Nazionalismo
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Nazionalismo

Lezioni per il XXI secolo

Eric J. Hobsbawm

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Lezioni per il XXI secolo

Eric J. Hobsbawm

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Negli ultimi vent'anni una parola si è andata imponendo sempre più nel discorso pubblico: «nazionalismo». Un termine legato a doppio filo con la storia del Novecento e oggi al centro dell'azione politica di molti partiti. Forze che si oppongono alla spinta imperante della modernità, quella globalizzazione che tende a trasformare radicalmente - o addirittura a spazzar via - confini e caratteri nazionali. Hobsbawm, senza dubbio uno degli storici più acuti e influenti dei nostri tempi, ha compreso prima e meglio di molti altri cosa comportasse questo recupero dei concetti di patriottismo e nazionalismo. Pur da posizioni fortemente critiche, non ha mai commesso l'errore di liquidare il fenomeno come assurdo, riconoscendone invece le radici, l'importanza e l'impatto sociale, e chiarendo le responsabilità che gli studiosi hanno a riguardo. Se, ricordava spesso, un tempo era convinto che gli storici non potessero causare disastri, a differenza di architetti e ingegneri civili, si era infine dovuto ricredere: nelle mani dei nazionalisti la storia può uccidere più persone di un progettista incapace.
In questa raccolta di scritti, saggi e interventi pubblici possiamo apprezzare alcune delle più profonde intuizioni dello studioso di formazione marxista in merito a un tema senza dubbio controverso. Per chi, come lui, negli anni Trenta aveva abbracciato con convinzione il progetto della sinistra internazionalista, non era infatti accettabile affidare solo alla finanza e all'ecosistema di Internet la spinta all'integrazione mondiale, ma non era nemmeno possibile lasciare alle sole destre il primato del patriottismo. Le riflessioni di Hobsbawm, sempre attente e lucide, tracciano dunque un percorso essenziale per chiunque voglia comprendere davvero un fenomeno complesso come quello del nazionalismo, approfondendone la storia, l'evoluzione e le possibili conseguenze.

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Information

Publisher
RIZZOLI
Year
2021
ISBN
9788831804677
I

IL NAZIONALISMO NELLA STORIA

1

Dentro e fuori la storia

Il seguente discorso fu tenuto alla Central European University di Budapest come lezione inaugurale dell’anno accademico 1993-1994.
È un onore che mi sia stato chiesto di inaugurare quest’anno accademico della Central European University. È una incombenza che mi procura una strana sensazione poiché, anche se sono un britannico di seconda generazione, mi considero anche un cittadino centroeuropeo. Infatti, in quanto ebreo, sono uno dei tipici elementi della diaspora dei popoli dell’Europa centrale. Mio nonno si trasferì a Londra da Varsavia. Mia madre era viennese, come lo è anche mia moglie, anche se oggi lei si esprime meglio in italiano che in tedesco. La madre di mia moglie da bambina parlava ancora l’ungherese e i suoi genitori, in un certo momento della loro vita nella vecchia monarchia, avevano un negozio in Erzegovina. In passato, io e mia moglie ci recammo a Mostar per cercarlo, nei giorni in cui regnava ancora la pace in quella infelice regione dei Balcani. Tempo addietro, ho intrattenuto rapporti personali con alcuni storici ungheresi. Dunque, oggi vi parlo come uno straniero, ma allo stesso tempo, però, in modo indiretto, sono anche uno di voi. Cosa posso dirvi?
Voglio dirvi tre cose.
La prima concerne l’Europa centrorientale. Se venite da quest’area, e presumo che sia così per tutti voi, significa che siete cittadini di Paesi il cui status è doppiamente incerto. Non sto affermando che l’incertezza sia monopolio degli europei centrorientali. Oggi essa è probabilmente più universale che mai. Ciononostante, il vostro orizzonte è particolarmente nebuloso. Nel corso della mia esistenza, ogni Paese nella vostra parte di Europa è stato sconvolto dalla guerra, conquistato, occupato, liberato e occupato nuovamente. Ogni Stato in essa contenuto ha una forma differente da quella che aveva al tempo in cui io sono nato. Soltanto sei dei ventitré Stati che oggi occupano la cartina geografica tra Trieste e gli Urali esistevano al tempo della mia nascita, o sarebbero esistiti se non fossero stati occupati da qualche esercito: la Russia, la Romania, la Bulgaria, l’Albania, la Grecia e la Turchia, perché né l’Austria né l’Ungheria del primo dopoguerra sono paragonabili all’Ungheria dell’epoca asburgica e alla Cisleitania. Diversi Stati furono creati dopo la Prima guerra mondiale, e un numero ancora maggiore dopo il 1989. Tra questi, alcuni Paesi non avevano mai raggiunto la condizione di Stato indipendente nell’accezione moderna del termine, oppure l’avevano raggiunta per un periodo molto breve – un anno o due, un decennio o due – prima di perderla, anche se qualcuno l’aveva poi raggiunta di nuovo: i tre piccoli Stati baltici, la Bielorussia, l’Ucraina, la Slovacchia, la Moldavia, la Slovenia, la Croazia, la Macedonia e altri Paesi più a est. Alcuni sono nati e morti durante la mia vita, come la Iugoslavia e la Cecoslovacchia. È del tutto normale per gli anziani di qualche città dell’Europa centrale aver posseduto, nel tempo, i documenti d’identità di tre Stati diversi. Una persona della mia età di Leopoli o di Cernivci ha vissuto in quattro Stati, senza contare le occupazioni in tempo di guerra. Un uomo o una donna di Mukacevo potrebbe benissimo aver vissuto in cinque Stati, se consideriamo anche la temporanea autonomia di cui godette la Rutenia subcarpatica nel 1938. In tempi più civili, come nel 1919, sarebbe stata data loro la possibilità di scegliere tra due cittadinanze, ma dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale è più probabile che sarebbero stati espulsi con la forza, o integrati, sempre con la forza, nel nuovo Stato. A quale luogo appartiene un europeo centrorientale? Qual è la sua identità? Per molti di loro queste domande sono state, e sono ancora una realtà. In alcuni Paesi sono una questione di vita o di morte, e in quasi tutti influiscono e a volte determinano lo status giuridico delle persone e le loro opportunità di vita.
Ma c’è un’altra e più collettiva incertezza. Il grosso dell’Europa centrorientale appartiene a quella parte del mondo per la quale i diplomatici e gli esperti delle Nazioni Unite cercano, sin dal 1945, di escogitare eufemismi educati, come Paesi «sottosviluppati» o «in via di sviluppo», vale a dire relativamente o assolutamente poveri e arretrati. Per certi versi non c’è una linea netta che divide le due Europe, quanto piuttosto due versanti, uno a est e uno a ovest, di quella che potremmo definire la principale catena o cresta montuosa del dinamismo economico e culturale europeo, che dal Nord Italia attraversava le Alpi e arrivava alla Francia settentrionale e ai Paesi Bassi, e quindi proseguiva al di là della Manica fino all’Inghilterra. Possiamo rintracciarla nelle rotte commerciali del Medioevo e nella mappa di distribuzione dell’architettura gotica, così come nelle cifre del PIL dei diversi Paesi che compongono la Comunità europea, di cui questa regione è ancora oggi la spina dorsale. Tuttavia, nella misura in cui esiste una linea storica che separa l’Europa «progredita» da quella «arretrata», essa attraversava, approssimativamente, il centro dell’impero asburgico. So che le persone sono molto suscettibili riguardo a questo argomento. Lubiana si considera molto più vicina al centro della civiltà europea rispetto a Skopje, per esempio, e Budapest rispetto a Belgrado, e l’ultima cosa che desidera l’attuale governo di Praga è essere definito «centroeuropeo», per paura di venire contaminato dai Paesi dell’Est. Esso insiste nell’affermare la propria appartenenza esclusiva all’Occidente. Tuttavia, quello che voglio dire è che nessun Paese o regione dell’Europa centrorientale ha mai pensato di trovarsi in quel centro di civiltà. Tutti guardavano altrove in cerca di un modello da seguire su come essere veramente progrediti e moderni, persino, sospetto, la classe media colta di Vienna, Budapest e Praga. I suoi esponenti guardavano a Parigi e a Londra, proprio come gli intellettuali di Belgrado e di Ruse guardavano a Vienna, anche se, secondo gli standard più accettati, l’attuale Repubblica Ceca e regioni dell’odierna Austria facevano parte dell’Europa avanzata e industriale e, da un punto di vista culturale, Vienna, Budapest e Praga non avevano alcun motivo di sentirsi inferiori a qualunque altra città.
La storia dei Paesi arretrati del XIX e del XX secolo è la storia del loro tentativo di mettersi in pari con il mondo più progredito imitandolo. Il Giappone dell’Ottocento prese l’Europa come modello, l’Europa occidentale dopo la Seconda guerra mondiale imitò l’economia americana. La storia dell’Europa centrorientale nel Novecento è, sostanzialmente, quella del tentativo di raggiungere lo stesso livello dei Paesi progrediti adottando un modello dopo l’altro ma fallendo tutte le volte. Dopo il 1918, quando la maggior parte dei Paesi era di nuova formazione, il modello furono la democrazia e il liberalismo economico occidentale. Il presidente Wilson – a proposito, la stazione centrale di Praga è stata ribattezzata di nuovo in suo onore? – divenne il santo patrono della regione, tranne che per i bolscevichi che presero una strada tutta loro. (In verità, anche questi ultimi avevano i loro modelli stranieri: Rathenau e Henry Ford.) La cosa non funzionò. Il modello fallì, politicamente ed economicamente, negli anni Venti e Trenta. E alla fine la Grande depressione fece crollare la democrazia multinazionale anche in Cecoslovacchia. Per un breve periodo di tempo, alcuni di questi Paesi abbracciarono o flirtarono con il modello fascista, che negli anni Trenta sembrava destinato al successo economico e politico. (Tendiamo a dimenticare che la Germania nazista riuscì a superare brillantemente la Grande depressione.) Neppure l’integrazione nel sistema economico di una «grande Germania» funzionò. La Germania venne sconfitta.
Dopo il 1945, la maggior parte dei Paesi scelse, o si trovò a dover scegliere, il modello bolscevico, che era essenzialmente un modello per la modernizzazione delle economie agricole arretrate per mezzo di una rivoluzione industriale pianificata. Pertanto esso non fu mai rilevante per quella che è oggi la Repubblica Ceca e per quella che fino al 1989 è stata la Repubblica democratica tedesca, ma lo fu per la maggior parte dei Paesi della regione, inclusa l’Unione Sovietica. Non c’è bisogno che vi ricordi le lacune e i difetti economici del sistema che alla fine portarono al suo tracollo, e neppure i regimi politici sempre più intollerabili che impose all’Europa centrale e orientale. Ancor meno devo rammentarvi le incredibili sofferenze che causò ai popoli dell’ex Unione Sovietica, in particolare durante gli anni di ferro di Iosif Stalin. Eppure devo dire, anche se molti di voi non gradiranno le mie parole, che dopo il crollo delle monarchie nel 1918 per certi aspetti funzionò meglio di qualsiasi altro sistema. Per i cittadini comuni dei Paesi più arretrati della regione – la Slovacchia, per esempio, e gran parte della penisola balcanica – fu probabilmente il periodo migliore della loro storia. Il sistema fallì perché economicamente divenne sempre più rigido e impraticabile, e soprattutto perché si rivelò virtualmente incapace di generare innovazione o di sfruttarla a fini economici, per non parlare della repressione che esercitò sulla creazione intellettuale. Divenne inoltre impossibile nascondere alle popolazioni locali che altri Paesi avevano compiuto progressi materiali molto maggiori dei Paesi socialisti. O, se preferite, il sistema fallì perché la gente comune si mostrò indifferente o ostile nei suoi confronti, e perché i regimi stessi persero fiducia negli obiettivi che si erano prefissati. Tuttavia, comunque lo si guardi, esso crollò nella maniera più spettacolare nel 1989-1991.
E ora? C’è un altro modello che tutti si affrettano a seguire, quello della democrazia parlamentare in politica e del libero mercato capitalistico, nelle sue espressioni più estreme, in economia. Nella sua forma attuale non si tratta realmente di un modello, ma soprattutto di una reazione contro ciò che c’è stato prima. Se gli venisse data la possibilità di assestarsi, potrebbe trasformarsi in qualcosa di più fattibile. Tuttavia, anche se ciò dovesse accadere, alla luce delle vicende storiche successive al 1918 non ci sono molte probabilità che questa regione, forse con marginali eccezioni, riuscirà a entrare nel club dei Paesi «realmente» progrediti e moderni. Imitare la politica del presidente Reagan e di Mrs Thatcher ha portato a risultati deludenti persino nei Paesi che non sono stati devastati dalla guerra civile, dal caos e dall’anarchia. Dovrei aggiungere che neppure nei Paesi d’origine il modello Reagan-Thatcher ha avuto esiti particolarmente brillanti, se mi passate un eufemismo.
Dunque, nel complesso, i popoli dell’Europa centrorientale continueranno a vivere in Paesi delusi dal proprio passato, probabilmente molto delusi dal proprio presente, e pieni di dubbi sul proprio futuro. Questa è una situazione molto pericolosa. Le persone cercheranno qualcuno da incolpare per i loro fallimenti e le loro insicurezze. Le organizzazioni e le ideologie che più probabilmente trarranno beneficio da questo clima emotivo non saranno, almeno in questa generazione, quelle che vogliono tornare a una qualche versione del periodo antecedente il 1989. È più probabile che saranno movimenti ispirati dal nazionalismo e dall’intolleranza xenofoba. La soluzione più semplice è sempre dare la colpa agli stranieri.
Questo mi porta al secondo punto fondamentale del mio discorso, che è molto più attinente alle attività di una università, o almeno a quella parte di attività che mi riguarda come storico e accademico. La storia è infatti la materia prima per le ideologie nazionaliste, etniche o fondamentaliste, così come i papaveri sono la materia prima per la produzione di eroina. Il passato è un elemento fondamentale, forse l’elemento fondamentale di queste ideologie. Se non esiste un passato adatto, si può sempre inventarlo. Infatti, è nella natura delle cose che non ci sia quasi mai un passato adeguato, perché il fenomeno che queste ideologie pretendono di giustificare non è eterno o antico, ma storicamente nuovo. Questo vale sia per il fondamentalismo religioso nelle sue forme attuali – la versione dell’ayatollah Khomeini di uno Stato islamico risale solo agli anni Settanta del XX secolo – sia per il nazionalismo contemporaneo. Il passato legittima. Il passato fornisce un contesto più glorioso a un presente che non ha granché da celebrare. Ricordo di aver visto da qualche parte uno studio sulla civiltà antica delle città della valle dell’Indo dal titolo Five Thousand Years of Pakistan (Cinquemila anni di Pakistan). Il Pakistan non esisteva neppure come idea prima del 1932-1933, quando il nome fu inventato da qualche studioso militante. Non divenne una seria rivendicazione politica fino al 1940. E come Stato esiste soltanto dal 1947. Le prove che dimostrano l’esistenza di un collegamento tra la civiltà di Mohenjo-daro con gli attuali governanti di Islamabad sono rare come quelle su un possibile collegamento tra la guerra di Troia e il governo di Ankara, che oggi invoca la restituzione del tesoro di re Priamo di Troia rinvenuto da Schliemann, anche solo per presentarlo per la prima volta al pubblico in una mostra. Ma «cinquemila anni di Pakistan» suona decisamente meglio di «quarantasei anni di Pakistan».
In questa situazione gli storici si ritrovano a interpretare l’inaspettato ruolo di attori politici. Un tempo credevo che il mestiere dello storico, a differenza di quello, per esempio, del fisico nucleare, non potesse nuocere a nessuno. Adesso so che può farlo. I nostri studi possono trasformarsi in fabbriche di bombe, come i laboratori in cui l’IRA ha imparato a trasformare il fertilizzante chimico in esplosivo. Questa situazione ci riguarda in due modi: abbiamo la responsabilità di esporre i fatti storici in generale e di criticare l’abuso politico-ideologico della storia in particolare.
Non c’è bisogno che mi dilunghi sulla prima responsabilità. Se non fosse per due recenti sviluppi, non la menzionerei neppure. Uno di questi è l’attuale tendenza dei romanzieri a basare i loro intrecci su realtà documentate piuttosto che su avvenimenti di fantasia, confondendo così il confine tra fatto storico e finzione. L’altro sviluppo è la nascita di mode intellettuali «postmoderne» nelle università occidentali, in particolare nei dipartimenti di letteratura e antropologia, le quali implicano che tutti i «fatti» che rivendicano un’esistenza obiettiva non sono altro che costruzioni intellettuali; in parole povere, che non c’è una netta distinzione tra fatto e finzione. E invece c’è, e per gli storici, inclusi quelli tra noi che sono radicalmente antipositivisti, la capacità di distinguere tra le due cose è di fondamentale importanza. Uno storico non può inventarsi i fatti che studia. Elvis Presley è morto o non è morto? A una domanda del genere possiamo rispondere in modo inequivocabile affidandoci alle prove, nella misura in cui esse sono affidabili e disponibili, cosa che a volte accade. L’attuale governo turco, che nega il tentato genocidio degli armeni nel 1915, o ha ragione o non ha ragione. La maggior parte di noi escluderebbe da un serio discorso storico qualsiasi negazione di quel massacro, sebbene non esista un modo altrettanto inequivocabile di scegliere tra diverse interpretazioni del fenomeno o di collocarlo nel più ampio contesto storico. Di recente, alcuni fanatici indù hanno distrutto una moschea ad Ayodhya, apparentemente sulla base del fatto che l’edificio, imposto agli indù da Babur – il conquistatore musulmano che aveva fondato la dinastia Moghul –, era stato eretto in una località particolarmente sacra, in quanto ritenuta il luogo di nascita del dio Rama. Alcuni amici e colleghi delle università indiane hanno pubblicato uno studio che dimostra (a) che fino al XIX secolo nessuno aveva suggerito che Ayodhya fosse il luogo di nascita di Rama e (b) che quasi certamente la moschea non fu eretta al tempo di Babur. Vorrei poter dire che questo studio ha contribuito a frenare l’ascesa del partito indù che ha provocato l’incidente, ma almeno queste persone hanno fatto il loro lavoro di storici, a beneficio di coloro che sanno leggere e sono e saranno esposti in futuro alla propaganda dell’intolleranza. Tutti noi siamo tenuti a fare altrettanto.
Sono poche le ideologie intolleranti che si basano su semplici menzogne o falsità per le quali non esistono prove. Dopotutto, nel 1389 ci fu una battaglia nel Kosovo, i guerrieri serbi e i loro alleati vennero sconfitti dai turchi, cosa che lasciò profonde cicatrici nella memoria della popolazione serba, anche se ciò non giustifica l’oppressione degli albanesi, che oggi costituiscono il novanta per cento della popolazione della regione, o la pretesa dei serbi che quella terra appartenga esclusivamente a loro. La Danimarca non rivendica l’estesa area dell’Inghilterra orientale che colonizzò e governò prima dell’XI secolo, conosciuta da allora come Danelaw e i cui villaggi hanno ancora nomi filologicamente danesi.
Il più comune abuso ideologico della storia non si basa sulle menzogne ma su un anacronismo. Il nazionalismo greco nega alla Macedonia persino il diritto al suo nome sulla base del fatto che tutta la Macedonia è essenzialmente greca e fa parte di uno Stato-nazione greco, presumibilmente da quando il padre di Alessandro Magno, re di Macedonia, divenne il sovrano dei territori greci presenti sulla penisola balcanica. Come tutto ciò che riguarda la Macedonia, non si tratta di una semplice questione accademica, ma un intellettuale greco deve avere un bel coraggio ad affermare che, da un punto di vista storico, essa non ha senso. Nel IV secolo a.C. non esisteva alcuno Stato-nazione greco o una qualsiasi altra entità politica che poteva definirsi tale, l’impero macedone non somigliava affatto al moderno Stato-nazione greco o a qualsiasi altro Stato attuale, e in ogni caso è altamente probabile che gli antichi greci considerassero i governanti macedoni (e in seguito i governanti romani) come barbari e non come greci, per quanto fossero indubbiamente troppo educati o prudenti per confessarlo apertamente. Inoltre, la Macedonia è storicamente un tale inestricabile miscuglio di etnie – non per nulla ha dato il nome all’omonima insalata a base di frutta mista – che qualsiasi tentativo di identificarla con una singola nazionalità è per forza di cose sbagliato. A essere onesti, per la stessa ragione andrebbero respinte anche le posizioni più estreme del nazionalismo degli emigranti macedoni, così come tutte le pubblicazioni in Croazia che in qualche modo cercano di trasformare Zvonimir il Grande nell’antenato del presidente Tuđman. Ma è difficile opporsi ai compilatori di un manuale scolastico di storia nazionale, anche se nell’università di Zagabria ci sono storici, che sono orgoglioso di considerare miei amici, i quali hanno il coraggio di farlo.
Questi e molti altri tentativi di sostituire la storia con il mito e l’invenzione non sono soltanto brutti scherzi intellettuali. Dopotutto, possono determinare quello che finisce nei testi scolastici, cosa di cui erano pienamente consapevoli le autorità giapponesi quando insistevano per una versione depurata della guerra giapponese in Cina da utilizzare nelle aule scolastiche del Sol Levante. Il mito e l’invenzione sono fondamentali per la politica d’identità, grazie alla quale oggi gruppi di persone che si definiscono in base all’etnia, alla religione o ai confini passati e presenti degli Stati, cercano di trovare qualche certezza in un mondo incerto e instabile dicendo: «Noi siamo diversi e migliori degli Altri». Il mito e l’invenzione sono concetti di cui ci occupiamo nelle università perché essi vengono creati da persone istruite: insegnanti laici e religiosi, professori universitari (non molti, spero), giornalisti, produttori televisivi e radiofonici che, nella maggior parte dei casi, hanno frequentato qualche ateneo. Non commettete errori al riguardo. La storia non è un ricordo ancestrale o una tradizione collettiva. È ciò che gli uomini e le donne hanno appreso dai preti, dagli insegnanti, dagli scrittori di libri di storia, dagli autori di articoli di giornale e di programmi televisivi. È di estrema importanza che gli storici ricordino la propria responsabilità, che è soprattutto quella di mettere da parte le passioni delle ident...

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