Il sangue degli italiani
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Il sangue degli italiani

1943-1946. Una storia per immagini della guerra civile

Giampaolo Pansa

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Il sangue degli italiani

1943-1946. Una storia per immagini della guerra civile

Giampaolo Pansa

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"Il racconto che sino a oggi abbiamo fatto della Resistenza dovrebbe essere riscritto da cima a fondo. Perché è in gran parte falso." Per Giampaolo Pansa è stata prima di tutto una guerra interna. E da sempre, ad appena ventitré anni, nel 1959, quando intervenne a un convegno sulla Storiografia della Resistenza, ha sostenuto il dovere di dare voce, nel racconto dell'Italia del 1943-1946, anche agli sconfitti. Per ricordare a tutti quello che la storia ufficiale taceva: le uccisioni dei fascisti prigionieri da parte dei partigiani durante la guerra civile. Le vendette dei vincitori nei giorni successivi alla Liberazione. La barbarie delle violenze sulle donne accusate di essere spie dei fascisti. In queste pagine ritroviamo le drammatiche vicende e i volti dei loro protagonisti in un percorso fotografico inedito. Dalla Banda di Tom di Casale Monferrato al rastrellamento della Benedicta, dall'eccidio del campo di Bogli alle esecuzioni nella colonia di Rovegno: questa è la lunga scia di sangue che ha permesso di riscrivere la storia di quegli anni. "L'Italia è una nazione vecchia e sfibrata" scriveva Pansa "capace soltanto di lamentarsi e di litigare. Gli italiani non sono affatto brava gente. Si odiano e sono sempre disposti a scannarsi." Questo libro è un'occasione nuova per ribadire le verità, troppo a lungo taciute, sulla guerra civile tra italiani.

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Information

Publisher
RIZZOLI
Year
2020
ISBN
9788831802413

IL MIO BREVIARIO LAICO

GIAMPAOLO PANSA SU BEPPE FENOGLIO
Alba, Cuneo, 10 ottobre 1944. Partigiani delle bande «autonome» entrano nella cittadina evacuata dalle truppe fasciste.
Alba, Cuneo, 10 ottobre 1944. Partigiani delle bande «autonome» entrano nella cittadina evacuata dalle truppe fasciste.
Alba, Fondazione Ferrero,
Convegno Intorno a Beppe Fenoglio 1963-2003
Alba, 16 maggio 2003
Grazie per avermi invitato ad Alba. Ho avuto oggi il piacere delizioso di conoscere Margherita Fenoglio, la figlia di Beppe. Mi dicono che in sala c’è anche la sorella, Marisa Fenoglio, autrice di Casa Famiglia, uno splendido libro.
Anch’io dovrò cominciare per forza di cose parlando di me stesso, ma lo farò brevemente, cercando di raccontare come ho scoperto Beppe Fenoglio. È stato grazie a Romeo Giovannacci, il libraio della mia città, Casale Monferrato. In realtà lui era di Pontremoli. Aveva la bancarella dei libri sotto i portici corti di Casale.
Io sono stato un lettore molto precoce, grazie a mio padre e a mia madre. Loro avevano fatto la terza elementare e non avevano potuto leggere libri, perché erano stati bambini poverissimi. Perciò, quando io chiedevo un libro, erano felici di acquistarlo. Sono quindi diventato presto cliente di un libraio «da grandi» come Giovannacci.
Era un signore piccolo, di pelo rosso, con due sopracciglia che al confronto quelle di Brežnev non erano nulla. Ho scoperto anni dopo che era un uomo moderato, di centrodestra diremmo oggi, che mi faceva leggere Il dio che è fallito, André Gide, Arthur Koestler…
Un giorno del 1952, credo nell’estate (io non avevo ancora 17 anni, scrivevo sul giornale della città, «Il Monferrato») mi disse: «Tu che vuoi imparare a scrivere, leggiti e impara a memoria questo libro…». Mi diede I ventitré giorni della città di Alba.
È stato questo il mio incontro con Fenoglio, cui è seguito subito un contro-incontro. Un giorno dell’autunno di quello stesso 1952 mi imbattei per strada in uno dei capi dell’Anpi, Associazione nazionale partigiani d’Italia e gli dissi: «Hai letto questo libro meraviglioso di Fenoglio?». Lui rispose: «Fenoglio?! È un traditore, Fenoglio! Ha scritto un libraccio, ha fatto una cattiva azione nei confronti della Resistenza!».
Anni dopo ho scoperto che recitava quello che aveva letto sull’«Unità». Era un partigiano comunista. E sull’«Unità» c’era scritto che Fenoglio era «da mettere all’indice», sempre per la sua «cattiva azione» nei confronti della Resistenza.
Questo comandante partigiano, invece, era uno che leggeva con delizia L’Agnese va a morire di Renata Viganò, un libro finto. Tra l’altro, pare persino che non l’abbia scritto lei, ma il marito, che era pure uno scrittore. È un libro retorico, rappresenta una Resistenza irreale: i partigiani rossi sono tutti buoni, gli azzurri e i bianchi già un po’ meno, i fascisti sono tutti dei torturatori… Ci hanno pure fatto un film, credo diretto da Giuliano Montaldo, io però non l’ho visto. Il libro, invece, lo lessi, sempre per via di Giovannacci che mi forniva i libri a credito. Ma non mi era piaciuto. A quell’epoca, però, L’Agnese va a morire negli ambienti di sinistra andava. Non Beppe Fenoglio. E questo aiuta a capire perché una certa sinistra di oggi si trovi, diciamo così, con il sedere per terra…
…Posso chiamarlo così anche se non l’ho mai conosciuto? Per me è diventato un amico, una persona che mi sembra di avere incontrato tante volte, anche se non l’ho mai visto, tranne che nelle fotografie sui suoi libri.
I ventitré giorni ha un inizio folgorante: «Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre dell’anno 1944… Fu la più selvaggia parata della storia moderna: solamente di divise ce n’era per cento carnevali…». È una cosa fantastica. Questo libro ha gettato dentro di me un seme che poi ha germogliato molto.
Io cominciai a occuparmi – da storico dilettante, non da storico professionale – dei partigiani della mia zona, così come Fenoglio, da scrittore, si è occupato di quelli della sua. L’amministrazione provinciale di Alessandria aveva bandito un concorso per una monografia sulla Resistenza e io, dopo avere letto I ventitré giorni della città di Alba, pensai che avrei potuto partecipare. Avevo 19 anni, era il 1954. Ho partecipato, ho vinto, sono andato all’Università di Torino e ho frequentato il corso di laurea in Scienze politiche. Sempre sotto la spinta della lettura di Fenoglio e dei miei interessi, al secondo anno mi sono presentato ad Alessandro Galante Garrone, che insegnava Storia contemporanea, e gli ho detto: «Professore, vorrei fare la tesi di laurea con lei». Mi chiese a che anno fossi. Al secondo, gli dissi, e lui:
«Al secondo anno vuoi fare la tesi di laurea?». Io risposi di sì, e quando mi domandò su che cosa volessi farla, io, con l’arroganza tipica dei giovani di quegli anni, affermai: «Vorrei farla sulla Resistenza tra Genova e il Po».
Non era mai stata fatta una tesi sulla Resistenza; io sono stato il primo. «Ma tu hai idea da che parte si cominci?» mi chiese lui, con l’atteggiamento scettico, ma soprattutto dolce, che gli era tipico. Risposi che avevo già scritto 250 pagine sulla provincia di Alessandria e lui, stupito, mi disse di portargliele.
Ho continuato a leggere Fenoglio, e se c’è uno scrittore che ho amato, è proprio lui. Il primo autore che ho amato è stato Alessandro Manzoni. Ho letto due volte I promessi sposi, perché mi era piaciuto tantissimo; ma posso dire che, dopo Manzoni, viene Fenoglio.
Ho letto La malora, Primavera di bellezza, Una questione privata, La paga del sabato… ma soprattutto è stato per me uno shock fortissimo – come ha detto oggi un altro grandissimo scrittore, Luigi Meneghello – leggere Il partigiano Johnny.
Ho un ricordo preciso di quel momento: il libro era uscito, se non sbaglio, alla vigilia dell’estate 1968. Io ero andato in ferie e stavo scrivendo L’esercito di Salò, sul riarmo della Repubblica sociale, interamente basato su documenti fascisti. La sera, mi disintossicavo leggendo Fenoglio. E se non sbaglio quella fu pure l’estate in cui i sovietici invasero Praga. Quindi io passavo la mattina e il pomeriggio con i repubblichini, dopodiché alla sera guardavo il telegiornale con i russi che occupavano Praga e l’unica mia salvezza era leggere Il partigiano Johnny.
L’ho poi riletto molte volte e, anzi, ogni volta che decido di scrivere un libro, me ne rileggo qualche pagina. Quindi comincio a nutrire dubbi terribili sulle mie capacità, ma devo per forza dirmi: «Dai, provaci anche tu, Giampaolo. Vai avanti lo stesso».
Devo dire che mi ha sempre affascinato la lingua di Fenoglio. Mi sono persino ricopiato un pezzo della prefazione di Dante Isella all’edizione della Pléiade, dove fa tutta un’analisi della lingua del Partigiano Johnny. Nel mio primo presunto romanzo, Ma l’amore no, ci sono parecchie parole rubacchiate da Fenoglio.
Confesso che mi è piaciuto molto anche il film di Guido Chiesa con Stefano Dionisi che interpreta Johnny. Me lo sono visto tre volte, ho anche avuto il grande piacere di assistere a una proiezione riservata prima dell’uscita. È un film che per fortuna sta circolando: l’hanno visto anche nelle scuole, e i ragazzi hanno così imparato qualcosa che i professori non insegnano.
A proposito di scuola, vi voglio raccontare questo: la seconda volta che ho assistito al film è stato in un importante liceo di Roma, dove avevano organizzato un ciclo di proiezioni. Seduto in prima fila c’era il ministro della Pubblica istruzione (dell’Ulivo) che, quando ha visto la scena dell’arrivo dei partigiani ad Alba, nell’autunno del 1944, è scattato come una molla. È venuto da me che stavo in quinta fila e mi ha chiesto: «Giampaolo, ma sono accadute davvero queste cose?». Certo che sono accadute davvero! Quel ministro era Tullio De Mauro. Poverino! Io sono rimasto sconcertato, lui è una persona seria…
Tra l’altro nel film è riportato il colloquio – lo citerò più avanti nella mia conclusione – tra Johnny e il suo amico Alessandro che contiene una verità fondamentale, per me valida anche per la politica di oggi.
Che cosa mi ha dato Fenoglio? Io ero troppo giovane per fare la Resistenza, troppo vecchio per il Sessantotto: per fortuna ho fatto il giornalista, e questo mi ha in parte compensato. Ma da bambino ho vissuto la guerra: alla fine avevo quasi dieci anni e ho visto la guerra civile. L’ho vista fino in fondo: Casale Monferrato non è stata liberata un po’ prima, come Forlì. Da noi è finita il 26 aprile del 1945. Ho visto partigiani catturati in un paese del Monferrato, legati con le catene dei buoi, senza scarpe, fatti marciare nella neve per quattordici chilometri: era il gennaio del 1945. Quando sono arrivati in città, hanno dato a Tom, il capo – che era un panettiere e un’ex guardia confinaria – un cartello da reggere che diceva: «Ecco il leoni della banda Tom».
Mia madre mi diceva di chiudere la finestra, ma io guardavo, e la cosa che più mi è rimasta in mente sono i piedi deformati di quei ragazzi. Li hanno portati al carcere giudiziario di Casale – quello diventato famoso, trent’anni più tardi, per la fuga di Renato Curcio – e il giorno dopo li hanno fucilati tutti. Erano quindici, e c’era in più un prigioniero inglese, fucilato anche lui. E ho visto le ragazze fasciste, o figlie di fascisti, rasate in piazza e qualcuna è stata anche violentata. Ho visto i fascisti di Casale messi in gabbie, fatti girare per la città, per essere portati non si sa dove.
Tutto questo l’ho ritrovato nei libri, anche in quello di Luigi Meneghello, I piccoli maestri. Quel tempo è stato un tempo feroce, di una durezza terribile: lì ho intuito tante cose, che in seguito i miei studi di storico dilettante mi hanno fatto capire fino in fondo.
Se c’è un autore – e qui vengo alla seconda cosa che mi ha lasciato Fenoglio – che non ha avuto paura di usare la definizione «guerra civile», questo è proprio Beppe.
Badate che ancora oggi usare «guerra civile» non è comune. Quando ho scritto I figli dell’Aquila, il comitato direttivo dell’Anpi mi ha mandato una lettera per contestarmi il fatto che io continuo a usare questa espressione anche nei dibattiti pubblici. Una lettera con diciotto firme, la prima di Arrigo Boldrini, il famoso comandante Bulov. Ma io che cosa devo farci? Ho visto le pene patite da Claudio Pavone, storico di sinistra. Sono andato con lui in due città, Alessandria e Siena, a presentare il suo libro Una guerra civile. I vecchi partigiani «rognavano» come maledetti contro Pavone per la questione della guerra civile. Anche se Norberto Bobbio ci spiegava già che quello che è avvenuto in Italia tra il 1943 e il 1945 erano tante guerre insieme, dunque erano anche una guerra civile.
E nei libri di Fenoglio c’è tutto questo. C’è nel racconto della fine di Leonardo Cocito, il suo professore di italiano che viene ucciso, impiccato in quel modo barbaro. C’è nella storia di Pietro Chiodi. Se si legge Banditi si ritrova lo stesso clima di durezza di quello scontro. Ma una cosa soprattutto mi ha sempre colpito in Fenoglio: è che gli altri, cioè i fascisti, ci sono sempre. E non sono necessariamente dei seviziatori, dei torturatori. Sono avversari, nemici da sconfiggere, sono persone con le quali c...

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