata a Neviglie, classe 1892.
(28 novembre 1980 - Forno Teresa vedova Dacomo, Franca Dacomo).
Noi abbiamo sempre fatto i mezzadri, a Neviglie, Castiglione Tinella, Treiso, e ad Agliano dâAsti dove sono andata da sposa. Mio padre Ăš vissuto e morto da mezzadro, e mio marito anche.
La mia era una famiglia povera. Se mi ricordo di quando ero bambina? Quando avevo sette anni stavamo sotto il signor Ettore, un tale che aveva sposato una donna ricca ma piĂș vecchia di lui, una donna che aveva tante cascine, cento giornate, tanti masuĂ© e de s-ciavensa1, e lui la picchiava sempre. Questo signor Ettore aveva un alloggio in Alba, dove manteneva una morosa, la bagasa2. Tutti i sabati mi faceva partire a piedi da Treiso con âl cavagnin3, due bottiglie di vino e la roba da mangiare per la bagasa. Mi dava tre soldi perchĂ© al dazio di Alba dovevo pagare, e al dazio mi restituivano due centesimi di resto. Venti chilometri mi facevo a piedi per andare e tornare da Alba, e come ritornavo lui mi chiedeva sempre i due centesimi del resto.
Questo signor Ettore aveva una bella nipote, una ragazzina che veniva lĂ dâestate in campagna, e lui lâaccompagnava a raccogliere i funs4, e quando poi questa nipote Ăš ritornata in cittĂ era venuta grassa, era incinta. Allora i due fratelli della ragazza hanno aspettato il signor Ettore in Alba, e gli hanno sparato cinque colpi, ma non lâhanno ammazzato, lâhanno soltanto ferito. CâĂš poi stato âl debat5, ed il signor Ettore Ăš stato condannato a sei anni di prigione per aver messo incinta una minorenne. CosĂ tutte le mattine io prendevo la mia cesta e gli portavo da mangiare in prigione. Sua moglie era gofa6, gli mandava da mangiare tutti i giorni. Io mi presentavo alla prigione, consegnavo il mangiare, e chiedevo: «Cosa vuole mangiare il signor Ettore domani?» Le guardie mi davano un biglietto con sopra scritto cosa il padrone ordinava, ed io tornavo a casa. [âŠ].
Mi ricordo ancora della prima automobile che Ăš arrivata a Treiso. Mio papĂ mi ha accompagnata in piazza a vederla, ân cartun sensa cavai7, era del 1900. [âŠ].
Mi sono sposata a sedici anni. Mi hanno sposata. Câera âl bacialĂ©, âl rablau, Bergamasco Lorenzo si chiamava: era un contadino che faceva anche il mestiere del bacialĂ©. Mi hanno sposata con un uomo del 1886, di Agliano dâAsti, un uomo che mi ha sposata per avere una donna che gli tenesse la casa: lui viveva con un suo fratello e una sorellina giovane.
Il giorno delle nozze â era il 15 febbraio del 1908 â câera la neve alta un metro a Castiglione Tinella. Siamo partiti alle undici, subito dopo il matrimonio, io e lui a piedi, e siamo arrivati alle quattro del pomeriggio ad Agliano dâAsti, ci saranno venti chilometri, io ero una bambina, avevo la vesta lunga da sposa e sono arrivata lĂ che ero bagnata fino alle ginocchia. Câera la tavola pronta per un piccolo pranzo, il pranzo grosso lâavevamo giĂ fatto quando lui era venuto a piĂ© âl cuntent8.
Se avevo portato âl fardel? SĂ sĂ, una dozzina e mezza di camicie di canapa, dure e ruvide.
Eravamo masuĂ©, il nostro padrone era un certo Serra, che aveva anche unâaltra cascina che conduceva lui. Eh, una volta i padroni erano splurciun9. Lavoravamo venticinque giornate di terra in parte a vigna. Nella stalla i due buoi da lavoro, e la vacca per il latte. Alla fine dellâannata non avevamo un soldo di profitto. Eravamo mezzadri, ma non prendevamo la metĂ : prendevamo solo un terzo di tutto, e le spese erano nostre. Piantavamo anche due filari di fragole, ma le fragole erano tutte del padrone. [âŠ].
Nel 1910 ho comprato la prima bambina, Teresa. Nel 1912, quando ho comprato la seconda, Rinalda, ero sola in casa, stavo stendendo la roba alla finestra, lâho comprata da sola, tutto al freddo, era di febbraio, era un giorno di nebbia. La bambina ha preso del freddo, le ho fatto i papin e le puntĂŒre10, ma aveva la bronchite e la polmonite, ed Ăš morta dopo quindici giorni.
Io avevo tanto latte, e per toglierlo ho preso ân cagnulin, e lo mettevo attaccato al seno e lui succhiava. Ma il cagnetto mi mordeva, mgnu, mgnu, mgnu, mi rosicchiava ed usciva tanto sangue, mi ha strappato il capezzolo succhiando, un male⊠Oh erano tante le donne che facevano cosĂ, che si facevano togliere il latte da un cagnetto. O il cane o la macchinetta.
Poi aspettavo la bambina di unâaltra donna, lâavrei presa a beilĂ©11, ma quella bambina Ăš morta. Io avevo il latte tanto spesso, che mi faceva i dĂŒrun12. Allora ho preso ân ventĂŒrin13, lâho tenuto tre mesi e mezzo, mi pagavano quindici lire al mese, poi un giorno sono svenuta e mi hanno ricoverata allâospedale. Sono svenuta perchĂ© la sorellina di mio marito nel porgermi il bambino mi ha dato un colpo con la mano sul seno, cosĂ il latte invece di uscire fuori Ăš girato dentro. A Torino, allâospedale, mi hanno fasciata stretta: lâindomani non avevo piĂș niente, il seno era piatto, ed io ero contenta. Ma dopo due giorni ho perduto la vista, e anche lâudito. Un occhio lâho perduto per sempre, e sono completamente sorda fin da allora. [âŠ].
Eh, i giovani di oggi non sanno. A volte mi dico: «Guai se tante spose di adesso provassero cosa ho provato io». Lei se sente una sposa di oggi a lamentarsi di qualcosa le dica che stia zitta, che stia solo zitta, che una volta in confronto di adesso⊠[âŠ].
Comâerano gli uomini di allora? Erano bravi, lavoravano. Andavano tanto a ballare, si ubriacavano, eh, le case erano sempre piene di bambini, ah una voltaâŠ, si prendevano solo quel piacere lĂ. [âŠ].
La cantina lâavevano in casa, invitavano quelli della loro categoria, bevi tu che bevo io, bevevano fino che erano ubriachi. Poi per tornare in casa non vedevano nemmeno piĂș la scala. [âŠ].
A ballare andavano in una grande sala, andavano anche le donne vecchie a ballare. Nel centro della sala câera un tavolo a sei gambe, e su quel tavolo si sistemava lâorchestra. Io non andavo a ballare, quando gli altri erano a divertirsi sul ballo io giravo attorno alla mia casa perchĂ© nessuno mi rubasse le galline. [âŠ].
Comâera la donna di campagna? Era niente, girava sempre pei âd na soma, na soma da tir14, lavorava giorno e notte. Quando sono nata mio papĂ ha detto: «Buttatela giĂș dalla finestra, che lâĂ© mac na matota»15. Lâha detto per scherzare, «Ah, co ne fuma de âste lĂŒccie»16. Una volta le donne non mangiavano mica sedute a tavola: mangiavu sempre ântel cantun del fö17.
Poi Ăš venuta la guerra del â15. Mio cognato Ăš partito soldato, e anche mio marito Ăš andato alla guerra. Io ero incinta di sei mesi. Allora ho dovuto chiudere lâuscio. Ero sola e malata, e mia mamma Ăš venuta a prendermi. Ho svenduto il vino a dodici lire la brenta, una barbera che faceva tanti gradi. Ho svenduto tutto. Sono rimasta con cento lire in tasca. Il governo dava sei soldi per i bambini al giorno, e dodici soldi per me. A volte dicono a parlare della guerra⊠[âŠ].
Le masche? Io avevo dieci anni quando mio fratello ha visto le masche. Mio papĂ arriva a casa e dice a mio fratello: «Prendi âsta cagna e vaâ per tartufi». Erano le due dopo mezzogiorno. Lui si incammina, va nei dintorni di Treiso, poi alla sera alle sei, nel buio, il cane torna da solo a casa piangendo, fa ih, ih, ih, come a dirci che a mio fratello Ăš successa una disgrazia. Allora tutta la gente si mobilita e incomincia a cercarlo. Mio fratello, per tornare a casa, era passato ai Canta, una borgata di Cappelletto, vicino alle Rocche dei Sette Fratelli: lĂ câera un pilone perchĂ© era un posto da masche, lâavevano costruito apposta quel pilone per tenere lontane le masche. Dopo i Canta mio fratello era arrivato fino ai Giaccone, e lĂ si era trovato che non poteva piĂș muoversi, non poteva parlare, non poteva gridare, e vedeva una cosa grande, come un muro di fronte a lui⊠Non poteva passare. Lâhanno trovato lĂ fermo che piangeva. Mio padre lâha preso in braccio e lâha portato a casa. Aveva ancora i tartufi in mano, li aveva nel fazzoletto, in quel fazzoletto che si portava attorno al collo. Mi viene ancora freddo adesso a raccontare. Questo mio fratello, quando ha poi avuto settantâanni, poco prima che morisse, Ăš ancora venuto a trovarmi. «Oh, âmnâavis»18, mi ha detto: mi ha di nuovo raccontato quella storia, ed aveva ancora paura a parlarne.
Una volta nella Val Granda, sempre dalle parti di Treiso, câera una cascina grossa e lĂ abitava il padrone, Carlu i ciamavu19, e questo signore aveva preso un servitore, ân virulun20 che dormiva dentro nâarbi21 su un poâ di paglia sotto il portico.
Nella Val Granda câera na sersera, tĂŒti sars22, e tutte le notti da lĂ si sentiva chiamare «Carloo, oh Carloo», ma forte, a struniva la valada23 e si vedeva nessuno.
Questo padrone, Carlu âd Val Granda, era innocente. Ă andato dal parroco, che era un uomo forte, un prete zoppo. Ed il parroco gli ha detto: «Stasera vaâ a vedere il servitore quando dorme se ha i libri». Allora Carlo nella notte Ăš andato a vedere, e il servitore non câera. Ha guardato sotto la paglia e lĂ câerano tanti liber del cumand24. Era il servitore che faceva âste voci, che urlava dal campo dei salici. In tanti lâhanno cercato e preso, lâhanno svestito bele patanĂŒ25, poi glienâhanno date tante, lâhan slacalu ben ben26, poi lâhanno legato a un salice. Lâhanno ammazzato di botte quel servitore. Poi lâhanno portato tra quattro assi al cimitero di Treiso, il cimitero era nuovo, il primo morto Ăš stato lui. Se io andassi adesso al cimitero so dove Ăš sepolto. Io lo conoscevo quel servitore, non mi ricordo piĂș il suo nome. Oh, era un giovane.
Il parroco ha fatto portare i libri in piazza. Io andavo ancora a scuola, avevo undici anni, ed ho visto tutto. Un poâ di paglia ed i libri sopra, câera tutta la gente del paese, tic tac, i libri schioppettavano come i mortaretti. [âŠ]. Eh, quel parroco ha poi fatto una brutta fine, Ăš scappato in Francia con una sua morosa perchĂ© lei era incinta. [âŠ].
Oh, la vita Ăš lunga, se uno pensa quello che ha passato guai, io penso, io penso⊠[âŠ]. Io ho pianto dodici anni per la guerra, quattro anni per il mio uomo e poi otto anni per mio figlio. IâhĂ© p...