Ho fatto tutto per essere felice
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Ho fatto tutto per essere felice

Enzo Piccinini, storia di un insolito chirurgo

Marco Bardazzi

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Ho fatto tutto per essere felice

Enzo Piccinini, storia di un insolito chirurgo

Marco Bardazzi

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In un giorno di maggio del 1999, settemila persone affollarono la basilica di San Petronio a Bologna e la piazza antistante per dare un ultimo saluto a Enzo Piccinini, chirurgo dell'ospedale Sant'Orsola scomparso tragicamente a 48 anni. Ma chi era questo giovane medico che era stato in grado di lasciare così profondamente il segno in talmente tante vite?
Chirurgo sui generis per gli anni in cui si avvia alla professione, Piccinini crede fermamente nella necessità di occuparsi dei pazienti in tutta la loro umanità: preoccupandosi dei loro affetti e aiutandoli di fronte al dolore e al timore della morte, come parte del proprio mandato. Una convinzione nata durante gli studi, destinata a crescere negli anni attraverso l'amicizia con Luigi Giussani e l'impegno nel movimento di Comunione e Liberazione, che lo porta ad accostare all'attività medica, riconosciuta nel mondo, un instancabile lavoro di educazione e testimonianza per i più giovani. Oggi, la sua opera vive in una scuola di medici e ricercatori ispirati dal "metodo Enzo", e nelle persone che lo hanno conosciuto e ancora portano il segno di quell'incontro. Una vita unica, che ha portato la Chiesa a proclamarlo "servo di Dio" e ad avviare un processo di canonizzazione.
Ho fatto tutto per essere felice è un racconto emozionante che insegna cosa significa vivere, come diceva Enzo, "mettendo il cuore in quello che si fa".

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Information

Publisher
BUR
Year
2021
ISBN
9788831804431
1

Metterci il cuore

La mano destra si staccò dal tavolo, cominciando a sollevarsi. Il pollice teso, il palmo rivolto verso l’alto, un gesto da direttore d’orchestra. L’altra mano faticava a restare ferma vicino al microfono, al bicchiere, alla bottiglietta d’acqua. Era pronta a unirsi al movimento ascendente, per sottolineare un punto fondamentale, decisivo, irrinunciabile.
Il tono di voce salì insieme alla mano. Parlava da mezz’ora e adesso non c’era più traccia della stanchezza dei primi minuti. In platea, non un brusio, non un movimento tra i centocinquanta medici, infermieri e professionisti vari che riempivano la sala convegni della Cassa di Risparmio di Cesena. Era sparita anche una certa irritazione per il lungo ritardo con cui era iniziata la conferenza. Tanti lo conoscevano già, altri lo ascoltavano per la prima volta, tutti avevano capito dopo cinque minuti che non era il solito discorso da addetti ai lavori del mondo della sanità. Erano stati attratti dal titolo dell’incontro: «Il paziente. Una persona prima che un malato». Molti di loro, soprattutto quelli che non lo conoscevano, si immaginavano di ascoltare un’analisi tecnica con l’aggiunta di qualche considerazione etica.
Al massimo, pensavano che il relatore magari riprendesse e sviluppasse i concetti che proprio quella mattina Enzo Biagi aveva affrontato in prima pagina sul «Corriere della Sera»,1 dedicando all’«assurdo scontro tra toghe e medici» un editoriale dal titolo: E il malato resta in mezzo. Anche quel venerdì 12 marzo 1999, come ormai avveniva ogni giorno da anni in Italia, tutto si riduceva a scontri giudiziari e considerazioni etiche. Stavolta c’erano di mezzo i medici, per una delle molte inchieste del periodo. «Non penso che la medicina, e il giornalismo, siano delle “missioni”» scriveva Biagi, «ma di sicuro sono mestieri che si fondano su un’etica. Non mentire, rispettare i fatti, e ricordare il “giuramento di Ippocrate” che insegna: osservare il corpo, elaborare la diagnosi, stabilire la terapia. E, aggiungo, con un arbitrio, rilasciare anche la ricevuta fiscale.»
Parole che incarnavano lo spirito dei tempi: Ippocrate e gli scontrini. Riflessioni giuste, corrette. Ma al relatore di quella sera, là sul palco, non potevano bastare per dare le ragioni del suo lavoro e della sua vita. La mano destra adesso era salita all’altezza dei suoi occhi, come a voler reggere in aria il peso di quello che stava dicendo. La sinistra si preparava ad andare di rinforzo, unendosi in un atto simmetrico che creava quasi l’effetto di un gesto di offerta. Nel corso della giornata, prima di arrivare nella sala convegni, quelle mani erano entrate dentro tre corpi umani. Avevano accompagnato bisturi e ferri del mestiere alla ricerca di angoli dell’apparato digerente da indagare, esplorare, riparare. Si erano mosse guidate da quasi trent’anni di studio e di esperienza, di maestri da cui avevano imparato, di viaggi di aggiornamento all’estero, di tecniche sviluppate con i colleghi.
Quel mattino aveva operato nel suo reparto al Sant’Orsola di Bologna e nel primo pomeriggio aveva fatto un secondo intervento, non particolarmente complesso. «Subito dopo aveva affrontato un terzo intervento, una paziente che gli avevo indirizzato con una grossa lesione cistica al lobo sinistro del fegato» ricorda l’amico Raffaele Bisulli, direttore della casa di cura San Lorenzino di Cesena, tornando con la memoria a quel venerdì di più di vent’anni fa. Un’operazione che si era prolungata, per la decisione di eseguire un intervento più radicale del previsto. «Fece un intervento perfetto, tre ore e mezzo di lavoro. Nel frattempo, si era fatto tardi per l’incontro che avevo organizzato io alla Cassa di Risparmio. Appena finito, partimmo di corsa per Cesena.»
Ora era lì, a dire le cose che più gli premevano, e non poteva lasciare che la stanchezza lo frenasse. Non le aveva mai permesso di essere un ostacolo, non le concedeva di imporgli limiti o freni al bisogno di vivere intensamente il reale, tutto il reale. I tre interventi chirurgici della giornata erano stati, come sempre, solo una parte delle mille cose che aveva fatto. All’alba aveva probabilmente letto l’editoriale del suo omonimo Biagi, così come aveva letto e approfondito tutte le altre storie del mondo che seguiva con attenzione maniacale. Si era aggiornato sulla guerra del Kosovo, che volgeva al peggio e sembrava ormai orientata a uno scontro aperto tra la Nato e Slobodan Milošević. Ne aveva discusso con gli amici, come discuteva di tutto, accendendo e agitando in aria l’ennesimo mezzo toscano. E per tutto il resto della giornata, tra un’operazione all’addome e l’altra, aveva telefonato a decine di persone, discutendo i problemi e le gioie dei tanti per i quali era un punto di riferimento. Aveva chiamato Fiorisa a casa a Modena per sapere come stavano lei e i ragazzi. Aveva tormentato i medici del suo team al Sant’Orsola per avere aggiornamenti dettagliati su ogni singolo paziente. Aveva preparato gli appunti per una conferenza che avrebbe tenuto il giorno dopo a Lecce, di sabato.
Una giornata normale, come tante altre. Tutte vissute a questo ritmo.
E ora, aiutandosi con le mani da chirurgo, alzando il tono di voce, tirando su nervosamente le maniche della camicia, slacciando il cinturino di pelle dell’orologio dal polso sinistro per appoggiarlo sul tavolo, Enzo Piccinini voleva dire a tutti, una volta di più, perché viveva così: «Il problema è l’unità della mia vita. Come può restare unita la mia vita tra casa e ospedale, con mia moglie, con la gente che mi vuole bene e quella che mi vuole male? Come tutto questo può essere unito con le mattine in cui vado a lavorare e trovo quell’ambiente così teso che si sta male solo a vederlo? O con certi trattamenti ingiusti che puoi avere dalla struttura e dai colleghi? Come fa la mia vita a essere unita? Questo è il punto più importante per ciascuno di noi, nella malattia come nello stare bene. Come fa a essere unita, a essere la stessa vita?».
Le mani adesso incorniciavano il punto che voleva sottolineare. La voce saliva, non c’era più ombra di stanchezza, anche la solita ruga sulla fronte, in mezzo agli occhi, era scavata dalla passione e dal bisogno di sottolineare l’importanza di quelle parole che fremevano per venirgli fuori: «L’unità della vita è la cosa più importante del mondo, non ci si può dividere, non ci si può frazionare, non è un mosaico di situazioni. Ma come è possibile che la vita sia unita col suo desiderio di felicità insopprimibile? È la frase che userò sempre, che non smetterò mai di usare: la vita è unita se si mette il cuore in quel che si fa».
Ecco, l’aveva detto: «La vita è unita se si mette il cuore in quel che si fa». Una frase che spiegava tutto quello che aveva detto prima, da quando si era seduto nella sala convegni con quasi un’ora di ritardo perché aveva operato mettendoci il cuore, non solo il mestiere. Del resto, poteva dirlo soltanto alla luce di un’esperienza vissuta. Non poteva essere teoria. C’erano dietro le innumerevoli giornate come quella, vissute senza perdere un attimo. C’era il lavoro che aveva fatto su di sé, senza sconti e senza mai tirarsi indietro. C’era tutto il cammino compiuto, una ricerca instancabile partita da lontano, dall’educazione cattolica di famiglia lasciata per Marx e l’estrema sinistra e poi ritrovata. Era un percorso di vita che poteva finire nella clandestinità armata, come era successo ad alcuni che aveva incrociato. Invece: altro che clandestinità! Era diventata una testimonianza continua e alla luce del sole, con le sole armi della parola. C’era una vita intera dietro quella frase. C’erano migliaia di volti amici. C’erano quarantotto anni vissuti senza mai lasciare tranquillo quel cuore di cui parlava.
C’era anche la promessa e l’aspettativa di ciò che sarebbe venuto dopo. Un’unica cosa Enzo non sapeva, però, quella sera: gli restavano da vivere soltanto altri settantacinque giorni. Pieni e intensi come quello che si stava concludendo a Cesena.
Se anche lo avesse saputo, avrebbe insistito sugli stessi punti irrinunciabili di cui parlava da anni e che negli ultimi mesi si erano caricati di un’urgenza che forse non sapeva spiegarsi. Erano in buona parte le cose di cui aveva parlato tre mesi prima a Rimini, a qualche migliaio di studenti universitari legati all’esperienza di Comunione e Liberazione (CL),2 in un intervento che – anche questo non lo poteva sapere – dieci, venti anni dopo avrebbe continuato a girare per il mondo su YouTube, con sottotitoli in molteplici lingue. Adesso ne parlava a adulti del suo ambiente professionale. Perché quello che è vero – ne era convinto – è vero sempre, a ogni età. Anche in questo caso, lo aveva sperimentato in prima persona.
«Il primo esempio che faccio sempre è come ho iniziato la mia professione» aveva cominciato Enzo quella sera. «Finita Medicina non sapevo bene cosa fare. Avevo un’idea su Chirurgia, però non sapevo bene, e quindi ho girato in università tutti i chirurghi che c’erano e alla fine ho scelto (ero da solo, non avevo tanti confronti possibili) quello che mi piaceva di più, a prescindere dal fatto che fosse il più bravo o no. Con il senno di poi ho capito che sarebbe stato meglio usare un altro criterio o perlomeno metterli insieme il più possibile. Era il chirurgo che mi piaceva di più perché mi sembrava che fosse quello che diceva di essere. Così gli sono andato dietro e, come fanno i giovani, ero estremamente entusiasta del mio maestro e lo seguivo in tutto, lo imitavo, tant’è vero che aveva un tic e anch’io presi quel tic!»
Risate. Applausi. Anche i ragazzi di Rimini avevano riso e applaudito, riconoscendosi in quella descrizione.
«Ero letteralmente appassionato della questione, guardavo come faceva i nodi, come trattava la gente, e alla fine mi accorgevo che anch’io facevo quelle cose, ed è giusto, da un certo punto di vista. Poi un giorno abbiamo fatto un incontro in università che tenevo io; era proprio come questo, sull’esperienza personale. Avevo invitato il mio professore, ma non pensavo che sarebbe venuto, e invece venne. Così, in mezzo al gruppo dei ragazzi c’era questo con la testa pelata. Mi ricordo ancora che quando l’ho visto entrare, ho pensato: “Questo mi rovina la carriera”. Mi sono fatto forza, ho cominciato a parlare con una proprietà che non avevo mai avuto, soppesavo le parole, non dicevo parolacce e nello stesso tempo tenevo sempre d’occhio il suo atteggiamento per capire se facessi breccia o no. E lui impassibile. Quando è finito l’incontro lui si alza e va via; io lo blocco sulla porta e gli dico: “Professore, com’è andata?”. E lui, sempre con la stessa espressione, mi guarda e dice: “Piccinini, sono cose da ragazzi, queste, le fanno i ragazzi. Noi ne abbiamo passate tante, siamo dovuti scendere a compromessi, tutto è un compromesso. Voi ragazzi fate bene a parlare così, ma poi la realtà è un’altra, e nel tempo anche voi dovrete scendere a compromessi come noi”. Lì mi è caduto il mito… e ho perso anche il tic!»
Altre risate, più amare. Era il momento per il primo affondo. La stanchezza dei tre interventi chirurgici e della lunga giornata di lavoro era evaporata. Si scendeva sul terreno di ciò per cui vale la pena vivere ed Enzo stava entrando «in partita». Il calcio del resto, fin dagli anni del liceo, per lui rientrava nella lista delle cose su cui non si scende a compromessi. Alla testimonianza a Rimini del dicembre precedente si era presentato a quelle migliaia di ragazzi con un occhio nero, rimediato qualche ora prima su un campo da calcio, nell’ennesimo match che non si poteva chiamare «partitella tra amici»: ogni volta che in campo c’era lui, il clima era quello di una finale di Champions League.
«È impossibile che una cosa vera sia vera solo per un’età» esclamò Enzo, cominciando ad alzare il tono di voce. «Ciò che è vero, la verità, qualunque essa sia, in qualunque forma si presenti, ha sempre un accento che arriva direttamente al cuore. Altra cosa è il fatto che uno riesca a impegnarsi sul serio su quella roba lì. La verità ti colpisce sempre, ma nella misura in cui le fai spazio è un disastro, ti cambia la vita, e allora cerchi qualcosa che non ti impegni troppo. Quello che rimane chiaro è che la verità arriva sempre al cuore e alla mente, alla nostra libertà. Quel giorno per la prima volta mi sono reso conto che c’è un modo di abdicare alla sensibilità umana nel nostro lavoro, alla sensibilità al vero, ed è drammatico perché si perde la voglia di lottare, di imparare, si diventa “mestieranti” in un posto dove il mestiere è solo frustrazione.»
Qualcuno si stava agitando sulla sedia. Medici e infermieri in sala sentivano tutta la provocazione di quelle parole. Stavano provando a confrontare le loro esperienze con quello che diceva Enzo. Ma il relatore proseguiva, implacabile.
«Il secondo esempio che voglio raccontare» riprese «riguarda quel giorno in cui mi hanno chiamato in un grande ospedale di Bari a raccontare l’organizzazione della mia unità di Chirurgia, cosa facevo io con i miei assistenti, gli infermieri, l’ambulatorio. Era la “Giornata del malato”. Ho raccontato con impeto, spiegando perché facevo certe cose, cosa dicevo, i due meeting settimanali in cui tuttora insegno pazientemente le questioni di metodo e il rapporto con il malato. L’organizzazione, il senso del gruppo, il senso dell’autorevolezza intesa come riferimento. Alla fine del mio intervento, uno si alza e mi chiede dove ho imparato queste cose. Certo sono stato in America, in Inghilterra, ma dovevo essere chiaro, e così di fronte a quell’enorme platea di primari, chirurghi, ho detto: “Capisco che risveglierò molte perplessità, però lo dico ugualmente: a me un certo don Luigi Giussani3 ha insegnato a fare il chirurgo”. Avete presente la platea, un gran brusio.»
Un certo brusio si levò anche nella platea di Cesena.
«Don Giussani» proseguì Enzo «non mi ha insegnato a tagliare, le tecniche, quello l’ho imparato io. Mi ha insegnato una posizione umana per cui diventano importanti e definitive la tecnica, il malato, quello che faccio di me stesso. Per questo adesso, per come sono, posso dire che, professionalmente, ho un gusto nel fare le cose che vedo raramente negli altri. Non lo dico per vanagloria, non è mica merito mio: mi sono trovato coinvolto in un’avventura così.»
Enzo, come sempre, raccontò degli episodi a sostegno di quello che stava dicendo, poi passò al terzo punto. La platea stava cercando ancora di fare i conti con i primi due, ma lui ormai veleggiava in mare aperto.
«Un giorno, facendo lezione agli studenti» proseguì, «con un colpo di mano li ho portati nel mio studio, mi sono messo di fronte a loro e ho chiesto: “Perché fate Medicina?”. Mi hanno guardato come se non ci avessero mai pensato: erano al sesto anno! Subito sono arrivate le risposte più banali: il mio papà ha già lo studio, ho letto il tale libro… Poi da dietro si sentì parlottare e uno mi disse: “Scusi, professore, noi siamo venuti a fare lezione, perciò se lei vuole andare avanti con queste domande filosofiche lo dica perché noi andiamo a casa”. Ho dovuto far lezione, non potevo scegliere. Vi rendete conto? Era la censura di qualunque domanda di utilità, di senso di scopo al sesto anno di Medicina, quando si ha in mano qualcosa che prima o poi è una licenza di uccidere. Che uno non si domandi perché lo fa, è un disastro totale. Che non risponda a niente e nessuno di quel che fa, è un disastro totale. Mi sono reso conto dell’importanza di una formazione dei giovani, come del resto avevo avuto io, in cui si ponga questa domanda che decide anche di come si usano gli strumenti che ti sono dati. Il senso dello scopo decide degli strumenti che usi (e io ne uso tanti) e della decisione che devi prendere: “Mi fermo” o “Vado avanti”.»
Una scelta che Enzo doveva fare continuamente. L’aveva fatta poche ore prima, di fronte alla cisti della sua paziente. «Cosa lo decide, altrimenti? Come del resto decidi di tutta la vita, della tua famiglia, di tutte le cose. Ma lì è ancora più decisivo, istante per istante: non rispondere a niente e nessuno è veramente una formula drammatica, assurda.»
Una breve pausa. Un sorso d’acqua. Probabilmente tanti ricordi di volti amici, di compagni di cammino. Vent’anni in continuo movimento da Bologna verso il mondo, cercando di tornare sempre a dormire a casa a Modena, la sera, dove lo aspettavano Fiorisa e i ragazzi, ma senza mai sottrarsi a richieste, sfide, dolori. «Pensando a me stesso» riprese Enzo, la voce ora un po’ più bassa, «ci sono alcune cose che mi colpiscono molto. Io ho a che fare con la malattia, con l’uomo malato, col dolore e la morte. Questa è l’espressione normale del limite dell’uomo. La malattia, la sofferenza, il dolore e la morte sono l’espressione normale, ma più acuta del limite dell’uomo, del fatto che l’uomo è limitato e che questo non può essere mai tolto dalla consapevolezza della nostra vita.»
Le mani tornavano ad agitarsi, la voce risaliva, diventava quasi grido.
«Che io “crepi” è una verità, che voi “crepiate” è una verità! La consapevolezza di questo porta già di per sé una serietà nella vita. È proprio la consapevolezza che la vita ha un suo limite, e se questo limite entra dentro la coscienza normale delle nostre relazioni decide da subito di una capacità di rapporto altrimenti impossibile. È il senso del limite che ti mette di fronte all’altro uomo, immediatamente insieme, anche se non è della tua idea, anche se non capisce, anche se non ti guarda nemmeno. Perché, come lui, anche tu sei bisognoso e, per essere te stesso, anche tu hai bisogno. La malattia, il dolore, la morte sono il segno che più mi ric...

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