Caesar
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Caesar

Antonella Prenner

  1. 400 pages
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Caesar

Antonella Prenner

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49 a. C. Alla luce della luna, una donna dai lunghi capelli sciolti sulle spalle, il viso segnato dal tempo ma intatto nella sua bellezza, tiene tra le mani una lettera. La grafia è quella del suo amante di una vita, Gaio Giulio Cesare, e la voluttà con cui ha vergato il nome di lei, Servilia, è la stessa che a lungo li ha avvinti. Fuori, un vento gelido sferza Roma, vento di tempesta e, forse, presagio di sventura. Varcherà il confine sacro, questo le ha scritto Cesare, il fiume Rubicone che non è concesso oltrepassare armati. Vuol dire una sola cosa: sarà guerra civile, guerra di Romani contro Romani. E il condottiero invincibile, venerato dai suoi legionari, diventerà il primo nemico della Res publica. Servilia lo conosce come nessuno al mondo e sa bene che il ragazzo tutto ossa e sguardo di fuoco, che l'ha conquistata con la sua goffaggine quando era bambina, mai sazio di guerre e di vittorie, di nuovo cerca gloria per sé e grandezza per Roma. E per questo è disposta a seguirlo ancora, come un soldato fedele, mettendo da parte gli affetti familiari e persino la propria reputazione, nelle tappe finali del viaggio di Cesare verso il mito. È attraverso la voce inedita di questa donna volitiva, ambiziosa, a volte sfrontata, che Antonella Prenner ripercorre la vita dell'uomo che ha cambiato il destino di Roma, in bilico tra delirio di onnipotenza, trionfo e tragedia, in un romanzo avvincente e intimo, che intreccia alla grande storia il racconto di un grande amore.

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Information

Publisher
RIZZOLI
Year
2020
ISBN
9788831802284

III

Ignota obscurae viderunt sidera noctes
ardentemque polum flammis caeloque volantes
obliqua per inane faces crinemque timendi
sideris et terris mutantem regna cometen.
Le notti oscure videro stelle sconosciute,
l’etere in fiamme, e luci volare oblique nel cielo
attraverso il vuoto, e la coda dell’astro tremendo,
la cometa, che sulle terre sconvolge i regni.
Lucrezio, De rerum natura
C’è una cometa, da quasi un mese ogni notte brilla sfrontata. Funesta, dicono tutti, una stella che porta sciagura. E perché? È luce che fende l’oscurità, è fuoco che riscalda le regioni più remote del cielo, là dove è buio e freddo, è barlume che consola l’inverno di Roma, è lui. È il suo occhio benevolo sulla città amatissima, severo sugli inetti e sui corrotti che la infestano e scappano in massa come topi, ardente su di me.
Ogni notte tendo la mano, appoggio il palmo alla finestra e afferro il suo riverbero lontano, me lo sfioro addosso fino alla piega ultima della veste, dove il dado, il suo dado, mi offre la sua stella incisa, unico pensiero chiaro tra lettere confuse, e io la accarezzo e poi la schiaccio, e riverso in quei solchi inerti tutta la mia rabbia.
Altre stelle appaiono e scompaiono, nessuno le ha mai viste prima, nessuno le comprende, lo sgomento riempie ogni vicolo, ogni casa, ogni scranno della Curia rimasto vuoto, serpeggia tra le colonne dei templi e intorno ai simulacri degli dèi: ma come si può aver paura delle stelle?
I sacerdoti compiono riti e sacrifici cruenti tra i fumi delle fiaccole, gli àuguri cercano uccelli dal volo propizio, e intanto fulmini d’oro e d’argento squarciano il cielo senza nubi e lo incendiano anche di giorno. Il fulmine è lui, guizzo incandescente di intelletto e di azione.
«Quanti anni hai?»
«Ventuno.»
«Che cosa sai fare?»
«Pascolo le vacche e le mungo, e insieme a mio fratello faccio il formaggio.»
«Sei gracile. Quanti anni ha tuo fratello?»
«Ventiquattro.»
«Chiamalo, verrete con me.»
«Mio fratello è forte, spacca la legna e trasporta pietre sulle spalle, ma quando facciamo a botte, vinco sempre io. Sono più veloce.»
«Arruolateli!» ordina ai due legionari che lo assistono. «Equipaggiamento per due.» Al ragazzo Cesare dà una pacca sulla spalla e passa al successivo, mentre i suoi luogotenenti scelgono altre reclute tra i giovani arrivati a Rimini dalle campagne nella speranza di seguirlo, impazienti di combattere per lui.
Con le sue coorti ha occupato municipi e città, Fano, Ancona, Pisa; per suo ordine, Marco Antonio con cinque legioni ha preso Arezzo, Curione Gubbio, e i soldati, pronti a lanciarsi all’assalto, restano delusi: nessuno mette mano alle armi, nessuno resiste, i pretori fuggono e le popolazioni si consegnano spontaneamente, accolgono il condottiero glorioso e i suoi eserciti, lieti di passare dalla sua parte. Anche le donne e i bambini si fanno incontro alle mura e alle porte, tutti vogliono vederlo, acclamarlo, sentirsi suoi. Ma lui non gioisce, incede sul suo cavallo con gli occhi fissi e mesti, e tutti si chiedono perché.
Giunto a Osimo, Cesare si accampa vicino alla cinta. È imponente, alta e distesa su un colle, e dalla pianura sottostante si intravede la sommità di un tempio. Il suo arrivo viene annunciato da ambasciatori e, nell’attesa di incontrare i decurioni della città, s’incammina lungo le mura con il suo cane, avvolto nel mantello per proteggersi dal vento e dagli sguardi dei viandanti. Batte il terreno con un bastone di olivo, e raffiche improvvise sollevano i lembi dove l’animale, seguendo da vicino il suo passo, cerca riparo. Osserva i blocchi di pietra che si innalzano al cielo scuro di pioggia imminente, e si imbatte in una fonte affollata di schiavi che fanno provviste di acqua prima del maltempo, alcuni per il trasporto conducono i muli. Il cane corre verso i rigagnoli che escono dal basso della vasca e si bagna muso e zampe. Cesare si tiene in disparte, e da dietro la calca scorge una gradinata che sale verso una piccola porta nelle mura.
Proprio in quell’istante, dall’apertura bassa e stretta escono due sentinelle, chinano il capo scoperto per non urtare l’architrave e discendono i gradini verso la fonte, l’elmo sotto un braccio.
Cesare si aggiusta il cappuccio e si avvicina, raccoglie l’acqua nei palmi a coppa e beve, sforzandosi di cogliere i loro discorsi nel rumore della ressa.
«Ero io di turno, proprio quassù, marciavano così veloci che non potevo credere ai miei occhi!»
«E lui galoppava davanti a tutti, da solo.»
«Non ha paura di niente.»
«Dicono che conosce i suoi soldati per nome, che parla con tutti, che mangia lo stesso cibo. E anche che dorme con quelli che gli piacciono di più…» sogghigna uno dei due.
«E se anche fosse? Combatte nella mischia gettandosi per primo, è lui che protegge gli altri!»
«E noi invece stiamo qui fermi a far la guardia. Darei un braccio per essere arruolato anche nell’ultima fila, pur di obbedire a uno così!»
«Impossibile.»
«E perché?»
«Senza un braccio non ti prende!»
Ridono e fanno per tornare verso la scala, ma a uno dei due l’elmo cade in terra.
Cesare lo raccoglie e glielo porge, per un istante i loro sguardi si incontrano.
«Lo conosci?» chiede l’altro, mentre risalgono alle mura. «Hai visto le mani, che pelle bianca?»
«Mai conosciuto prima. Forse sta con lui, magari se l’è portato dalla Gallia come schiavo.»
«L’unico Gallo più basso di me!»
E ridendo, i due scompaiono dietro la porta.
Mi giungono notizie di lui, mi dicono che l’esercito si è ingrossato, che la marcia procede rapida nonostante il freddo, e che ai vecchi legionari esperti del mondo si uniscono le nuove leve bramose di conoscere l’audacia di lui e l’ebbrezza della guerra. Eppure Cesare raccomanda di non combattere, di usare le armi il meno possibile.
«Dove vuole arrivare?» si chiedono i suoi soldati. «A Roma, sì a Roma!», e più arditi seguono i vessilli dai leoni dorati, attraversano il Piceno tra alture e vallate, tra pianori intrisi di fango e clivi innevati, e nelle notti gelide e chiare i calanchi a occidente riflettono il colore della luna.
A Roma si è diffuso il terrore che Cesare si stia dirigendo verso la città. Di notte lo sentono alle porte, le sfonda, la invade di mostri, gli incubi risuonano dei colpi delle armi, il sonno è rotto dai sobbalzi, ma è solo una finestra che sbatte, è solo un tuono, è solo l’ignoranza dei codardi. La ama, mai le farebbe del male.
Il vento infuria, si incunea per le strade, fuori dalle mura corre in vortici paurosi tra la pianura e il cielo di piombo. Una colonna di polvere e di terra nera si solleva nel Campo Marzio; dalle ceneri, proprio dove un tempo il suo cadavere fu cremato, si ricompongono le sembianze di Silla, immane, che violentò Roma penetrando le sue mura con le armi nella guerra più funesta e più cruenta, quella che per la prima volta schierò Romani contro Romani e bagnò l’Italia di sangue fraterno; Silla vincitore e dittatore fino alla fine dei suoi giorni, diritto di vita e di morte nelle sue mani, e a migliaia morirono; Silla nemico acerrimo del popolo e di Gaio Mario, l’uno e l’altro spettri di discordia.
E la pioggia incessante gonfia i fiumi, l’Aniene rompe gli argini e ribolle come mare in tempesta, un’onda più alta delle altre, più delle case dei contadini attoniti, disvela un volto severo fatto di gocce, Mario risorto dalle acque che accolsero il suo corpo dissepolto e dileggiato. Di nuovo vivi, di nuovo l’uno contro l’altro salgono a invadere la luce plumbea del giorno, ma è solo polvere e terra, è solo corrente di fiume, eppure soffiano sui tetti e sui templi i miasmi del sangue che scorrerà in un’altra guerra senza nemici, tutti li vedono, tutti ne sono convinti. È questo che sento dire, che i miei nobili amici mi riferiscono.
Ecco i fantasmi di chi ha perso il senno a forza di no. Vengono consultati anche gli indovini etruschi, come se non ne avessimo abbastanza dei nostri. Questo è arrivato dalla città che porta il nome della luna e riluce del bianco dei marmi, si chiama Arrunte, chissà quanto ci costa la sua arte. Sporco di fango e tormentato dalla pioggia, si curva a terra a esaminare i fuochi lasciati dai fulmini, li seppellisce, mormora le formule dei riti, sembra un medico disperato al capezzale di un corpo infermo. Come se fosse utile curare chi è causa della sua malattia e in essa si ostina.
Sarebbero ancora in tempo ad avere fiducia. Lui ama Roma più di se stesso, più di me.
Arrunte si scosta dal volto i lunghi capelli bagnati, si asciuga gli occhi, a fatica si alza sul suo bastone. Ha sentenziato che bisogna purificare la città: ma da che cosa, da chi?, vorrei chiedergli. E questa mattina alle prime luci il corteo guidato dai pontefici, sotto il temporale, si è mosso a percorrere il cerchio delle mura. Le vestali intonavano cori lamentosi, una ha inciampato nella veste pregna d’acqua ed è stata portata via, i segni di sciagura non finiscono mai, e i sacerdoti Salii percuotevano i sacri scudi, piovuti dal cielo centinaia di anni fa per volere di Marte. Pregavano il dio con parole antichissime che nessuno capisce più.
Bussano alla porta della mia stanza: è mio figlio.
L’ancella mi intreccia i capelli in un’acconciatura complessa e lui mi guarda con disprezzo, sono frivola anche alla mia età, curo una bellezza inutile e sfiorita, mentre Cesare avanza senza lasciare un solo morto sul campo. Mentre la superstizione dilaga e Roma geme per i colpi che nessuno le ha inferto, io mi faccio bella: non sono la madre che Marco Giunio Bruto vorrebbe, sono la sua vergogna.
Un fulmine fende il grigio cupo e fa baluginare i suoi occhi che sembrano ghiaccio, non è mai stato felice, neppure da bambino, come mio fratello. Ha labbra sottili, come me, e capelli del mio stesso colore.
«Non avrai anche tu paura di questi prodigi!» lo accolgo beffarda, indicando il soffitto come se fosse il cielo. «Conta fino a tre, sentirai! Uno, due…» e un fragore violentissimo fa tremare le imposte.
La mia ancella sobbalza con un piccolo urlo e io rido sguaiata contro la natura in rivolta, contro l’ignorante reazione di una serva e contro mio figlio che continua a guardarmi come se gli facessi pena.
«Ma tu hai studiato» riprendo, ostentando serietà, «tu sei un filosofo e niente ti fa paura» e mi volto di spalle per tornare a guardarmi allo specchio.
«Cicerone chiede di incontrarci.»
«Non ho voglia di uscire, piove. Vai tu e mi riferirai.»
«Vuole parlare soprattutto con te.»
«Domani, o quando il tempo migliorerà.»
«Domani lascerà Roma.»
«Anche lui? Digli che mi scriva. Resteremo in pochi, i migliori.»
Bruto china il capo e io mi tingo le labbra di cinabro.
«Ti prego, madre, dice che è importante. Se non vuoi scomodarti, invitalo a venire qui, di sicuro accetterà.»
«Va via da Roma? Vuol dire che ha deciso da che parte stare, non ho nulla da dirgli.»
«Ma lui a te sì, e tu non sei una donna qualunque.» Mi provoca, fissandomi negli occhi.
Lo fisso anche io: che fai figlio, mi sfidi? Non sarò io ad abbassare lo sguardo.
«Ti prego» insiste, «il carro è pronto.»
Cedo, non ho più energie né voglia di sostenere questa discussione.
La casa di Cicerone dista poco e durante il breve tragitto mio figlio non dice una parola. Nei pressi di un trivio una donna urla, è una matrona, ma si dimena con i capelli sciolti e si strappa le vesti, piange, ferma i passanti afferrandoli per le braccia e poi li insegue: «Ascoltatemi!» implora, e parla di morti, di luoghi ...

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Prenner, Antonella. (2020) 2020. Caesar. [Edition unavailable]. RIZZOLI LIBRI. https://www.perlego.com/book/3427739/caesar-pdf.

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Prenner, A. (2020) Caesar. [edition unavailable]. RIZZOLI LIBRI. Available at: https://www.perlego.com/book/3427739/caesar-pdf (Accessed: 15 October 2022).

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Prenner, Antonella. Caesar. [edition unavailable]. RIZZOLI LIBRI, 2020. Web. 15 Oct. 2022.