Walden ovvero vita nei boschi (Deluxe)
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Walden ovvero vita nei boschi (Deluxe)

Henry D. Thoreau

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Walden ovvero vita nei boschi (Deluxe)

Henry D. Thoreau

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Nel luglio 1845 Henry Thoreau, a ventotto anni, lascia la sua città natale e va a vivere sulle rive del lago Walden, in una capanna da lui stesso costruita, rimanendovi per più di due anni. Nella quiete dei boschi coltiva il suo orto, legge, osserva gli animali, passeggia sulle rive o fino a qualche villaggio vicino, scrive, fa piccoli lavori in casa, nuota. Thoreau vuole "marciare al suono di un tamburo diverso" e cerca la libertà immergendosi nei ritmi della natura. Testo seminale della consapevolezza ambientalista e caposaldo della controcultura americana, Walden è il resoconto autobiografico di questo esperimento di vita solitaria, la cronaca quotidiana di un ritorno alla semplicità e una dichiarazione d'indipendenza dalla pochezza morale di una società dedita all'accumulazione di ricchezza. Questa nuova edizione BUR Classici Deluxe, con le immagini dei luoghi in cui Thoreau è vissuto scattate all'inizio del Novecento, ripresenta ai lettori il capolavoro di una vita e uno dei primi romanzi sulla natura e l'ecologia della storia della letteratura.

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Information

Publisher
BUR
Year
2020
ISBN
9788831802482
Capitolo I

ECONOMIA

Quando scrissi le pagine che seguono – o meglio la maggior parte di esse – vivevo da solo, nei boschi, a un miglio di distanza dal più prossimo vicino, in una casa che m’ero costruito da me sulle rive del lago di Walden, a Concord, Massachusetts; mi guadagnavo da vivere con il solo lavoro delle mie mani. Ci sono vissuto per due anni e due mesi. Attualmente sono ritornato nel consorzio civile.
Non annoierei tanto il lettore con i miei affari privati, se il mio modo di vita non fosse stato oggetto di particolareggiate domande da parte dei miei concittadini – domande che qualcuno potrebbe considerare fuori luogo, ma che a me non appaiono affatto tali, anzi – considerate le circostanze – assai naturali e appropriate. Qualcuno mi chiese cosa vi trovassi da mangiare; se non mi sentissi solo; se non avessi paura; e via dicendo. Altri vollero sapere che parte delle mie rendite destinassi a scopi filantropici; e altri ancora, di famiglia numerosa, mi chiesero quanti bambini poveri mantenessi. Chiedo pertanto scusa a quei miei lettori che non hanno particolari curiosità sulla mia persona se, in questo libro, mi accingo a rispondere a qualcuna delle domande di cui sopra. In molti libri, l’«io» o prima persona viene omesso; in questo sarà conservato; il che, per quanto riguarda la nota personale, costituirà la principale differenza. Di solito non ci si ricorda che, dopo tutto, è sempre la prima persona che parla. Non mi dilungherei tanto su me stesso se vi fosse qualcun altro che conoscessi altrettanto bene. Sfortunatamente, sono costretto a limitarmi a questo argomento dal campo ristretto della mia esperienza. Per ciò che mi riguarda, d’altro canto, io esigo da ogni scrittore, prima o poi, un semplice e sincero resoconto sulla sua vita; e non soltanto quello che egli ha sentito dire sulle vite degli altri uomini, ma una narrazione sul tipo di quella che manderebbe ai suoi parenti, da un paese lontano; ché, poi, se egli è vissuto con sincerità, quel paese deve veramente essere stato lontano dal mio. Forse queste pagine sono più che altro rivolte agli studenti poveri. Quanto al resto dei miei lettori, essi accetteranno ciò che più corrisponde alle loro indoli. Confido che nessuno vorrà forzare l’interpretazione di questo libro (come forzare le cuciture d’un abito che si voglia adattare a una certa corporatura), esso potrà fare un buon servizio solo a colui cui si adatta.
Vorrei dire qualcosa che riguardasse non tanto i cinesi o gli indigeni delle isole Sandwich,1 ma proprio voi, che leggete queste pagine e si dice viviate nel New England; dire qualcosa sulle vostre condizioni, soprattutto su quelle sociali, in questo mondo, in questa città, quali esse siano, e se si renda proprio necessario che vadano tanto male (come vanno in effetti) o se invece possano venire migliorate. Ho girato molto, qui, a Concord; e dovunque, in botteghe, uffici, campi, la gente mi parve condannata a soffrire in mille maniere cospicue. Persino le forme di sofferenza volontaria cui, a quanto si dice, si sottopongono i Brahmini2 che siedono esposti ai quattro venti osservando il sole senza batter ciglio o che, restando sospesi a testa all’ingiù, si lasciano pendere sopra le fiamme o guardano il cielo con la testa rovesciata «finché divien loro impossibile riassumere la posizione naturale, mentre, a causa della torsione del collo, nello stomaco non può discendere altro che cibo liquido»3 – o che dimorano, incatenati per tutta la vita, al piede d’un albero, o misurano con il loro corpo (alla maniera dei vermi) l’estensione di vasti imperi o, ancora, ritti su di una gamba sola, restano immobili sulla sommità di un pilastro – sono difficilmente più incredibili e sorprendenti delle scene di cui ogni giorno sono testimone. A paragone delle fatiche cui i miei compaesani si sono sottoposti, quelle di Ercole diventano un gioco da ragazzi perché le sue erano solo dodici, e avevano una fine, mentre non mi capitò mai di vedere che quelli trucidassero o catturassero mostri o portassero a compimento un lavoro intrapreso. Non hanno nessun Iolao che con un ferro infuocato bruci le radici della testa dell’Idra: e così, appena una testa viene schiacciata, ecco che altre due ne balzano fuori.
Conosco certi giovanotti, miei concittadini, la cui sventura maggiore è avere ereditato poderi, case, granai, bestiame e strumenti da lavoro: ché, di queste cose, è assai più facile entrare in possesso che liberarsi. E per loro sarebbe stato meglio essere venuti alla luce a ciel sereno, in un prato, e venire allattati da una lupa, poiché in tal caso avrebbero potuto vedere con occhi più limpidi quale campo erano chiamati a lavorare. Chi li fece schiavi della gleba? Perché dovrebbero dare fondo ai loro sessanta acri quando l’uomo è condannato a consumare solo il suo pugno di sterco?4 Perché dovrebbero cominciare a scavarsi la fossa appena venuti alla luce? Sono nati a vivere la vita di un uomo, spingendosi innanzi tutte queste cose e cercando di cavarsela nel modo migliore. Quante povere anime immortali ho incontrato, quasi completamente schiacciate e soffocate sotto il loro carico, discendere strisciando la strada della vita spingendosi innanzi un granaio di settantacinque per quaranta piedi, con le sue stalle Augee5 mai rigovernate, e cento acri di terra arativa, da pascolo e da fieno, più un boschetto da trarne legna. Per i diseredati che non devono lottare contro tali inutili intralci, è già abbastanza faticoso dover domare e coltivare pochi piedi cubici di carne umana.
Ma gli uomini s’affaticano poiché partono da principi sbagliati. La parte migliore dell’uomo è subito arata nel suolo, per farne concime. E da un fato simile, che è comunemente chiamato necessità, egli è impiegato – come dice un vecchio libro – a riporre tesori che tignole e ruggine presto corromperanno e i ladri violeranno e ruberanno. È una vita da pazzi, come capirà egli stesso quando ne sarà giunto alla fine – se non prima. Si dice che Deucalione e Pirra crearono l’uomo gettandosi pietre alle spalle.
«Inde genus durum sumus, experiensque laborum,
Et documenta damus, qua simus origine nati.»
O, come tradusse Raleigh6 con i suoi versi sonori,
«From thence our hard kind hard-hearted is, enduring
[pain and care
Approving that our bodies of a stony nature are.»
Tanto, per avere obbedito ciecamente a un oracolo ingannevole, per essersi cioè gettati pietre alle spalle, senza guardare dove cadessero.
Persino in questo paese relativamente libero, gli uomini, nella maggior parte (per pura ignoranza e errore), sono così presi dalle false preoccupazioni e dai più superflui e grossolani lavori per la vita, che non possono cogliere i frutti più saporiti che questa offre loro: le fatiche eccessive cui si sottopongono hanno reso le loro dita troppo impacciate e tremanti. In effetti, un uomo che lavori duramente non ha abbastanza tempo per conservare giorno per giorno la propria vera integrità: non può permettersi di mantenere con gli altri uomini i più nobili rapporti, perché il suo lavoro sarebbe deprezzato sul mercato; ha tempo solo per essere una macchina. Come può ricordare con chiarezza la propria ignoranza – che il suo progressivo miglioramento gli richiederebbe – se deve servirsi tanto spesso delle nozioni che sa? Dovremmo nutrirlo e vestirlo gratuitamente, talvolta, e rincuorarlo con cordiali, prima di formulare un giudizio su di lui. Le qualità migliori della natura umana, come i fiori in boccio, si possono conservare solo avendone la massima cura. Eppure noi non trattiamo né noi stessi né gli altri con tanta tenerezza.
Sappiamo bene che qualcuno di voi è povero, che fa fatica a tirare avanti e che, talvolta – per dire così – gli manca perfino il fiato necessario da vivere. Sono certo che tra voi che leggete questo libro ci sono di quelli che non riescono a pagarsi tutti i pasti che hanno effettivamente consumato, o i vestiti e le scarpe che stanno per logorare o che hanno già logorato; e che sono giunti a questa pagina spendendo tempo rubato o preso a prestito, sottraendo un’ora ai loro creditori. Io mi aguzzai la vista con l’esperienza, e così mi appare evidente che la maggior parte di voi conduce una vita meschina e abbietta: siete sempre in bilico, tentando di entrare in affari e insieme di tirarvi fuori dai debiti – costume antichissimo questo, che i latini chiamavano aes alienum, bronzo altrui, perché alcune delle loro monete erano in bronzo – vivendo, morendo, venendo sepolti sempre per mezzo di questo bronzo altrui; promettendo sempre «pagherò», ripetendo «domani pagherò» e morendo oggi, insolventi; tentando di ottenere favori e credito in tutti i modi possibili (scartando solo quelli che implichino rischio di galera) cioè con la menzogna, la piaggeria, il voto; contraendovi in un guscio di noce di cortesia o dilatandovi in un’atmosfera di sottile e vaporosa generosità, pur di riuscire a indurre il vostro vicino a commissionarvi la fabbricazione delle sue scarpe, del suo cappello, del suo cappotto o della sua carrozza, o l’importazione delle spezie di cui abbisogna; arrivando ad ammalarvi per metter da parte qualcosa per quando sarete ammalati – qualcosa che riponete in un vecchio cassone o dentro una calza nascosta sotto l’intonaco o, per maggiore sicurezza, sotto mattoni, non importa dove, né importa se molto o se poco.
Talvolta mi meraviglio che si possa essere tanto superficiali, per così dire, da applicarsi a quella volgare ma piuttosto straniera forma di servitù chiamata Schiavismo Negro, quando vi sono padroni così astuti e così scaltri che riescono a tenere schiavi Nord e Sud. È duro avere un sorvegliante sudista; ancora più duro averne uno nordista; peggio di tutto, però, è essere negrieri di se stessi.
Parlano del divino nell’uomo. Guardate il cavallaro, sulla strada maestra, che va al mercato di giorno e di notte: c’è qualcosa di divino che s’agita in lui? Il suo compito più alto è foraggiare e abbeverare i cavalli. Che importanza ha, per lui, il suo destino, di fronte agli interessi di spedizione? Non guida i suoi cavalli per Messer Agitatello? Cos’ha di divino o di immortale? Guardate come si accascia e striscia, come passa i suoi giorni in preda a vaghe paure: non essendo né immortale né divino, ma schiavo e prigioniero di se stesso, vale a dire di una reputazione che s’è acquistata con le proprie azioni.
L’opinione pubblica è un tiranno assai debole, paragonata alla nostra opinione personale. Ciò che determina o piuttosto indica il fato di un uomo è l’opinione che egli ha di se stesso. Quale Wilberforce7 potrà attuare l’autoemancipazione, persino nelle province indiane occidentali dell’immaginazione e della fantasia? Pensate a quelle signore che si preparano all’ultimo giorno della loro vita tessendo cuscini da toilette per tema di tradire un interesse troppo vivo nel loro destino: quasi si potesse uccidere il tempo senza ferire l’eternità. La maggioranza degli uomini vive in quieta disperazione. Ciò che si chiama rassegnazione è disperazione rafforzata. Dalla disperata città si entra nella disperata campagna; e ci si deve consolare con il coraggio delle martore e dei topi muschiati.
Una disperazione stereotipa ma inconscia si nasconde persino sotto quelli che vengono chiamati i giochi e i divertimenti umani. Non c’è alcun divertimento in essi, ché questo viene dopo il lavoro. Ma è tipico della saggezza non commettere azioni disperate.
Se – per usare le parole del Catechismo8 – consideriamo quali siano il fine fondamentale dell’uomo e le vere necessità e i veri mezzi di vita, la conclusione logica più chiara è che gli uomini scelsero di proposito la corrente maniera di vita perché la preferivano a ogni altra. E tuttavia, in tutta onestà, essi pensano di non avere altra scelta. Ma le nature vigili e sane ricordano che il sole si alzò limpido.
Non è mai troppo tardi per rinunciare ai nostri pregiudizi. Non possiamo accettare nessuna maniera di pensare o di agire – per quanto antica essa sia – senza averla precedentemente sperimentata. Ciò che tutti, oggi, accettano per vero apertamente o senza discutere, può apparire falso domani; puro vapore d’opinioni, che qualcuno aveva creduto fosse una nube che avrebbe portato pioggia benefica sui suoi campi.
Ciò che i vecchi vi dicono che voi non potete fare, fatelo: così scoprirete che invece ne siete capaci. Azioni vecchie per i vecchi e azioni nuove per gente nuova. Probabilmente gli antichi non sapevano come procurarsi il combustibile per alimentare il fuoco; i moderni mettono un po’ di legna secca sotto una caldaia e si fanno trasportare attorno al globo alla velocità degli uccelli – in una maniera tale che, come si dice, ucciderebbe gli antichi.
L’età avanzata non è meglio qualificata della gioventù a dettare precetti; quasi quasi le è alla pari: infatti è più quello che ha perduto che quello che ha acquistato. Si può persino dubitare che con il solo vivere l’uomo più saggio abbia imparato qualcosa che sia effettivamente di un qualche valore. Praticamente, i vecchi non hanno importanti consigli da dare ai giovani; le loro esperienze personali sono state parziali, e la loro vita è stata un susseguirsi di sfortunati fallimenti – avvenuti certo, come essi debbono credere, per ragioni estranee alla loro volontà: se però è loro rimasta ancora un po’ di speranza (come può anche capitare) questa smentisce la loro esperienza, e così essi sono soltanto meno giovani di prima.
Sono vissuto per circa trent’anni su questo pianeta e devo ancora sentire dai più vecchi di me la prima sillaba di un consiglio valido o per lo meno sincero. Essi non mi hanno detto nulla, e probabilmente non possono dirmi nulla, che serva allo scopo. La vita è un esperimento che in gran parte io non ho ancora tentato; il fatto però che essi l’abbiano portato a termine, a me non porta vantaggio alcuno. Se posseggo qualche esperienza che penso possa essermi utile, mai di essa i miei Mentori mi fecero...

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