Indro: il 900
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Indro: il 900

Racconti e immagini di una vita straordinaria

Marco Travaglio, MONTANELLI INDRO

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Racconti e immagini di una vita straordinaria

Marco Travaglio, MONTANELLI INDRO

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Prima entra il nasone, poi i due occhi azzurrissimi e sgranati, poi tutto il resto. Un corpo filiforme di un metro e 88 per poco più di sessanta chili in un dolcevita e un completo grigio che potrebbe reggersi da sé, se non fosse per i due trampoli. Un airone cenerino vestito da lord inglese.Un pomeriggio mi siedo nel corridoio fuori dal suo ufficio, con la porta sempre socchiusa. Lo spio dalla fessura per una mezz'oretta mentre scrive il suo editoriale sull'Olivetti Lettera 32. E assisto al prodigio che si ripete ogni giorno: è come una mantide religiosa in trance, la testa curva sulla tastiera, il naso quasi conficcato nel foglio che avanza sul rullo, i due indici che picchiettano senza sosta come sui tasti di un pianoforte, a un ritmo musicale. Poi, arrivato in fondo, estrae il foglio, rilegge rapidamente in tralice con gli occhiali sulla punta del naso, aggiunge un paio di virgole a pennarello, firma, sorride e consegna. Già sa che il pezzo è lungo il giusto, a misura della sua colonna in prima pagina («Niente "giri" nelle pagine interne: giramento di pezzo, giramento di coglioni»). Due cartelle dattiloscritte e immacolate, senza correzioni né tagli né cancellature. Letizia Moizzi, la nipote che lavora con noi, mi racconta che spesso lo zio Indro gli editoriali li sogna la notte e glieli recita, anzi glieli "canta", durante la passeggiata mattutina prima di scriverli, per accertarsi che abbiano il ritmo e la musica giusti. Il finale è sempre un lampo al magnesio, un fulmen in clausola. In settantadue anni di carriera, mai un articolo tirato via, o banale, o spento, o privo di un guizzo, di una trovata, di un'idea («una sola però: due sono già troppe»): l'esatto opposto del giornalismo medio di oggi.Ne troverete tanti, di quei miracoli, in questo libro. L'ho scritto per chi Montanelli l'ha letto, ma l'ha dimenticato; per chi Montanelli avrebbe potuto leggerlo, ma non l'ha fatto perché stava dall'altra parte della barricata; e, soprattutto, per chi Montanelli non ha potuto leggerlo per ragioni anagrafiche e non sa cosa si è perso.Dall'Introduzione di Marco Travaglio

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Information

Publisher
RIZZOLI
Year
2021
ISBN
9788831805285

La parte migliore e più generosa di noi stessi. 1930-1939

capitolo 3

L’italia degli anni 1930-1939

Gli anni Trenta, per l’Italia, sono quelli del consolidamento del regime fascista, delle bonifiche e delle grandi opere pubbliche, delle due guerre – Etiopia e Spagna – che precedono quella mondiale e portano il Duce all’apice del consenso. Fino alla vergogna delle leggi razziali e alla follia bellica accanto a Hitler. Un decennio lungo un secolo che trasforma Montanelli da ingenuo e confuso studente universitario in inviato di guerra e grande firma del «Corriere della Sera».
Il 1930 è l’anno della maggiore età, del ritorno a Firenze dopo la naja a Palermo, del suo primo vero articolo e della laurea in Giurisprudenza. L’articolo d’esordio esce sul «Frontespizio», prestigiosa rivista di orientamento cattolico diretta da Piero Bargellini. S’intitola “Byron e il cattolicesimo”.
«Avevo ventun anni, figurarsi quanto poco m’importava di quei temi, però mi importava molto scrivere e sfondare nel giornalismo. E colsi l’occasione, scegliendo un argomento adatto per la testata. Quando portai quel numero del “Frontespizio” a mio nonno, mancò poco che mi levasse il saluto: “O che diavolo è codesta porcheria? È roba da preti. Porta via, e ripresentati quando ti faranno scrivere sulla ‘Nazione’. Perché io di giornalisti conosco solo quelli che scrivono sulla ‘Nazione’”».
La tesi di laurea in Legge, con un anno d’anticipo sulla tabella di marcia, è sulla legge elettorale fascista: la legge Acerbo del 1924 che – sostiene ereticamente Montanelli – non è una riforma del sistema di voto, ma più semplicemente l’abolizione delle elezioni. Infatti l’anno prima, nel ’29, il Duce le ha rimpiazzate con un grottesco plebiscito: «Approvate voi la lista dei deputati designati dal Gran Consiglio Nazionale del Fascismo?» (vittoria dei Sì col 98,43 per cento). Indro ottiene il voto massimo: 110/110 cum laude.
«Quel pezzo di carta l’avevo preso per far contento il babbo, visto che non mi sarebbe mai servito a nulla nella professione. Dunque profittai della sua soddisfazione per chiedergli di finanziarmi dei corsi di specializzazione all’Università di Grenoble, alla Sorbona e infine a Cambridge».
Lì impara le due lingue e conosce un pezzo d’Europa. Meno di un anno dopo, nel 1931, è di nuovo a Firenze e si iscrive a Scienze politiche e sociali. E in un anno consegue la seconda laurea (bastano sette esami per integrare la prima), con un’altra tesi in odor di eresia: «Analizzavo, esaltandola, la politica di dorato isolamento della Gran Bretagna. Ma anche stavolta non per antifascismo: solo per spirito ribelle».
Mino Maccari gli pubblica qualcosa sul «Selvaggio», che vende pochissimo (500 copie, pare), ma fa molto rumore tra i giovani «strapaesani» toscani. Ma la svolta, per Indro, è l’incontro nel 1932 con Berto Ricci, presentatogli da Diano Brocchi, che nel 1933 lo fa collaborare con la sua rivista «L’Universale» (mensile e poi quindicinale, 1000-1500 copie tirate, primo numero il 3 gennaio 1931, ultimo il 25 agosto 1935). L’anno seguente l’intera redazione viene ricevuta a Palazzo Venezia dal Duce in persona. C’è anche Indro, che ne esce conquistato e inizia a scrivere anche per l’organo ufficiale del regime, «Il Popolo d’Italia».
Intanto i nazisti austriaci, sobillati da Hitler, tentano di rovesciare il governo fascista filo-italiano del cancelliere Engelbert Dollfuss e di annettere il Paese alla Germania (Anschluss). Dollfuss viene assassinato, ma il putsch fallisce. Mussolini, che ancora detesta il Führer, schiera le truppe al Brennero.
Nell’agosto del 1934 Indro è di nuovo a Parigi, stavolta come redattore e poi caporedattore del settimanale fascista «La Nuova Italia». E una sera ha un incontro-scontro con Carlo Rosselli, il fuoruscito liberalsocialista che sarà assassinato da sicari fascisti nel 1937 col fratello Nello. L’irriverenza di alcune sue cronache irrita il regime e gli fa perdere il posto. Ma sullo scorcio del 1934 viene assunto in cronaca da «Paris Soir». Lo ritroviamo in Norvegia, in Canada e a New York, alla famosa agenzia di stampa americana United Press, per cui pare realizzi un’intervista-scoop al re dell’automobile Henry Ford (purtroppo introvabile). Al rientro in Italia, inaugura una rubrica al vetriolo (Colpi di sonda) su «Critica Fascista», la rivista del gerarca «illuminato» Giuseppe Bottai, che sarà sempre il suo santo protettore.
A Roma fervono i preparativi per la guerra d’Africa. Indro prova a farsi inviare come vicecorrispondente in Etiopia dalla United Press, ma invano. Così si arruola volontario e a metà giugno del 1935 s’imbarca in nave per Massaua. A fine mese è all’Asmara, dove viene intruppato come comandante di compagnia, coi gradi di sottotenente, nel XX Battaglione eritreo, formato da ascari (mercenari indigeni) e comandato dal maggiore Mario Gonella. Una piccola Armata Brancaleone male addestrata e peggio armata, malgrado i tre mesi estivi di esercitazioni prima dello scoppio della guerra. L’Etiopia, regno del negus Hailé Selassié stretto fra le colonie italiane di Eritrea e Somalia e sostenuto dalla Gran Bretagna, è l’ultimo lembo d’Africa lasciato libero dagli altri Stati coloniali e abbandonato dall’Italia dopo la disfatta di Adua del 1896. Il 3 ottobre le truppe italiane danno inizio alle ostilità, occupando Adua e Adigrat, poi a novembre Axum e Macallè. La Società delle Nazioni decide il blocco economico contro Roma, con l’unico risultato di gonfiare il consenso al fascismo per l’ondata popolare di revanscismo contro le «inique sanzioni» (firmate da fior di potenze coloniali) e la grande mobilitazione per l’«autarchia» e l’«oro alla Patria». Anche un antifascista come Benedetto Croce porta al Vittoriale la sua medaglietta d’oro di senatore.
Alla conquista dell’Impero il XX Battaglione eritreo contribuisce poco o nulla. Qualche scaramuccia e nient’altro. Nel gennaio del 1936 Montanelli, dopo un ricovero in ospedale, lascia il fronte e inizia a lavorare all’Asmara, nelle retrovie, per il quotidiano del fascio locale «La Nuova Eritrea». E completa il libro-testimonianza XX Battaglione Eritreo, che farà la sua fortuna: il 7 maggio viene recensito sul «Corriere» dal mitico Ugo Ojetti, prima firma della pagina culturale. Due giorni prima le truppe italiane al comando del maresciallo Pietro Badoglio sono entrate in Addis Abeba, mettendo in fuga il Negus. E Mussolini ha annunciato dal balcone di Palazzo Venezia a una folla in delirio: «L’Italia ha finalmente il suo Impero».
Deluso dall’avventura africana, molto meno poetica e più prosaica di come se l’era immaginata, Indro rientra in Italia a fine agosto del 1936. Molto meno fascista di quand’era partito, ma non ancora antifascista. «Afascista», per dirla con i suoi biografi Sandro Gerbi e Raffaele Liucci. Il suo, più che fascismo, è sempre stato mussolinismo. E ora Indro vede un Duce irrimediabilmente «mummificato» sul suo piedistallo di cartapesta. Umori e malumori che condivide con Leo Longanesi, a cui si lega con una fortissima amicizia personale e professionale, iniziando a collaborare al suo nuovo, sfavillante settimanale: «Omnibus», il primo rotocalco italiano, fondato il 3 aprile 1937.
Poi, a luglio, si trasferisce in Spagna, dove da un anno imperversa la guerra civile dopo il golpe militare nazionalista contro il Fronte popolare vincitore delle elezioni. Mussolini invia truppe volontarie a sostegno dei putschisti del generalissimo Francisco Franco. Indro segue il conflitto per «il Messaggero», oltreché per «l’Illustrazione Italiana» e «Omnibus». Ma una sua corrispondenza sulle operazioni militari a Santander sbugiarda clamorosamente le versioni ufficiali del Minculpop e provoca il suo rimpatrio forzato già il 24 agosto. E soprattutto provoca la sua espulsione dal Partito e dall’Albo dei giornalisti. Bottai gli consiglia di cambiare aria per un po’ e gli offre il posto di direttore dell’Istituto italiano di cultura a Tallinn, capitale dell’Estonia. Incarico mal pagato, infatti Indro arrotonda facendo il lettore di letteratura italiana all’Università di Tartu. «La periferia toccata in sorte a me era l’angolo più lontano, più squallido e più morto», scrive sconsolato. Ancora non sa che quell’autoesilio sarà la sua fortuna.
Da quel momento la vita di Indro s’intreccia inestricabilmente con la Storia: cioè con i prodromi della seconda guerra mondiale. Che, un po’ per fiuto e un po’ per fortuna, lo vedono sempre in prima linea, trasformandolo in inviato di guerra. A fine giugno del 1938 torna in Italia e finalmente, dopo vari tentativi abortiti, strappa il sospirato contratto di collaborazione al «Corriere della Sera»: 30-36 pezzi all’anno in esclusiva (ma lui nel ’39 ne scriverà il quadruplo). «Mi mandò a chiamare quel gran signore di Aldo Borelli. Mi seguiva da tempo, la recensione di Ojetti aveva lasciato il segno. Mi disse subito che, non essendo io iscritto all’albo dal quale mi avevano cacciato, non potevo pretendere un contratto regolare di redattore o di inviato. Così inventò per me una collaborazione come “redattore viaggiante”».
Il pezzo di esordio esce il 9 settembre: “Avventura nella prateria”, un racconto ambientato in Canada e scritto in prima persona. Mica male per un giornalista di trentuno anni.
Dieci giorni dopo, Mussolini annuncia le leggi razziali. E la censura sui giornali, anche sotto un direttore tollerante e aperto come Borelli, si fa sempre più plumbea. Indro ha difficoltà persino a pubblicare un elzeviro dissacrante contro gli antichi Romani per il ratto delle Sabine (“Le Sabine erano d’accordo?”). A novembre, vista l’aria che tira, salpa per l’Albania, protettorato italiano che il regime si appresta ad annettere. Ci resta quattro mesi, scrivendo articoli per il «Corriere» e un nuovo libro-inchiesta, Albania una e mille. Poi, da metà marzo del 1939, viaggia fra la Grecia, la Romania e la Bulgaria, «dove si stanno addensando nuvoloni»: la Germania hitleriana ha appena invaso la Cecoslovacchia.
A luglio del 1939, di nuovo in Italia, segue per il «Corriere» un gruppo di duecento giovani fascisti e nazisti in partenza in bicicletta da Verona per la Germania. Il 23 agosto Hitler punta la Polonia e se la spartisce con Stalin nel famigerato «patto di non aggressione» Molotov-Ribbentrop. Mussolini, che ha appena siglato col Führer il «patto d’acciaio», è colto in contropiede: non può entrare in guerra perché l’esercito non è pronto e si inventa la formula della «non belligeranza».
Il 1° settembre la Germania invade la Polonia: inizia la seconda guerra mondiale. Indro è a Berlino e assiste al discorso del Führer al Reichstag. Poi parte per il fronte e racconta sul «Corriere» l’avanzata nazista verso Danzica. Nel tragitto, ha anche un breve e burrascoso incontro a tu per tu con Hitler. Poi eccolo in Estonia e in Lituania, che appena lui arriva vengono aggredite dall’Armata rossa. Il patto nazisovietico le ha consegnate a Mosca, come pure la Finlandia.
E anche qui Montanelli arriva tra i primi a raccontare l’incredibile resistenza finnica (3,5 milioni di abitanti contro i 180 dell’Urss): una guerriglia epica che durerà cento giorni. Le sue corrispondenze sulla «Guerra d’inverno», combattuta tra i fiordi e le pianure coperte di neve e di ghiaccio traboccano di empatia per gli eroici fanti finlandesi che guizzano sugli sci, mimetizzati con tute bianche e guidati dal vecchio maresciallo Carl Mannerheim, eroe della guerra d’indipendenza dalla Russia del 1918. E Indro, con le sue cronache asciutte ma appassionate che escono ogni giorno sul «Corriere», quasi sempre in prima pagina, trasforma i lettori dell’algido quotidiano della borghesia milanese in sfegatati tifosi del Davide finnico contro il Golia staliniano. E anche un po’ in tifosi suoi. Mentre l’Europa esplode, il giovane «redattore viaggiante» è promosso a «inviato speciale» e ormai consacrato a «grande firma».
Anni Quaranta.
Anni Quaranta.

1930-1939 Racconti e immagini

Nei suoi tumultuosi e vorticosi anni Trenta, Montanelli conosce Mussolini e s’imbatte in Hitler. Ma sono altri tre gli incontri «eretici» di quel decennio che segneranno la sua vita e la sua carriera: Berto Ricci, fondatore e direttore de «L’Universale», che morirà sul fronte libico nel 1941; Carlo Roddolo, collaboratore della stessa rivista e poi volontario come lui in Etiopia, dove cadrà all’inizio del 1937; e Leo Longanesi, giornalista, scrittore, artista, pittore, illustratore, editore, ma soprattutto artigiano dell’editoria.
Dicembre 1930, Palermo.
Dicembre 1930, Palermo.
Berto Ricci. «Berto era fiorentino, insegnava matematica in un istituto tecnico di Prato, era approdato al fascismo dall’anarchia molto tardi, intorno al 1930, aveva quattro anni più di me. Era, dei “ragazzi di Mussolini”, come ci chiamavamo all’epoca noi giovani intellettuali fascisti, il più idealista. Con la sua vita e con “l’Universale”, fu l’ultimo a tentare di cambiare il mondo, cioè a illudersi di poter davvero incidere nella società italiana. Sognava che il fascismo potesse completare il Risorgimento incompiuto e “fare gli italiani”, cioè forgiare un italiano antico e nuovo, intorno a un’etica che si avvicinava molto allo stoicismo. E che lui seguì fino alle estreme conseguenze, andando a morire in Africa nel 1941. Eravamo molto legati. Per me, oltreché un amico, Berto era anche maestro di vita e consigliere spirituale. La prima fronda, noi giovani fascisti, la facemmo lì, nella redazione squattrinata dell’“Universale”, dove discutevamo molto e lavoravamo gratis».
L’assetto ideologico de «l’Universale» è un guazzabuglio più di umori e malumori che di elaborazioni politiche, tipico della gioventù irrequieta di quegli anni turbolenti. Come Montanelli riconoscerà anni dopo:
«Era un giornale frondista, che predicava il ritorno alla “prima ora” e la necessità della “terza ondata”. Attaccava tutte le autorità costituite, accusandole di eterodossia borghese e di antirivoluzionarismo. Voleva la rivoluzione permanente, il sangue, il tribunale del popolo, il monopolio di Stato per tutte le imprese, il corporativismo e il proletariato. Reclamava, con la violenza dei venti anni, qualcosa che si potrebbe riassumere nelle seguenti piccolezze: soppressione della borghesia mediante una riforma economica intesa alla statizzazione di tutte le imprese, sia agricole che industriali; alleanza con la Russia comunista con...

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