L'anello forte
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L'anello forte

La donna: storie di vita contadina

Nuto Revelli

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L'anello forte

La donna: storie di vita contadina

Nuto Revelli

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Dare una voce alla donna della campagna povera e meno povera perché finalmente scriva la sua storia. Questo libro segna un'altra tappa dell'appassionato impegno civile di Nuto Revelli. Sette anni di lavoro, centinaia di testimonianze. Il racconto delle «Madri Coraggio» di un mondo sommerso.

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2015
ISBN
9788858415757

Le Langhe

Il cane o la macchinetta

ROSALIA STERPONE vedova FORNO, nata a Neviglie, classe 1892.

(28 novembre 1980 - Forno Teresa vedova Dacomo, Franca Dacomo).

Noi abbiamo sempre fatto i mezzadri, a Neviglie, Castiglione Tinella, Treiso, e ad Agliano d’Asti dove sono andata da sposa. Mio padre ù vissuto e morto da mezzadro, e mio marito anche.
La mia era una famiglia povera. Se mi ricordo di quando ero bambina? Quando avevo sette anni stavamo sotto il signor Ettore, un tale che aveva sposato una donna ricca ma piĂș vecchia di lui, una donna che aveva tante cascine, cento giornate, tanti masuĂ© e de s-ciavensa1, e lui la picchiava sempre. Questo signor Ettore aveva un alloggio in Alba, dove manteneva una morosa, la bagasa2. Tutti i sabati mi faceva partire a piedi da Treiso con ’l cavagnin3, due bottiglie di vino e la roba da mangiare per la bagasa. Mi dava tre soldi perchĂ© al dazio di Alba dovevo pagare, e al dazio mi restituivano due centesimi di resto. Venti chilometri mi facevo a piedi per andare e tornare da Alba, e come ritornavo lui mi chiedeva sempre i due centesimi del resto.
Questo signor Ettore aveva una bella nipote, una ragazzina che veniva lĂ­ d’estate in campagna, e lui l’accompagnava a raccogliere i funs4, e quando poi questa nipote Ăš ritornata in cittĂ  era venuta grassa, era incinta. Allora i due fratelli della ragazza hanno aspettato il signor Ettore in Alba, e gli hanno sparato cinque colpi, ma non l’hanno ammazzato, l’hanno soltanto ferito. C’ù poi stato ’l debat5, ed il signor Ettore Ăš stato condannato a sei anni di prigione per aver messo incinta una minorenne. CosĂ­ tutte le mattine io prendevo la mia cesta e gli portavo da mangiare in prigione. Sua moglie era gofa6, gli mandava da mangiare tutti i giorni. Io mi presentavo alla prigione, consegnavo il mangiare, e chiedevo: «Cosa vuole mangiare il signor Ettore domani?» Le guardie mi davano un biglietto con sopra scritto cosa il padrone ordinava, ed io tornavo a casa. [
].
Mi ricordo ancora della prima automobile che ù arrivata a Treiso. Mio papà mi ha accompagnata in piazza a vederla, ’n cartun sensa cavai7, era del 1900. [
].
Mi sono sposata a sedici anni. Mi hanno sposata. C’era ’l bacialĂ©, ’l rablau, Bergamasco Lorenzo si chiamava: era un contadino che faceva anche il mestiere del bacialĂ©. Mi hanno sposata con un uomo del 1886, di Agliano d’Asti, un uomo che mi ha sposata per avere una donna che gli tenesse la casa: lui viveva con un suo fratello e una sorellina giovane.
Il giorno delle nozze – era il 15 febbraio del 1908 – c’era la neve alta un metro a Castiglione Tinella. Siamo partiti alle undici, subito dopo il matrimonio, io e lui a piedi, e siamo arrivati alle quattro del pomeriggio ad Agliano d’Asti, ci saranno venti chilometri, io ero una bambina, avevo la vesta lunga da sposa e sono arrivata lĂ  che ero bagnata fino alle ginocchia. C’era la tavola pronta per un piccolo pranzo, il pranzo grosso l’avevamo giĂ  fatto quando lui era venuto a piĂ© ’l cuntent8.
Se avevo portato ’l fardel? Sí sí, una dozzina e mezza di camicie di canapa, dure e ruvide.
Eravamo masuĂ©, il nostro padrone era un certo Serra, che aveva anche un’altra cascina che conduceva lui. Eh, una volta i padroni erano splurciun9. Lavoravamo venticinque giornate di terra in parte a vigna. Nella stalla i due buoi da lavoro, e la vacca per il latte. Alla fine dell’annata non avevamo un soldo di profitto. Eravamo mezzadri, ma non prendevamo la metĂ : prendevamo solo un terzo di tutto, e le spese erano nostre. Piantavamo anche due filari di fragole, ma le fragole erano tutte del padrone. [
].
Nel 1910 ho comprato la prima bambina, Teresa. Nel 1912, quando ho comprato la seconda, Rinalda, ero sola in casa, stavo stendendo la roba alla finestra, l’ho comprata da sola, tutto al freddo, era di febbraio, era un giorno di nebbia. La bambina ha preso del freddo, le ho fatto i papin e le puntĂŒre10, ma aveva la bronchite e la polmonite, ed Ăš morta dopo quindici giorni.
Io avevo tanto latte, e per toglierlo ho preso ’n cagnulin, e lo mettevo attaccato al seno e lui succhiava. Ma il cagnetto mi mordeva, mgnu, mgnu, mgnu, mi rosicchiava ed usciva tanto sangue, mi ha strappato il capezzolo succhiando, un male
 Oh erano tante le donne che facevano cosí, che si facevano togliere il latte da un cagnetto. O il cane o la macchinetta.
Poi aspettavo la bambina di un’altra donna, l’avrei presa a beilĂ©11, ma quella bambina Ăš morta. Io avevo il latte tanto spesso, che mi faceva i dĂŒrun12. Allora ho preso ’n ventĂŒrin13, l’ho tenuto tre mesi e mezzo, mi pagavano quindici lire al mese, poi un giorno sono svenuta e mi hanno ricoverata all’ospedale. Sono svenuta perchĂ© la sorellina di mio marito nel porgermi il bambino mi ha dato un colpo con la mano sul seno, cosĂ­ il latte invece di uscire fuori Ăš girato dentro. A Torino, all’ospedale, mi hanno fasciata stretta: l’indomani non avevo piĂș niente, il seno era piatto, ed io ero contenta. Ma dopo due giorni ho perduto la vista, e anche l’udito. Un occhio l’ho perduto per sempre, e sono completamente sorda fin da allora. [
].
Eh, i giovani di oggi non sanno. A volte mi dico: «Guai se tante spose di adesso provassero cosa ho provato io». Lei se sente una sposa di oggi a lamentarsi di qualcosa le dica che stia zitta, che stia solo zitta, che una volta in confronto di adesso
 [
].
Com’erano gli uomini di allora? Erano bravi, lavoravano. Andavano tanto a ballare, si ubriacavano, eh, le case erano sempre piene di bambini, ah una volta
, si prendevano solo quel piacere lí. [
].
La cantina l’avevano in casa, invitavano quelli della loro categoria, bevi tu che bevo io, bevevano fino che erano ubriachi. Poi per tornare in casa non vedevano nemmeno piĂș la scala. [
].
A ballare andavano in una grande sala, andavano anche le donne vecchie a ballare. Nel centro della sala c’era un tavolo a sei gambe, e su quel tavolo si sistemava l’orchestra. Io non andavo a ballare, quando gli altri erano a divertirsi sul ballo io giravo attorno alla mia casa perchĂ© nessuno mi rubasse le galline. [
].
Com’era la donna di campagna? Era niente, girava sempre pei ’d na soma, na soma da tir14, lavorava giorno e notte. Quando sono nata mio papĂ  ha detto: «Buttatela giĂș dalla finestra, che l’é mac na matota»15. L’ha detto per scherzare, «Ah, co ne fuma de ’ste lĂŒccie»16. Una volta le donne non mangiavano mica sedute a tavola: mangiavu sempre ’ntel cantun del fö17.
Poi ù venuta la guerra del ’15. Mio cognato ù partito soldato, e anche mio marito ù andato alla guerra. Io ero incinta di sei mesi. Allora ho dovuto chiudere l’uscio. Ero sola e malata, e mia mamma ù venuta a prendermi. Ho svenduto il vino a dodici lire la brenta, una barbera che faceva tanti gradi. Ho svenduto tutto. Sono rimasta con cento lire in tasca. Il governo dava sei soldi per i bambini al giorno, e dodici soldi per me. A volte dicono a parlare della guerra
 [
].
Le masche? Io avevo dieci anni quando mio fratello ha visto le masche. Mio papĂ  arriva a casa e dice a mio fratello: «Prendi ’sta cagna e va’ per tartufi». Erano le due dopo mezzogiorno. Lui si incammina, va nei dintorni di Treiso, poi alla sera alle sei, nel buio, il cane torna da solo a casa piangendo, fa ih, ih, ih, come a dirci che a mio fratello Ăš successa una disgrazia. Allora tutta la gente si mobilita e incomincia a cercarlo. Mio fratello, per tornare a casa, era passato ai Canta, una borgata di Cappelletto, vicino alle Rocche dei Sette Fratelli: lĂ­ c’era un pilone perchĂ© era un posto da masche, l’avevano costruito apposta quel pilone per tenere lontane le masche. Dopo i Canta mio fratello era arrivato fino ai Giaccone, e lĂ­ si era trovato che non poteva piĂș muoversi, non poteva parlare, non poteva gridare, e vedeva una cosa grande, come un muro di fronte a lui
 Non poteva passare. L’hanno trovato lĂ­ fermo che piangeva. Mio padre l’ha preso in braccio e l’ha portato a casa. Aveva ancora i tartufi in mano, li aveva nel fazzoletto, in quel fazzoletto che si portava attorno al collo. Mi viene ancora freddo adesso a raccontare. Questo mio fratello, quando ha poi avuto settant’anni, poco prima che morisse, Ăš ancora venuto a trovarmi. «Oh, ’mn’avis»18, mi ha detto: mi ha di nuovo raccontato quella storia, ed aveva ancora paura a parlarne.
Una volta nella Val Granda, sempre dalle parti di Treiso, c’era una cascina grossa e lí abitava il padrone, Carlu i ciamavu19, e questo signore aveva preso un servitore, ’n virulun20 che dormiva dentro n’arbi21 su un po’ di paglia sotto il portico.
Nella Val Granda c’era na sersera, tĂŒti sars22, e tutte le notti da lĂ  si sentiva chiamare «Carloo, oh Carloo», ma forte, a struniva la valada23 e si vedeva nessuno.
Questo padrone, Carlu ’d Val Granda, era innocente. È andato dal parroco, che era un uomo forte, un prete zoppo. Ed il parroco gli ha detto: «Stasera va’ a vedere il servitore quando dorme se ha i libri». Allora Carlo nella notte Ăš andato a vedere, e il servitore non c’era. Ha guardato sotto la paglia e lĂ­ c’erano tanti liber del cumand24. Era il servitore che faceva ’ste voci, che urlava dal campo dei salici. In tanti l’hanno cercato e preso, l’hanno svestito bele patanĂŒ25, poi glien’hanno date tante, l’han slacalu ben ben26, poi l’hanno legato a un salice. L’hanno ammazzato di botte quel servitore. Poi l’hanno portato tra quattro assi al cimitero di Treiso, il cimitero era nuovo, il primo morto Ăš stato lui. Se io andassi adesso al cimitero so dove Ăš sepolto. Io lo conoscevo quel servitore, non mi ricordo piĂș il suo nome. Oh, era un giovane.
Il parroco ha fatto portare i libri in piazza. Io andavo ancora a scuola, avevo undici anni, ed ho visto tutto. Un po’ di paglia ed i libri sopra, c’era tutta la gente del paese, tic tac, i libri schioppettavano come i mortaretti. [
]. Eh, quel parroco ha poi fatto una brutta fine, Ăš scappato in Francia con una sua morosa perchĂ© lei era incinta. [
].
Oh, la vita Ăš lunga, se uno pensa quello che ha passato guai, io penso, io penso
 [
]. Io ho pianto dodici anni per la guerra, quattro anni per il mio uomo e poi otto anni per mio figlio. I’hĂ© p...

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