Giallo.
Tutto secco e giallo.
Dondola piano, avanzando un po’, per guardare meglio.
È stata un’estate asciutta, sì, ma come la scorsa e quelle prima ancora, ché ormai fa così e il caldo picchia giù dal cielo a spaccarti il cranio in quattro.
Però questa volta è diverso.
Lo sente.
Avanza ancora sul ramo e muove la testa a piccoli scatti nervosi, con l’occhio tondo a frugare tra le foglie larghe dei lecci, alla ricerca del verde succoso che gli piace tanto. Ma nulla, l’erba è fiammeggiata da larghe chiazze brulle, rigide e dritte come puntaspilli.
Tutto secco.
Secco e giallo.
E il giallo non gli piace.
I limoni sono gialli.
Le foglie morte sono gialle.
La Marlena, che ha la voce che gratta l’aria come una ruspa e gli fa una paura boia, ha i capelli gialli.
Pure quel furgone che l’altro giorno ha quasi tirato sotto la Berta era giallo.
Giallo, come lo zolfo del diavolo e dell’inferno.
Perché sì, il giallo è cattivo, e no, non gli piace proprio per niente.
E l’estate asciutta non c’entra.
Perché questa volta è diverso.
Lo sente.
E poi c’è la faccenda del nibbio.
Era tanto che non si vedeva un nibbio da queste parti.
E pure questo è un segno.
E anche se Bellosegnù dice che a portar male sono solo le magagne dentro la testa, lui non ne è mica così sicuro, perché la terra a volte parla.
A modo suo, ma parla.
Si sposta ancora sul ramo, allungando il collo a scavalcare con lo sguardo tutto questo giallo maligno per trovare una scappatoia, prima che colpisca anche lui.
Ma forse è troppo tardi, perché il ramo fa crac, allargandogli il vuoto sotto.
Però non c’è mica problema, riflette, spalancando subito le sue ali.
Che però non “àlano” come dovrebbero, infatti con un tonfo sordo si sfrange sul pollaio della Marlena, tirando sotto di nuovo quella sventurata della Berta, povera figlia, che è scampata alle ruote del furgone giallo per poi vedersi piombare addosso ottanta chili per due metri di inutile apertura alare, in uno scempio di piume, uova e guano.
La Berta starnazza via, scarruffata e offesa, con l’urlo da ruspa della Marlena che lacera rabbioso l’aria.
E lui resta lì, dorso a terra, ali ancora spalancate e occhi larghi sul cielo.
Un cielo eccezionalmente giallo, ça va san dire.
«Cose così» dice, e poi frulla in aria la manina col consueto tintinnio del mezzo chilo abbondante di bracciali, a includere ciò che reputa inutile e noioso ribadire.
Come quel metacarpo più sottile di un grissino stirato torinese non si sia ancora sgretolato, per Edna resta un mistero più insondabile del terzo segreto di Fatima. Ma Zara Guglielmi, vedova Silvera, la guarda con la cocciuta ostinazione di una che sarà pure alla soglia degli ottanta, un corpicino da lemure e una cavalcante osteoporosi, ma niente la smuove dall’imperativa abitudine di addobbarsi come una sant’Agata in processione già dalle prime luci dell’alba, anche se con ogni probabilità non metterà il naso fuori di casa e a bearsi della vista dei suoi orpelli saranno solo lei e Kalina.
Anzi, Kalina da oggi forse non più. E questo è in sostanza il punto focale della faccenda.
«Senti, mamma» espira Edna, nello sforzo di restare centrata sulla questione, ché sua madre ha il potere di azzerarle di botto il quantum pazienza, già di base piuttosto modesto, «convieni con me che dare della zingara analfabeta a…»
«Dato anche di cretina» puntualizza dalla stanza accanto la voce un po’ spigolosa di Kalina, «e pure picchiata!» aggiunge tra abbondanti lacrime.
«Uh, picchiata, adesso… la solita esagerata!» alza gli occhi al cielo Zara.
«Sì, dato di cretina e picchiata. Con bottiglia. Tre volte!» ribadisce la voce dall’altra stanza, ma con molte meno lacrime di prima e tanti più spigoli.
«L’hai picchiata con una bottiglia?» le soffia tra i denti Edna, «ma sei impazzita, per caso?»
«Era di plastica» sbuffa annoiata sua madre, «una bottiglietta di plastica. Pure vuota.»
Edna la fissa a palpebre strette e braccia conserte, con l’aria di una che alle otto del mattino si è già vista frantumare in un amen l’intero monte pazienza della giornata, e la figurina sottile ed elegante come una Limoges, che dondola la gambetta in pantalone fresco lana pervinca con l’indolente distacco di una femme aristocratique che al grido “Madame, va a fuoco il palazzo” sospira “Ohibò, avevo appena fatto rifare le tende”, sta cominciando a farle rivalutare l’idea in sé. Quella della bottiglia come possibile corpo contundente, intende. E in questo caso non di plastica. Tantomeno vuota. Poi subito si pente, ché sua madre, con una precisione quasi chirurgica, riesce sempre a scucchiaiarle fuori il peggio, e ormai lo sa. Son quasi cinquantasette anni che lo sa, più o meno da quando la splendida e poco meno che ventiduenne Zara Guglielmi l’aveva scodellata fuori dal suo ventre perfetto e mollata senza troppi sensi di colpa a un perpetuo avvicendarsi di tate e miss, per tornar subito ad affascinare le platee con il suo violoncello e la sua capricciosa bellezza. Scelta che personalmente Edna non condanna, anzi, ogni donna ha il sacrosanto diritto di decidere della propria vita e della propria carriera, e la maternità non deve mai diventare un ostacolo, anche se crescere percependo nello sguardo di chi ti ha portata in grembo per nove mesi lo stesso interesse che si può riversare a un calzino spaiato confinato in fondo all’armadio è una di quelle cose che o ti annienta o ti fortifica. E qui con ogni probabilità è entrata in gioco la genetica, dove l’egoistica determinazione trasmessa per via materna in Edna si è stemperata con il radioso positivismo dei Silvera e di suo padre in particolare, portandola a procedere per la sua strada come un Caterpillar, senza curarsi troppo delle aspettative disattese e delle carezze mancate. Certo, pure suo padre non è mai stato il re delle smancerie, specialmente finché lei era piccola, ma come ha cominciato a dargli sugo dimostrando un’intelligenza sbrigliata e una fin troppo ardita curiosità, ha iniziato a portarla sempre più spesso con sé, trattandola come un suo pari. E anche se trascorrere le giornate nell’ambulatorio di un medico non è quello che propriamente ci si aspetterebbe come massima aspirazione da una ragazzina, lei non chiedeva di meglio: tutta quella variegata umanità l’affascinava nello stesso identico modo in cui ammaliava suo padre. Osservare le persone e l’Arte, quella con la A maiuscola, le due grandi passioni che Giuseppe Silvera le ha trasmesso non solo con il DNA, e capaci di riempire i vuoti che la vita le apriva dentro più di un formaggio svizzero. Per dire che, nonostante le premesse, tutto sommato è venuta fuori abbastanza bene: non è una serial killer, non fa uso smodato di ansiolitici o di sostanze stupefacenti, ha avuto un percorso di studi regolare con un lavoro che ama e che le ha dato molte soddisfazioni. Be’, sì, a tredici anni ha anche acceso il camino con il preziosissimo Guarnieri del Gesù di sua madre (fatto a pezzi a colpi di mortaio, sferzati con perizia certosina), e a quindici ha preso zaino e InterRail ed è sparita, lasciandosi dietro solo la pagina strappata velocemente da un quaderno a righe con scarabocchiato sopra: “Sono a zonzo per l’Europa. Quando ho finito torno”. Ma si trattava di tipiche intemperanze adolescenziali, forse solo un po’ accentuate dalla sua indole “diversamente cedevole” di natura. Perché sì, ammette di avere un carattere poco accomodante e no, non è affatto semplice rapportarsi con lei, ma solo perché dell’approvazione altrui gliene è sempre importato poco, affrancandola dal desiderio di piacere a tutti i costi per lasciarle la libertà di dire quasi sempre ciò che le garba. Anzi, togliamo pure il quasi, lo dice e basta.
Come ha sempre fatto anche sua madre, del resto.
Per questo ora Edna prende un bel respiro e cerca di sorriderle bendisposta, in attesa di una spiegazione accettabile a giustificare di aver insultato e preso a bottigliate la nuova badante, o perlomeno una menzogna plausibile.
Ma Zara Guglielmi, vedova Silvera, non raccoglie, nel senso che il suo genio musicale l’avrà anche portata a calcare i più famosi palcoscenici del globo e a rapportarsi in scioltezza sia con teste coronate sia con vulgus populi, sì, ma di ciò che passa per la testa di sua figlia non ha mai capito un tubo.
«Quella stupida continuava a incaponirsi con quei dannati fagioli» continua difatti, imperterrita, «dei cannellini duri come palle da schioppo, mentre io le avevo domandato espressamente dei f-a-g-i-o-l-i-n-i» scandisce battendo il piedino sul Bukara, «ma niente. Diceva che sono la stessa cosa, pensa te!, sostenendo che sono come dei fagioli bianchi ma più piccoli, ’sta zuccona. E non c’era verso di farle capire che fagioli piccoli e f-a-g-i-o-l-i-n-i NON SONO LA STESSA COSA. Chiaro che poi a uno scappa la pazienza e…» rifrulla tintinnando la manina, a illustrare l’ineluttabilità delle conseguenze.
«Quindi fammi capire» sospira Edna, «avresti preso a bottigliate Kalina, dandole della zingara analfabeta…»
«E cretina!» ribadisce la voce spigolosissima dall’altra stanza.
«E cretina, sì» risospira Edna, ché a separarle dalla stanza di Kalina c’è un salone largo come l’hangar di un Boeing 747, e quindi al momento non solo sta rischiando di vedersi sfumar via l’ennesima badante, ma pure una in possesso dell’udito bionico di Wonder Woman. «Insomma, vuoi dirmi che l’hai picchiata e insultata solo per una stupida diatriba linguistica?»
«C’era una lezione da imparare: fagioli piccoli e f-a-g-i-o-l-i-n-i NON SONO LA STESSA COSA. Capisco che per una zingara semianalfabeta non sia sempl…»
«Smettila!» soffia tra i denti Edna, sbirciando nervosamente il muro del salone che le divide dalla stanza di Kalina. «Ma ti senti quando parli? Sei una razzista, una stronza razzista. A dar botte di zingaro negro terrone. E proprio tu, figlia di una schiava berbera e moglie di un ebreo! Si può sapere perché?»
«Uh, quante storie» alza le spalle Zara, «alla fin fine siam tutti lo zingaro, il negro o il terrone di qualcun altro.» Poi la fissa per un lungo attimo con i suoi occhi verdissimi...