La pelle fredda
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La pelle fredda

Albert Sánchez Piñol

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La pelle fredda

Albert Sánchez Piñol

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Poco dopo la Prima guerra mondiale un ex combattente per l'indipendenza irlandese decide di abbandonare la sua terra e rifugiarsi in una minuscola isola della Patagonia con il compito di registrare e misurare gli eventi atmosferici. Una volta arrivato, però, si rende conto che il suo predecessore non è intenzionato a cedere il posto: l'ufficiale Batís Caffó, impazzito per la solitudine, barricato in un faro, cerca in tutti i modi di ostacolarlo. Una notte, abbandonato dal compagno fuori dal rifugio, il giovane scopre che quell'isola è abitata da creature anfibie provenienti dal mare. Esseri all'apparenza mostruosi, che però nascondono un'anima quasi umana, e che possono addirittura amare, ed essere amati. Per il protagonista sarà l'inizio di un viaggio affascinante e sensuale sui confini dell'identità, un'esplorazione degli abissi sconosciuti racchiusi dentro ognuno di noi.

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Information

Publisher
BUR
Year
2020
ISBN
9788831802741

1

Non siamo mai infinitamente distanti da coloro che odiamo. Dunque, per lo stesso motivo, potremmo credere che non saremo mai assolutamente vicini a coloro che amiamo. Conoscevo già quest’atroce principio quando m’imbarcai. Ma ci sono verità che meritano la nostra attenzione e altre con le quali è inutile stabilire un dialogo.
L’isola si offrì alla nostra vista per la prima volta all’alba. Da trentatré giorni i delfini avevano abbandonato la poppa della nostra nave e da diciannove il fiato dei membri dell’equipaggio esalava dalla bocca sotto forma di nuvolette. I marinai scozzesi si coprivano con manopole che arrivavano al gomito. Erano così impacciati dalle pelli che sembravano trichechi. Per i senegalesi dell’equipaggio, quelle fredde latitudini rappresentavano un supplizio, e il comandante aveva concesso loro di spalmarsi del grasso di patata sulle guance e sulla fronte come un maquillage protettivo. La sostanza si scioglieva stillando dagli occhi. Scivolavano lacrime, ma non si lamentavano mai.
«La sua isola. Osservi l’estrema linea dell’orizzonte» mi disse il comandante.
Non fui in grado di vederla. Soltanto quel mare gelido, come sempre, otturato da nuvole distanti. La nostra traversata non era stata movimentata dalle forme e dai pericoli degli iceberg antartici, benché ci trovassimo parecchio a sud.
Nessuna montagna di ghiaccio, nessuna traccia di quei naturali e imponenti giganti alla deriva. Subivamo tutti i disagi di questo Sud mentre ci veniva negata la sua magniloquenza. Il mio destino, dunque, era sulla soglia di una gelida frontiera che mai avrei valicato. Il comandante mi diede il cannocchiale. «E adesso? La vede?» Sì, la vidi. Una terra schiacciata tra i grigi dell’oceano e del cielo, circondata da una corona di schiuma bianca. Nient’altro. Dovetti attendere ancora un’ora; poi, man mano che ci avvicinavamo, i contorni diventavano visibili a occhio nudo. Ecco la mia futura dimora: un’estensione a forma di elle che da un capo all’altro raggiungeva a stento il chilometro e mezzo. L’estremità nord era un rilievo di granito occupato dal faro che si notava per la sua altezza da campanile. Non era proprio d’imponente grandezza, ma le ridotte dimensioni dell’isola gli conferivano, per contrasto, una corposità megalitica. Sul tallone della lettera elle, a sud, c’era un’altura più piccola. Da qui spuntava la casa dell’ufficiale atmosferico. Vale a dire, la mia casa. I due fabbricati erano uniti da una specie di valle dove allignava una vegetazione umida. Gli alberi crescevano come un branco di animali stretti gli uni sugli altri, alla ricerca di rifugio nei corpi altrui. Erano ricoperti di muschio. Un muschio più compatto delle siepi dei giardini, alto fino alle ginocchia. Fenomeno curioso. Macchiava i tronchi come una lebbra di tre colori: blu, viola e nero.
Attorno all’isola, scogli sparsi qua e là rendevano assolutamente impossibile gettare l’ancora a meno di trecento metri dall’unica spiaggia che si stendeva ai piedi della casa. Quindi, non restava altro che caricare il mio bagaglio e il sottoscritto su una scialuppa. Il fatto che il comandante mi accompagnasse sulla terraferma si doveva interpretare come un atto di cortesia non dovuto. Non era tenuto a farlo. Ma durante il viaggio era nata tra di noi quella specie di complicità che, a volte, si stabilisce tra uomini di generazioni diverse. Il comandante era originario dei quartieri portuali di Amburgo, si era poi guadagnato la patria danese. Un tratto caratteristico in lui erano gli occhi. Quando guardava qualcuno non esisteva nient’altro al mondo. Soppesava gli individui con metodi da entomologo e le situazioni con l’autorevolezza dell’esperto. Qualcuno l’avrebbe potuto definire severo: io credo che quello fosse il suo modo di mettere in pratica gli ideali di tolleranza nascosti tra le pieghe del suo animo. Non avrebbe mai confessato a parole il suo amore per il prossimo, ma le sue azioni erano dirette a questo. Mi trattò sempre con la gentilezza del carnefice su commissione: se poteva fare qualcosa per me, l’avrebbe fatto. In fin dei conti io chi ero? Un uomo più vicino alla giovinezza che all’età matura, assegnato a una minuscola isola spazzata da correnti polari. Per dodici mesi avrei dovuto vivere là, in una solitudine d’esilio, lontano da qualunque costa civilizzata, con un lavoro tanto monotono quanto irrilevante: annotare la forza, la direzione e la frequenza dei venti. Lo prevedevano gli accordi internazionali di navigazione. Naturalmente la paga era buona, ma nessuno accettava una destinazione come questa per denaro.
Io, il comandante, otto marinai e quattro scialuppe raggiungemmo la spiaggia. Gli uomini avrebbero impiegato un po’ di tempo a scaricare le provviste di un anno intero, oltre ai bauli e agli effetti personali che avevo con me. Molti libri. A quanto ne sapevo, avrei avuto un sacco di tempo a disposizione e volevo tenere il cervello occupato con le letture che gli ultimi anni della mia vita mi avevano impedito di fare. «Bene» disse il comandante quando si rese conto che l’operazione sarebbe stata lenta, «su!» Quindi, io e lui andammo avanti sulla sabbia. Un viottolo in salita conduceva alla casa. Il precedente inquilino s’era dilettato a innalzare staccionate. Pezzi di legno rigettati e levigati dal mare, piantati in modo assai rudimentale. Sì, l’opera di una mente razionale. Per quanto possa sembrare incredibile, fu questo particolare a farmi pensare per la prima volta alla persona che stavo per sostituire. Costui era un individuo reale, ora potevo vedere gli effetti della sua azione sul mondo, per quanto fosse accidentale. Pensai a lui e a voce alta dissi: «Strano che l’ufficiale atmosferico non sia venuto ad accoglierci. Dovrebbe essere ben contento che gli diamo il cambio».
Proprio come mi capitava di solito con il comandante, un secondo dopo aver parlato mi morsi la lingua: da tempo le sue idee anticipavano le mie. La casa era davanti a noi. Un tetto conico con tegole di ardesia e muri di mattoni rossi. La costruzione era priva d’armonia e della benché minima attrattiva. Sulle Alpi sarebbe stato un rifugio, un eremo nel bosco o una caserma della dogana.
Il comandante, pacato e senza scatti, si applicò per un lungo minuto a una ricognizione visiva, come chi fiuta un pericolo. Gli avevo ceduto ogni iniziativa. Un vento mattutino agitava i rami dei quattro alberi di una varietà di quercia canadese, che segnavano gli angoli dell’abitazione. L’aria non era gelida ma fastidiosa. Benché l’atmosfera fosse vagamente desolata, non era in qualche modo definibile. Il problema non era quello che c’era, ma ciò che non vedevamo. Dov’era l’ufficiale? Era da qualche parte, indaffarato in uno dei compiti della sua missione? O stava semplicemente passeggiando per l’isola? Un po’ alla volta, andavo raccogliendo brutti indizi. Le finestre erano piccoli rettangoli con vetri molto spessi. Le imposte di legno erano aperte. Non mi piacque. Si poteva ancora intuire un vecchio giardino che, a ridosso dei muri, avvolgeva la casa. Pietre mezze interrate ne segnavano i limiti, ma la maggior parte delle piante era scomparsa come calpestata da una torma di elefanti.
Il comandante fece un suo gesto caratteristico: tirò il mento verso l’alto, come se fosse leggermente soffocato dal collo del pastrano blu. Spinse quindi la porta che si aprì con un’ingiuria da tomba di faraone profanata. Se le porte avessero potuto parlare, quel cigolio avrebbe detto: «Entrate, se volete, io non me ne assumo certo la responsabilità». Entrammo, sì.
Lo spettacolo ricordava il diario di un qualche esploratore dell’Africa: era come se una colonna di formiche tropicali avesse devastato quel luogo, divorandone la vita e oltraggiandone gli oggetti. I mobili principali erano intatti. Abbandono più che distruzione. L’abitazione era formata da un solo locale. Il letto era al suo posto, anche il caminetto con la sua montagnola di legna. Il tavolo era caduto a terra. Il barometro a mercurio era intatto. Gli utensili della cucina erano spariti. Non so perché, ma questo particolare mi parve un mistero assoluto. Non si vedevano gli attrezzi personali del mio predecessore, né la strumentazione di lavoro. Lo stato di abbandono mi parve frutto di qualche strana follia più che l’effetto di cataclismi naturali. E, benché triste, il posto nel complesso continuava a essere abitabile. Il fragore delle onde giungeva chiaramente sino a noi.
«Dove possiamo lasciare le cose del signor ufficiale dell’aria e del vento?» disse Sow, un senegalese appena arrivato. I marinai erano riusciti a trasportare i bagagli dalla spiaggia.
«Qui, qui, qui dentro da qualche parte, fa lo stesso» dissi con grande energia per dissimulare lo spavento che quella voce inattesa m’aveva provocato. Il comandante indirizzò contro i marinai l’irritazione causata da quello spettacolo: «Sow, faccia sistemare questo disastro ai ragazzi, per favore».
Mentre gli uomini s’affannavano a deporre i bauli e a mettere a posto le cose, il comandante mi suggerì di andare al faro.
«Magari, lì troviamo il suo predecessore» mi disse quando ormai i marinai non potevano più sentirci. A quanto gli risultava, anche il faro era abitato. Non ricordava esattamente se appartenesse agli olandesi, ai francesi o a chi altri, ma a qualcuno di certo apparteneva. L’addetto al faro era il vicino dell’ufficiale atmosferico, e sarebbe stato comprensibile e assai sensato iniziare con lui un’amicizia di circostanza. Eppure, ciò era più il frutto di un ragionamento che di una speranza. Potevamo anche stabilire l’ubicazione dell’atmosferico, ma restava inspiegabile lo stato della casa: in ogni caso, era opportuno recarvisi.
Ricordo l’inquietudine che provai in quel breve tragitto, immagino che fosse dovuta in buona parte allo stato d’animo di quel momento. È anche vero che non stavamo percorrendo uno di quei boschi a cui siamo abituati. Un viottolo, tracciato dall’andirivieni dell’uomo, conduceva sino al faro lungo un percorso quasi diretto, interrotto soltanto quando il muschio, infido, nascondeva gore di fango e liquami neri. Immediatamente dietro gli alberi, il mare ci sfiorava con una cadenza atona. Ma la cosa peggiore era proprio il silenzio o, per meglio dire, l’assenza di rumori. Non esistevano quelle melodie che si associano alla natura silvestre, non c’erano uccelli né insetti schiamazzanti. Numerosi tronchi di grosse dimensioni erano ritorti per l’azione dei venti. Dalla nave, questa massa boschiva mi era sembrata piuttosto fitta: la distanza spesso travisa la percezione della densità umana o vegetale. Non in questo caso. Erano così appiccicati gli uni agli altri che risultava spesso difficile distinguere se due alberi originavano dalla stessa radice oppure da diverse. Il nostro percorso era interrotto da una serie di rigagnoli insignificanti. Sembravano formati dall’acqua di disgelo proveniente dalle montagne, che non scaturiva da nessuna sorgente in particolare. Un passo lungo bastava ad attraversarli.
La sommità del faro apparve all’improvviso, stagliandosi al di sopra degli alberi più alti. Il percorso s’interruppe alla fine del bosco e potemmo vedere il nudo zoccolo granitico sul quale s’innalzava la costruzione. L’oceano la circondava da tre lati, nei giorni di forte mareggiata doveva sbattere con violenza contro la pietra. In ogni caso, chiunque fosse stato l’architetto aveva lavorato coscienziosamente. Una superficie tondeggiante e compatta per resistere meglio al flagello del mare, cinque troniere medievali ben distribuite, un piccolo balconcino, stretto, con il parapetto arrugginito, una cupola a coronamento aguzzo. Del tutto incomprensibili apparivano invece le costruzioni annesse al balcone. Aste e pali incrociati, spesso con l’estremità appuntita. Era forse un’impalcatura per dei lavori di riparazione? Non avevamo tempo né voglia di pensarci su.
«Ehi là, ehi là, ehi là!» gridava il comandante percuotendo la porta di ferro con il palmo della mano. Non ricevemmo risposta, ma quella sollecitazione bastò a far scoprire che la porta non era chiusa. Si trattava di un infisso robustissimo. Il ferro aveva lo spessore di una spanna ed era stato rinforzato con dozzine di ribattini di piombo. La porta era così massiccia che dovemmo spingerla tutti e due insieme per scostarla. Dentro, c’era una luce strana che filtrava dall’esterno, producendo effetti da cattedrale. Sui muri resisteva ancora un rivestimento di calce che diffondeva biancori sulle pareti concave. Infine, una scala saliva a spirale aggrappata alla pietra. Da ciò che potevamo vedere, il piano inferiore era adibito a magazzino generale con una notevole quantità di utensili e di scorte.
Il comandante borbottò qualcosa a bassa voce che non riuscii a capire. In modo molto deciso cominciò a salire. I novantasei gradini terminavano sotto una superficie di legno che costituiva il pavimento del piano superiore. Un colpo a una botola quadrata e fummo dentro.
In realtà, c’era una stanza perfettamente ordinata e tiepida. Una stufa con tubo a gomito occupava il centro di uno spazio quasi circolare, interrotto solo da un muro con una porta. Forse, lì dietro c’era la cucina. Altre scalette conducevano a un altro piano che doveva sicuramente contenere i meccanismi del faro. Fino a questo punto, tutto era plausibile: l’incongruenza stava nell’ordine e nello stile con cui la casa era disposta. Gli oggetti erano sistemati con cura sul pavimento lungo i muri. Erano allineate suppellettili che di solito si mettono su tavoli o scaffali. Su ciascuna delle casse, fossero dotate o no di un coperchio, c’era sempre un peso. Per esempio, una scatola di scarpe e sopra le scarpe un ferro da stiro a carbone. Inoltre, un fusto cilindrico di petrolio di mezzo metro d’altezza, zeppo di panni sporchi. Sopra, un pezzo di legno li comprimeva. Sia il ferro sia il pezzo di legno costituivano degli imperfetti coperchi: non sarebbero mai riusciti a coprire la puzza, se questo era l’effetto desiderato. Si potrebbe dire che il proprietario temesse che il contenuto spiccasse il volo, come degli uccellini liberati dalla gravità, e per questa ragione assicurasse i suoi piccoli depositi con solidi carichi. E, infine, il letto. Un vecchio giaciglio con sottili sbarre di ferro sulla testiera. Coperto da tre spesse coltri, l’uomo. Senza dubbio lo avevamo sorpreso a metà del sonno. Quando entrammo, aveva già gli occhi aperti. Ma non c’era segno di reazione. Ci osservava con degli occhietti da talpa senza batter ciglio. Aveva le coperte fino al naso come la pelle di un orso. Il locale si offriva alla nostra vista molto pulito, lui non tanto. Era uno spettacolo fluttuante tra l’inerme, lo sciatto e il feroce. Sotto il materasso, un orinale pieno fino all’orlo di freddo piscio.
«Buongiorno, signor tecnico dei segnali marittimi. Siamo venuti a dare il cambio all’ufficiale atmosferico, suo vicino» disse il comandante senza giri di parole, puntando con la mano la direzione della casa. «Sa dove è andato a finire?»
Le parole del comandante mi rammentarono che c’eravamo allontanati di un chilometro e mezzo dalla spiaggia dello sbarco. Percepii che quella distanza era più lunga di tutto il tragitto tra l’Europa e quell’isola. Pensai anche che di lì a poco il comandante se ne sarebbe andato. Dal letto, una mano ricoperta di peli neri iniziò un vago movimento. A metà strada però smise. L’immobilità dell’uomo esasperava il comandante.
«Non mi capisce? Non capisce la mia lingua? Parla francese? Olandese?»
Ma quell’individuo si limitava a fissarlo. Non si prendeva nemmeno la briga di scostare le coperte dal viso.
«Ma per l’amor del cielo!» ruggì il comandante agitando il pugno chiuso. «Sto facendo un importante viaggio commerciale e sono di passaggio! Su richiesta della società armatrice ho fatto una deviazione dalla mia rotta per lasciare qui quest’uomo e portare via con me il suo predecessore. Riesce a capire? Ma l’ufficiale atmosferico attuale non c’è. Non c’è. Mi potrebbe dire dove trovarlo?»
Il guardiano del faro guardava alternativamente me e lui. Nient’altro. Stizzito e rosso in viso, il comandante insistette.
«Sono il comandante e dispongo di pieni poteri per trascinarla davanti a un tribunale se non mi fornisce l’informazione necessaria alla salvaguardia di beni e persone! Glielo ripeto per l’ultima volta: dov’è l’ufficiale atmosferico che era destinato a quest’isola?»
«Sfortunatamente non posso rispondere alla sua domanda.»
Cadde il silenzio. Avevamo quasi rinunciato a entrare in comunicazione con quell’essere che improvvisamente ci aveva sorpreso con un accento da artigliere austriaco. Il comandante cambiò tono, un po’ più calmo.
«Bene, così va meglio. Perché non può rispondermi? Ha qualche contatto con l’ufficiale atmosferico? Quando l’ha visto l’ultima volta?»
Ma di nuovo l’individuo si rinchiuse nel suo silenzio.
«Si alzi!» ordinò bruscamente il comandante.
L’altro obbedì un po’ alla volta. Scostò le coperte e mise fuori i piedi. Aveva un fisico per nulla disprezzabile. I suoi movimenti facevano pensare a un albero sradicato che impara a camminare. Rimase seduto sul letto guardando verso terra. Era nudo. Esibire la sua nudità non gli faceva né caldo né freddo. Il comandante però scostò lo sguardo da quel corpo che puzzava. Il petto era coperto da un tappeto di peli che si inerpicavano sulle spalle come piante silvestri. A sud dell’ombelico, la densità della peluria era da giungla. Vidi un membro rilassato ma gigante. Mi spaventò il fatto che anch’esso risultasse coperto di peli, praticamente fino al prepuzio. Che ci fanno i tuoi occhi lì?, dissi fra me e me, e spostai lo sguardo fino al volto del nostro interlocutore. Aveva una barba da stilita classico, per nulla curata. Era uno di quegli uomini dai capelli tanto fitti che cominciavano un paio di centimetri sopra le ciglia, assai folte pure esse. Sedeva su un materasso, appoggiando le mani sulle ginocchia, con le braccia in una posizione simmetrica. Gli occhi e il naso si concentravano in mezzo alla faccia lasciando grandi spazi per le guance dagli zigomi mongoli. Si sarebbe detto indifferente all’interrogatorio. Non sapevo esattamente se si comportava così per disciplina o sonnambulismo, ma lo osservai attentam...

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